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Emanuele Mongiardo

Stefano Pioli è nella storia del Milan

Gli anni metteranno in prospettiva quanto sia stato importante Stefano Pioli per la risalita del…

Dopo mesi di voci, la scorsa settimana è diventato ufficiale: il ciclo di Stefano Pioli al Milan si è concluso. Cinque anni sono davvero tanti per i canoni del calcio moderno, tanto più in Italia, dove sembra quasi impossibile progettare a lungo termine. Il Milan aveva provato a prolungare ulteriormente la gestione Pioli, con un ricco mercato estivo che aveva l’intenzione di rinnovare e ravvivare la rosa, ma cattivi risultati in Europa, l’incapacità di lottare per lo scudetto e i problemi nel gioco hanno convinto la società che fosse arrivato il momento di cambiare.

 

L’annuncio dell’addio con una clip sui canali social rossoneri è stato solo l’antipasto di ciò a cui avrebbero assistito i tifosi a San Siro: un ultimo saluto in grande stile, accanto a quelli di Kjær e Giroud.

 

Il pubblico milanista si è abituato agli addii commoventi. Prima, nel 2012, il saluto a una generazione di fuoriclasse straordinari, quella di Nesta, Seedorf, Inzaghi e anche van Bommel. Poi, lo scorso anno, quello a Zlatan Ibrahimović. Nomi che appartengono tutti al meglio del calcio recente, non solo alla storia del Milan. Il fatto che Pioli abbia saputo commuovere i tifosi al pari loro rende l’idea di quanto siano stati intensi gli ultimi cinque anni e di quanto fosse diventato profondo il legame tra questo gruppo squadra, col suo allenatore in testa, e il pubblico. A piangere non erano solo i tifosi sugli spalti, ma anche qualche giocatore in campo, come testimoniano gli occhi lucidi di Bennacer durante il discorso di commiato.

 

 

Il periodo di crisi, insomma, non ha scalfito l’amore tra Pioli e il mondo milanista. I tifosi sono stati i primi, in questi mesi, a essere critici verso l’allenatore, ma la consapevolezza di aver vissuto qualcosa di unico è rimasta intatta anche durante questo lungo addio. Probabilmente, tra qualche anno, quando si riguarderà indietro alla storia del Milan, a Pioli verrà riconosciuto come una figura di rilievo ancora più grande di quanto non sia oggi.

 

Se infatti il pubblico milanista oggi può dire di nuovo che “Milano non si accontenta”, come recitava uno striscione esposto dalla Curva Sud in contestazione alla dirigenza qualche settimana fa, buona parte del merito è proprio di Pioli. Lui, il cui arrivo dopo l’esperienza alla Fiorentina sembrava proprio un sintomo di scarsa ambizione, ha portato il Milan a ricalcolare i suoi obiettivi e ha contribuito a trascinare fuori dalla mediocrità il gigante caduto in disgrazia per il quale anche una qualificazione in Champions sembrava un miraggio.

 

Jake la Furia, illustre milanista, in una barra di una decina di anni fa in cui rivendicava la sua autenticità, diceva ai suoi haters che «è grazie a me che potete insultarmi». L’ex allenatore del Milan potrebbe arrogarsi lo stesso diritto: se negli ultimi due anni c’è stato motivo di criticare Pioli, è grazie al lavoro di Pioli stesso.

 

L’estate del 2019 è stata un momento spartiacque nella storia recente dei rossoneri. Quell’anno il modo di approcciare al calciomercato è cambiato rispetto alle gestioni precedenti. Lo scouting ha iniziato ad avere un ruolo fondamentale e si è pensato che Marco Giampaolo potesse essere l’uomo giusto per guidare il club in una nuova era. Se la valutazione dell’allenatore era evidentemente errata, non lo era invece quella dei giocatori.

 

Al suo arrivo Pioli si è ritrovato tra le mani un mix tra le rose costruite dal duo Mirabelli-Fassone e Leonardo e i giocatori portati in estate dalla nuova gestione targata Maldini-Boban-Massara. Questi ultimi erano quasi tutti ragazzi giovani, in cerca di affermazione. Giocatori intensi, veloci, che amavano toccare il pallone senza dover sottostare a troppi vincoli: Theo, Leão, Bennacer, Rebić rispondevano tutti a queste caratteristiche. Nessuno di loro aveva bisogno di un allenatore dalle idee troppo rigide, né di un sergente di ferro.

 

In Pioli, allora, hanno trovato un mentore, l’uomo giusto con cui crescere: nel suo Milan i successi sul piano tecnico sono stati una conseguenza della gestione dello spogliatoio a livello umano. Magari sarà stato il suo passato da allenatore della Primavera di Bologna e Chievo, o più in generale la sua abitudine a interfacciarsi con i giovani, palesatasi soprattutto negli anni alla Fiorentina. Pioli ha messo a suo agio un gruppo di ragazzi poco più che ventenni, ritrovatisi a vestire una maglia pesante come quella del Milan in un momento storico in cui la misura era colma dopo anni di fallimenti. Gli ha permesso di esprimersi senza timori reverenziali e questa è stata la premessa decisiva per rendere così duratura e stabile la sua permanenza al Milan. «Divertirsi è fondamentale, è ciò che cerchiamo. Dobbiamo essere seri, concentrati e professionali. Ma il calcio è passione, divertimento. Quando alleni ragazzi che sono molto giovani, bisogna permettergli di esprimere il loro entusiasmo in campo», aveva dichiarato al Guardian nell’inverno del 2022.

 

Un approccio sereno e paziente, volto a fornire ai giocatori il tempo necessario per sbocciare, a patto di dimostrare l’atteggiamento giusto: Tonali e Leão ne sono stati gli esempi migliori. I due sono passati da essere le delusioni della stagione 2020/21 a trasformarsi in trascinatori nell’annata dello scudetto.

 

Poi, dopo lo spogliatoio, a parlare è stato il campo, dove Pioli si è rivelato la guida adatta anche da un punto di vista tecnico. Arrivato con la solita, sminuente fama di normalizzatore, in pochi mesi ha trasformato il Milan nella squadra più brillante del campionato.

 

Dopo il lockdown, dall’estate del 2020 il Milan ha iniziato a giocare un calcio fresco ed efficace, ritornando ad essere costante nel quotidiano e competitivo contro le grandi della Serie A: qualcosa che non accadeva da quasi un decennio. Nel 2020/21 sono arrivati i picchi di gioco più alti, con una squadra fluida che è arrivata a permettersi di poter giocare con un’ala come Rebić da prima punta. L’antipasto è stata la rimonta contro la Juventus di Sarri e Ronaldo in un San Siro deserto, da 0-2 a 4-2 giocando un’ultima mezz’ora a mille. Quel Milan sembrava volare in alcuni momenti e funzionava così bene da non patire gli infortuni: chiunque entrasse, in quel periodo, rendeva all’altezza dei titolari. Poi, l’anno dopo, la brillantezza nella manovra è diminuita, compensata però dall’esplosione di Leão, dalla presenza di Giroud e da una fase difensiva granitica, sia nei momenti di pressing alto sia in quelli di difesa posizionale. È così che si è arrivati al culmine del ciclo di Pioli, lo scudetto conquistato a Reggio Emilia contro il Sassuolo.

 

La partita che ha fatto capire a tutti che il Milan di Pioli faceva sul serio.

 

Nei suoi momenti migliori, insomma, il Milan ha avuto tante facce diverse, sostenute però da principi che non sono mai cambiati: aggressività senza palla, manovra verticale, ricerca degli uno contro uno per sfruttare al meglio la rosa che più di tutte, in Italia, disponeva di giocatori capaci di accendere la partita con iniziative individuali.

 

D’altra parte, sono state queste le idee di Pioli lungo tutta la sua carriera. Un tecnico che ha sempre messo al centro del suo calcio i giocatori capaci di portare palla (Candreva e Felipe Anderson alla Lazio, Chiesa alla Fiorentina) e che nel Milan, quindi, ha trovato i migliori interpreti possibili: Theo, Leão, Tonali, Brahim. La volontà di inseguire questo tipo di gioco ha valorizzato le scelte di mercato del Milan a partire dall’estate del 2020 e ha permesso di recuperare anche due investimenti del periodo di Yonghong Li come Kessié e Çalhanoglu, perfetti per le idee di Pioli: il primo con la sua capacità di coprire tanto campo, il secondo, invece, libero di esprimersi da trequartista di quantità e non da numero dieci creativo come si pensava al suo arrivo in Italia.

 

Per intraprendere la strada della coerenza a livello tecnico, però, è stato fondamentale un altro aspetto di cui Pioli, con le sue scelte, si è fatto carico e che si tende a sottovalutare. Con il tecnico emiliano, per la prima volta dopo troppi anni il Milan ha trovato un allenatore che si sia preso la responsabilità di potare i rami secchi. Dai tempi Galliani, passando per Mirabelli e Fassone e arrivando a Leonardo, la rosa è sempre stata un’accozzaglia di parametri zero, occasioni di mercato e giocatori arrivati grazie alla rete di rapporti personali del dirigente di turno. Se si voleva portare avanti una visione coerente, come quella che stavano cercando di instillare Maldini e la nuova dirigenza, non era possibile ammettere tutto ciò. Le idee di Pioli da questo punto di vista sono state decisive.

 

Si è capito che il Milan doveva giocare un calcio aggressivo e verticale. A gennaio del 2020, allora, finalmente è stato ceduto Suso, l’uomo che teneva in ostaggio la manovra e che la rallentava col suo gioco monodimensionale. Discorso simile per Paquetà, ceduto a settembre del 2020, il cui stile poco si addiceva ai principi di Pioli. A centrocampo, Biglia era stato un fedelissimo di Pioli alla Lazio, ma non era evidentemente più in grado di accontentare il tecnico: così l’argentino è scomparso e finalmente Bennacer ha potuto prendersi il centrocampo. Alla sua seconda stagione, l’evidenza di dover trovare un difensore adatto ad un gioco così aggressivo ha spinto la società a investire su Tomori: in poche settimane Pioli non si è fatto problemi a trasformarlo in un titolare, preferendolo al capitano di quella squadra, Alessio Romagnoli. La dirigenza ha creato le premesse per avviare un nuovo ciclo; Pioli, sul campo, si è occupato in maniera pratica di tagliare i ponti col passato.

 

La vittoria del campionato nel 2021/22 ha solo dimostrato che la strada intrapresa era quella giusta. Il Milan è tornato ad essere una squadra degna della sua storia. Il percorso con Pioli ha dato alla rosa la sicurezza nei propri mezzi tipica delle squadre di alto livello. L’anno dopo lo scudetto il Milan ha iniziato a regredire, ma, pur in un momento di crisi, quando c’è stato da affrontare la Champions League come ultimo appiglio per salvare la stagione, la squadra è tornata a compattarsi attorno al suo allenatore. Il Milan ha affrontato da una condizione di inferiorità gli ottavi di finale contro il Tottenham e i quarti contro il Napoli. Eppure i giocatori hanno dimostrato fiducia cieca nel piano di Pioli, che ha riadattato il suo calcio al contesto europeo. Senza coesione, competenza e credibilità, una campagna europea come quella dell’anno scorso non sarebbe stata possibile.

 

Pioli ha creato un circolo virtuoso per il quale la squadra si è affezionata a lui. Lo ha dimostrato attraverso gioco e vittorie, e il pubblico, di conseguenza, è tornato ad affezionarsi alla squadra come non accadeva da tempo, fino ad arrivare al punto in cui lo stadio sembrava davvero riuscire ad incidere sul risultato. I sold-out di questi anni a San Siro portano anche la sua firma.

 

Poi, però, le troppe sconfitte nei derby e un gioco via via più rigido, ancorato a iniziative individuali o a soluzioni ripetitive e poco efficaci, hanno portato alla separazione di questi giorni. L’impressione che il rapporto tra Pioli e il Milan si sia prolungato più del dovuto è stata netta negli ultimi mesi. I tifosi hanno palesato il proprio malessere in maniera crescente. L’addio dello scorso sabato è servito a calmare gli animi, a ridare senso a questi cinque anni. L’impressione è che i mugugni, i problemi che ci sono stati, siano già stati messi da parte dai tifosi.

 

Adesso il Milan è a un punto di svolta, perché il pubblico chiede alla società che si torni a lottare per vincere, non a farsi scivolare addosso le stagioni accontentandosi dei piazzamenti. Qualora arrivassero delle vittorie con un nuovo allenatore in un futuro prossimo, però, bisognerà ricordare il ruolo di Pioli, insieme ai dirigenti e ai giocatori passati in questi anni. Sono stati loro a creare le premesse affinché il Milan tornasse a lottare per ciò che gli compete.

 

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Emanuele Mongiardo nasce a Catanzaro nel 1997. Scrive di calcio su "Fuori dagli schemi" e di rap su "Four Domino".