Steph Curry ha già 37 punti a tabellino quando il cronometro entra nell’ultimo minuto di gara-2. Suo fratellino Seth ha appena portato avanti Portland di uno con una tripla con sopra il watermark della famiglia Curry, tra gli applausi dei genitori in tribuna. Steph con la partita sul filo sceglie di usare il blocco alto di Draymond Green per attirare su di lui il raddoppio e poi scaricare la palla sullo short-roll del suo compagno preferito, che a sua volta serve un perfetto lob sul lato debole per l’onnipresente Kevon Looney. Una manciata di secondi dopo sul possesso che allontana definitivamente Portland prima della pagaiata di Iguodala, Curry gioca l’identico pick&roll con Green che questa volta arriva direttamente al ferro. È la stessa giocata con la quale hanno disintegrato la difesa di Houston nella serie precedente.
L’infortunio subito da Kevin Durant contro gli Houston Rockets non solo ci ha regalato una gara-6 memorabile, «la migliore vittoria della dinastia Warriors» secondo il proprietario Joe Lacob, ma ci ha anche ridato la versione di Steph Curry che stavamo aspettando da tempo - specialmente dopo il punto più basso della sua incredibile carriera in NBA, con la schiacciata sbagliata negli ultimi secondi del supplementare di gara-3.
Nonostante il dito medio lussato con cui stava affrontando la serie, davanti a certe prestazioni c’era poco a cui appigliarsi: Curry era evidentemente alle prese con un blocco mentale. Poi, dopo l’infortunio di Durant, nell’ultimo quarto di una gara-5 in cui stava tirando male (chiusa con 11 errori da 3) si è preso le sue responsabilità e ha messo 12 punti decisivi per vincerla. Ma questo era solo l’antipasto dell’eruzione di gara-6, in cui ad un primo tempo senza neanche un punto in 12:15 minuti in campo (prima volta che gli è successo in carriera ai playoff), Curry ha risposto chiudendo la serie con 23 punti nel decisivo quarto quarto, di cui 16 negli ultimi cinque minuti. Quando i Rockets hanno provato a mandarlo in lunetta per accorciare le distanze, lui ha tirato 8 su 8, confermando la statistica che non lo vede sbagliare un libero tra ultimo quarto e supplementare di una partita di playoff addirittura dalle Finals del 2015.
Nonostante gli evidenti problemi al tiro, Curry ha chiuso le prime due serie come quinto giocatore più efficiente della lega (61.4 di percentuale reale). Nel momento più difficile dell’anno abbiamo visto non solo cosa sono gli Warriors di Curry, ma anche quanto la sua tenuta mentale sia ben superiore a quello che gli viene riconosciuto. Le sue ultime prestazioni hanno definitivamente aperto gli occhi su quanto lui sia veramente la colonna portante che tiene in piedi tutta la dinastia di Golden State.
Con l’assenza di Durant si è visto immediatamente l’aspetto più appariscente del carisma di Steph Curry, quello del giocatore che non ha paura di prendersi le sue responsabilità e che quindi si riprende totalmente in mano una squadra guidandola come se fosse il 2015-16. Curry ha bisogno di creare un certo ritmo all'interno della partita, come se fosse un agente atmosferico che trasforma una pioggia regolare in un acquazzone: «Ovviamente è bello vedere la palla entrare» ha detto dopo gara-1 contro Portland. «Non ho tirato bene per quattro partite e mezzo nell’ultima serie e sono partito bene in questa. Voglio continuare così, ma ogni partita è differente: devi ristabilire te stesso, e questa è la mia prospettiva». Le sue parole arrivano dopo una prestazione da 39 punti, in cui i dolori della serie precedente sono sembrati veramente un lontano ricordo, durante la quale Curry ha imposto il suo controllo prima di tutto mentale sulla partita. Come detto sempre da Steph: «Si vede dal morale, dal modo in cui tutti sorridono e sono aggressivi sul campo. Che sia fare un blocco o ruotare, ruotare o tagliare forte, tutte queste cose. Quando crei buoni tiri così, è divertente per tutti».
Ogni volta che Green blocca per Steph succede qualcosa di buono.
La leadership silenziosa di Steph
Proprio l’attenzione al morale della squadra e all’importanza di creare quelli che per lui sono buoni tiri è l’aspetto meno appariscente della sua leadership, nonostante sia forse quello più importante per una squadra come gli Warriors. Da quando è salito nel firmamento NBA, il due volte MVP ha sviluppato un atteggiamento sempre più inclusivo nei confronti dei compagni di squadra, in linea non a caso con la filosofia di Steve Kerr. Le letture e le reazioni sono una parte fondamentale del sistema di Golden State, con Kerr che è poco propenso a chiamare giocate specifiche e più portato invece a lasciare i giocatori leggere e reagire alla situazione specifica secondo i dettami di Phil Jackson. In questo contesto, Curry può indirizzare di volta in volta la giocata: se nota durante la partita che Klay Thompson è freddo, fa di tutto per scaldarlo anche forzandolo con passaggi per farlo tirare. È successo ad esempio durante lo slump di Thompson a inizio stagione, quando dal nulla è arrivata l’eruzione con 14 triple mandate a segno contro i Chicago Bulls.
Dopo l’approdo di Durant nella Baia di San Francisco, gli Warriors si sono abituati a lasciarsi cullare dal dolce suono della retina che si muove dopo gli isolamenti poetici del 35. La palla si muove di meno perché in Durant c’è un giocatore che può segnare come e quando vuole non appena gli arriva il pallone. E se è vero che Curry ha cambiato l’NBA con la sua efficienza nelle triple dal palleggio lanciate da ogni punto del campo, con l’arrivo di Durant si è specializzato sempre di più nella tripla piedi per terra dopo essersi riposizionato fuori dall’area - così da lasciare spazio al compagno di fare il suo gioco, senza però rimanere fermo a guardare lo sviluppo dell’azione. Questa conclusione che sembra uscita dai video di Sasha Djordjevic lo vede inizialmente cedere il pallone a Green o Durant (che insieme coprono il 45.8% delle sue scelte di passaggio) e muoversi come un elastico rilasciato dopo la tensione: prima verso il canestro e poi, dopo aver cambiato passo, dalla parte opposta dell’area, mentre un secondo bloccante ostruisce la strada al marcatore, dandogli spazio e tempo per tirare.
Come fa notare Jared Dubin su Uproxx, dall’arrivo di Durant nella stagione 2016-17, Steph Curry ha tirato 148 triple in stagione regolare di questo tipo, che lui definisce “riposizionate” - tirando nella prima col 48.9%, nella seconda col 50.2% e in questa con il 51.7%. In sostanza, nel rumore di fondo della sua stagione sommamente efficiente, sparisce il fatto che Steph Curry segni sopra il 50% da tre quando può ricevere dopo essersi riposizionato. Il tutto nella squadra che già possiede uno dei migliori tiratori piedi per terra della storia della NBA in Klay Thompson. E se questo può essere rumore di fondo per noi, non lo è per il coaching staff degli Warriors, che infatti hanno notato il trend e l’hanno incoraggiato, portando l’11.3% delle 11.7 triple prese da Steph Curry in stagione ad essere di questo tipo (nel 2016-17 era il 5.9%, nel 2017-18 invece era già salito all’8.2%). La sua capacità di concludere senza dover avere la palla in mano tutto il tempo gli permette di avere un Usage costantemente sopra il 30% nel post Durant, pur aumentando la quantità di conclusioni per una squadra che ha lo stesso numero di possessi (sempre attorno a 100 in questo triennio, mentre il resto della NBA è schizzato alle stelle).
La percentuale di assist di Curry è scesa costantemente, passando 31.2% della prima al 24.2% (da notare anche che la percentuale di palle perse di questa stagione, 11.6%, la più bassa in carriera). Ma come dice lui stesso: «Ho sempre provato ad essere multidimensionale: che questo porti assist o no non importa veramente, la cosa che conta è fare la giocata giusta». Curry è un moto perpetuo dal momento in cui lascia il pallone a un compagno fino a quando lo riprende per tirare. Questo - insieme al fatto che Thompson non ha bisogno di palleggiare per tirare - è il segreto che permette agli Warriors di funzionare con tre giocatori che tirano 20 volte a partita. Steph ha accettato di buon grado il mantra di Kerr che predica la circolazione del pallone per far sentire tutti coinvolti e quindi pronti al momento di tirare. Ha capito anche che muovendosi tantissimo può comunque avere lo stesso volume di conclusioni che aveva quando l’attacco iniziava con la palla sempre nelle sue mani e con la minaccia del suo tiro dal palleggio. Perché muovendo la palla muove la difesa, e può quindi scegliere il momento giusto per attaccare il canestro con un’efficienza maggiore.
Va detto che dalla stagione 2013-14, Curry è uno dei soli cinque giocatori in grado di segnare 1.2 punti per penetrazione a canestro per più di una stagione, con gli altri che sono Durant, James, Harden e Leonard. Col tempo Curry ha migliorato in modo sostanziale la qualità e la varietà delle sue soluzioni sotto canestro, ma è innegabile come - vista la sua corporatura e il fatto di non essere esattamente il giocatore più veloce in campo - sarebbe impossibile avere le stesse percentuali attaccando costantemente la difesa in isolamento. Ma non lasciatevi ingannare dalla faccia da bimbo e dallo scarso atletismo: la pallacanestro di Curry è molto più fisica e intraprendente vicino al ferro di quanto l’eye test non dimostri. Rispetto ai suoi primi anni, la parte superiore del corpo si è rinforzata e ora non disdegna il contatto quando si trova in penetrazione, sfruttandolo a suo vantaggio per trovare angoli di conclusione impensabili per molti.
La sua aggressività è utile anche in tutto quel lavoro di intangibles che produce quando il pallone non ce l’ha lui, specie quando deve piazzare blocchi lontano dalla palla su giocatori più grossi di lui, un aspetto nel quale è uno dei migliori della lega. Senza l’abitudine al contatto, tutto il suo enorme gioco off the ball non avrebbe lo stesso valore. Così come sarebbe un negativo totale in difesa, dove invece riesce a non essere un disastro come altri colleghi con altrettanto volume di gioco offensivo e corporatura simile. Anzi, la velocità con cui legge le azioni l’ha portato in questi playoff anche a esagerare nell’aggressività della ricerca del pallone, finendo per andare fin troppo spesso con problemi di falli nei finali di gara.
Un trade-off che Kerr è felice di accettare, visto che un Curry motivato e dentro la partita cambia radicalmente l’efficacia dell’attacco, rendendolo di fatto infermabile. Quando si impegna a rimbalzo (un problema cronico di Golden State), trasformando immediatamente i possessi difensivi in transizioni innescando Thompson e Durant o andando lui per la tripla, tornano in mente i Warriors vintage del primo titolo.
La stagione regolare di quest’anno l’ha visto tornare ai livelli di volume ed efficienza vicini alla leggendaria stagione 2015-16. Così la stagione regolare di Curry è stata un tappeto rosso che si è srotolato senza finire mai, soffice e accomodante come sempre.
L’inizio dei playoff sono stati però un altro mondo. La regressione statistica che Curry subisce ogni volta arrivati a questo punto del calendario è innegabile numeri alla mano. Nell’ultimo lustro durante i playoff il suo apporto è calato in aspetti chiave del suo gioco: ad esempio la sua percentuale reale scende di 2.8 punti e perde una palla in più rispetto alle medie della stagione regolare. Gli avversari ai playoff puntano a spezzare il ritmo agli Warriors puntando quasi esclusivamente su Curry, attaccandolo in difesa e creandogli ostacoli per portarlo a forzare conclusioni e palle perse nell’altra metà campo. Sotto questi stimoli continui Curry è sottoposto ad una pressione diversa, che non gli permette di creare l’atmosfera che preferisce per favorire il suo gioco. Il fatto che la regressione statistica nei playoff sia la norma per le stelle NBA e gli infortuni alle ginocchia subiti nel 2016 e nel 2018 qui valgono solo come parziale scusante.
Ogni anno Curry entra nella post-season sapendo che dovrà in qualche modo chiudere la bocca a tutte le narrazioni negative che lo dipingono su una scala diversa da quello che si è conquistato sul campo. Perché Steph è un giocatore da arazzo rinascimentale, non da ritratto ad olio. Mentre la serie contro Houston ha mostrato sia il punto più basso che il picco più alto dell’esperienza Curry ai playoff, il primo turno contro i Clippers ha chiuso il cerchio a una rivalità nata nel 2014 in piena era Lob City e che in questa stagione ha portato al momento più delicato di tutta la dinastia, ovverosia quando Green e Durant si sono scontrati a partita in corso lavando i panni sporchi davanti alle telecamere. Proprio questo episodio però ha mostrato quanto è grande l’impatto di Steph Curry come leader della squadra.
L’uomo che tiene i fili della dinastia
«Ha risolto tutto in privato e dietro le quinte». Quando è stato chiesto a Steve Kerr di come Curry ha gestito la squadra dopo la litigata in diretta nazionale, la sua risposta ha evidenziato tutta la riservatezza e la leadership di Steph. Curry non solo non era presente in campo quando è successo l’incidente: ma non era proprio nella stessa città perché era rimasto a Oakland per finire la riabilitazione. Non appena la squadra è tornata dalla trasferta, però, Curry si è precipitato a casa di Green per parlargli: «Ha giocato un ruolo importante nell’assicurare che questo sfogo in campo con Durant non si trasformasse in qualcosa di ancora peggiore. Si è attivato subito per la questione». Dopo aver parlato in privato con Green ha fatto lo stesso con Durant e con lo staff tecnico, e alla prima partita dopo la sospensione di Green, Curry è volato con la squadra per la trasferta in Texas mettendosi a sedere in panchina tra lui, Durant e DeMarcus Cousins, ridendo e scherzando per coinvolgere i tre durante tutta la gara.
Per Curry il concetto di leadership non è trascinare i compagni dominando un sistema che lo vede come responsabile massimo dei destini di ogni partita. Non è, insomma, una leadership imposta alla Jordan, alla Bryant o alla James. Con il tempo ha trovato un modo diverso per guidare la squadra, che è si fonda sul mantenere una certa cultura fatta di inclusività e responsabilità condivisa, un concetto di gruppo che rema compatto nella stessa direzione senza che debba essere trascinato. Non è la prima volta che si costruisce una dinastia su questo tipo di leadership: in qualche modo era quella propria di Bill Russell (per quanto sappiamo da chi l’ha vissuta) e, soprattutto, di Tim Duncan. Non a caso Steve Kerr lo ha paragonato a un mini Tim Duncan «più che altro per la sua aura e la sua etica del lavoro con una umile, ma talentuosa, combinazione di personalità e abilità». E se possiamo dire che la dinastia degli Warriors nasce come evoluzione di quella degli Spurs, è anche perché i giocatori franchigia si assomigliano molto quando c’è da tenere insieme la squadra. Una squadra che deve accettare e riconoscere un tipo di leadership particolare, alla quale non tutti sono sempre abituati. Questo avviene ovviamente solo se si possiede un talento speciale, ma attorno a questo talento va costruito col lavoro quotidiano e un approccio inclusivo il rispetto del gruppo.
Spesso non si comprende quanto Curry abbia sacrificato della sua gloria personale per creare una cultura e una dinastia sempre più forte intorno a lui. Emblematico in questo quanto si sia speso per far trasferire Durant ad Oakland, pur sapendo che l’arrivo di un fuoriclasse come KD avrebbe compromesso di fatto ogni possibilità di premi personali futuri. Così Draymond Green parla della sua cultura inclusiva: «Per chi non lo sapesse, lo dico io: se Steph avesse detto che non voleva Durant qui, gli Warriors non avrebbero neanche iniziato una singola riunione. Non ha niente a che fare con Kevin, ma ha tutto a che fare con cosa Steph rappresentava e rappresenta per questa franchigia. Ha raggiunto questo livello di rispetto, eppure ha fatto di tutto ed è stato il più coinvolto nel tentare di portare Kevin qui». Da quando Durant è arrivato agli Warriors, Curry ha dovuto trasformarsi in un grande diplomatico per mantenere gli equilibri di un gruppo formato da personalità particolari dentro e fuori dal campo. Lo stesso Durant ammette come Curry parla soprattutto di tattica e di come migliorare in determinate situazioni, ma non si limita ai soliti discorsi motivazionali.
Negli anni Steph Curry ha capito che per far funzionare un gruppo così talentuoso ma eterogeneo nei caratteri avrebbe avuto bisogno di mettere da parte il proprio ego e creare una certa cultura di squadra. La sua aperta ostilità verso le statistiche personali è un pilastro portante della dinastia degli Warriors, una rarità che è anche la loro superiorità sul resto della lega. La pensa così Draymond Green: «Nessuno lo dice mai che Steph Curry ha portato qui gli anelli col suo altruismo. Dicono che Steph ha portato gli anelli grazie al suo talento al tiro, ma il suo altruismo è ancora più grande del suo talento». Ha capito che tutto quello che fa serve per permettergli poi di giocare il basket che gli piace. O almeno questo si può interpretare dalle sue stesse parole: «Tutti vogliono giocare un bel basket e farlo con altri giocatori di grande talento. Allo stesso modo tutti vorrebbero prendersi 30 tiri. Quando però sai di giocare per vincere il titolo ogni anno, la tua mentalità si modifica e modifica il tuo concetto di successo. Il successo individuale in termini di numeri e statistiche varie non ti interessa più così tanto, perché capisci che tipo di giocatore sei in campo, come puoi dominare e come devi lavorare all’interno dei parametri della squadra e dei compagni attorno a te per ottenere il meglio l’uno dall’altro».
Curry è il giocatore franchigia di una delle grandi dinastie della storia della NBA e ha vinto due premi MVP consecutivi (di cui uno all’unanimità, l’unico di sempre). Gli manca il premio di miglior giocatore delle Finali, un vuoto grave per chi ha vinto tre degli ultimi quattro titoli.
Questi playoff sembrano essere arrivati proprio per permettergli di togliersi anche quest’ultima soddisfazione personale. Steph Curry però ha già scritto la legacy che voleva: quella di aver totalmente cambiato la cultura di una franchigia storicamente perdente ed essere riuscito a farlo rimanendo fedele alla sua visione inclusiva del gioco, dimostrando come anche le partite più importanti si possono vincere giocando insieme.