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L'impatto di Steve Kerr sulla storia della NBA
13 set 2018
Come Steve Kerr ha cambiato la lega da quando si è seduto sulla panchina dei Golden State Warriors.
(articolo)
28 min
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Per descrivere Steve Kerr come giocatore di basket basta parlare del tiro che ne ha coronato la carriera. Gara-6 delle Finals 1997, ultima azione per i Chicago Bulls sul risultato di 86 pari contro gli Utah Jazz. Poco prima nel timeout Michael Jordan si è avvicinato a Kerr e gli ha detto di farsi trovare pronto perché, nel caso in cui venisse raddoppiato per l’ultimo tiro, l’avrebbe cercato. Kerr viene ripreso dalle telecamere mentre risponde: «Se arriva sono pronto». E il raddoppio effettivamente arriva, con Jordan che riceve il consegnato di Scottie Pippen e dopo il secondo palleggio per andare a canestro vede avvicinarsi anche John Stockton, l’uomo in marcatura sul biondino. Il 23 si ferma e, invece di tirare come tutto il mondo si aspettava, passa la palla a Kerr solo in punta che si muove verso di lui. Kerr riceve la palla con 3 secondi sul cronometro del tiro e fa quello che sa fare, prende e tira. La palla entra e i Bulls festeggiano il loro quinto titolo.

Questo è solo un altro aneddoto da aggiungere alla leggendaria carriera di Jordan, quello in cui decide di fidarsi del compagno con cui inizialmente era diffidente. Ma per Kerr rappresenta la coronazione di tutta la carriera, visto che quel tiro è il momento più importante della sua carriera da pro. Una carriera che l’ha visto da specialista del tiro, vincere 5 titoli e giocare sotto due dei migliori allenatori della storia del gioco come Phil Jackson e Gregg Popovich. Uno dei migliori tiratori della lega, in un periodo storico in cui le sue qualità erano ancora viste come di complemento alla grande strategia principale. Ai Bulls, ad esempio, la sua presenza in campo era giustificata dalla capacità di punire gli eventuali raddoppi a Jordan e Pippen. Il sistema di Jackson contemplava un giocatore con le sue letture proprio perché l’attacco Triangolo si fondava su questo aspetto particolare di un giocatore: sapere dove mettersi, quando farlo e cosa fare a seconda di dove si trova il pallone e l’avversario. Quando arriva la palla ed è libero Kerr deve tirare: anche se parte sempre dalla panchina, nei pochi minuti in campo sa sempre quello che deve fare e come farlo. Steve Kerr tra i pro è quello che in USA chiamano un role player, più nello specifico un low volume high efficiency player, uno che entra dalla panchina per fare pochi tiri e che questi li deve mettere con efficienza. Un ruolo ingrato, in cui serve una forza mentale spaventosa. E Kerr è stato uno dei migliori della storia in questa specialità.

The shot.

Se ai Bulls il sistema voleva che i giocatori si piegassero ad esso, la sua esperienza a San Antonio gli ha insegnato l’esatto contrario. Popovich aveva installato un sistema che si basava sulle caratteristiche dei suoi giocatori più importanti in David Robinson e Tim Duncan, un sistema quindi che predicava un gioco dentro verso di loro e un movimento del pallone spiccato una volta raggiunta la prima delle due stelle. Le luci erano per loro, il cui talento era in grado di far incastrare il resto della squadra attraverso set in grado di muovere i giocatori di complemento e facilitare il lavoro delle stelle. Se ai Bulls il role player è responsabilizzato, nel dover essere efficace quando chiamato in causa ma che viene chiamato in causa solo se sa come farsi trovare pronto, negli Spurs sono le due stelle (e ovviamente andando avanti il solo Duncan accompagnato da Tony Parker e Manu Ginobili) a gestire il traffico perché sanno dove e come trovare chi può aiutarli. Il punto di contatto in entrambi i casi è che la palla si deve muovere, che sia per letture o che sia per schemi prestabiliti. Kerr arrivato in questo contesto si comporta da veterano, gioca poco e fa il suo lavoro da giocatore di ruolo quando in campo e da uomo squadra fuori. Popovich ne apprezza l’intelligenza e lui guadagna un altro mentore da cui assorbire come una spugna.

La sua esperienza in squadre tanto importanti lo portano subito dopo il ritiro ad iniziare una fortunata carriera come commentatore per la TNT, dov’è rimasto per quattro anni prima dello sfortunato coinvolgimento con i Phoenix Suns dell’era Mike D’Antoni, con cui da GM non è mai riuscito a legare e la cui relazione ha contribuito alla decisione di D’Antoni di andare via. L’esperienza come GM e il rapporto con D’Antoni è stato descritto nei dettagli in questo pezzo su The Athletic in cui si capisce come per prima cosa Kerr non fosse pronto al tipo di lavoro scelto e alla difficoltà che comporta inserirsi provando ad aggiungere qualcosa da fuori pensando di migliorare la situazione. Tanto è vero che solo tre anni dopo è tornato dietro la tv. Nel mentre ha avuto la giusta intuizione di promuovere Alvin Gentry a primo allenatore dei Suns, dando vita a un’ultima fiammata per Steve Nash e compagni conclusa, purtroppo per loro, alle finali di conference del 2010 contro i Los Angeles Lakers.

La scelta di tornare dietro le tv dura poco, il tempo per il terzo figlio di andare al college, e nel 2014 decide di rimettersi in gioco. Lui stesso ne spiega il motivo: “Amavo fare le telecronache, mi dava una bella vita, ma dopo un po’, in tutto quello che fai, non importa più chi vince. Per un paio di anni prima di decidere di allenare, mi sono sentito affascinato dallo sviluppo delle strategie in campo. Provavo a spiegare quello che vedevo, ma era tutta teoria, non potevo mettermi alla prova”. Quando finalmente decide di mettersi alla prova arriva la singola decisione più importante della sua carriera, quando nell’estate deve scegliere se rimanere in California accettando l’offerta dei Golden State Warriors o andare a New York, ad allenare i Knicks il cui nuovo presidente è proprio il mentore Phil Jackson. Lui adesso ci scherza, visto la nube nera che da anni circonda i Knicks e che trasforma tutto quello che tocca in fallimento, dice che probabilmente non sarebbe rimasto a lungo a NYC perché neanche lui sarebbe riuscito a cambiare le cose. Sicuramente scegliere di provare a portare una squadra ambiziosa e ricca di talento come gli Warriors a fare l’ultimo passo è una di quelle che cambiano la storia della NBA. Prima di lui gli Warriors erano una squadra in rampa di lancio; in pochi mesi dal suo arrivo sono diventati una corazzata che passeggia sopra il resto della NBA in regular season.

Foto di Noah Graham/NBAE via Getty Images.

Le fondamenta del sistema

Gli anni a studiare il gioco che si evolve, e soprattutto l’esperienza come giocatore e la sua spiccata intelligenza, portano Kerr a costruire da subito un sistema vincente. Il suo sistema incorpora tutti i principi dell’avanguardia tattica nella NBA in quel momento e dei grandi sistemi in cui lui ha giocato: Kerr è attento a inserire la filosofia di base della Triangolo di Jackson dell’importanza di eseguire dopo aver letto la situazione; prende spunto dagli Spurs di Popovich e dal loro muovere il pallone facendolo toccare a tutto il quintetto prima di trovare il tiro giusto; vuole implementare la velocità del gioco dei Suns di D’Antoni e la voglia di aprire il campo per creare nuovi spazi da esplorare con o senza palla.

Ci sono situazioni che partono dalla Triangolo; ci sono altre che partono dal pick and roll alto tra Curry e Green o da un Curry che cede il pallone in punta a Iguodala per poi muoversi come una guardia tra i blocchi e riprenderselo all’angolo; altre che vedono Curry lontano dal pallone sempre per sfruttare Thompson o addirittura con Green che parte con la palla dopo aver recuperato lui il pallone a rimbalzo difensivo. Quando vuole descrivere come giocano i suoi Warriors dice molto semplicemente: “giochiamo piccolo, tiriamo tante triple e giochiamo veloci”. Riassunto spesso in USA sotto l’ombrello “pace and space”. Se volete approfondire il modo in cui Kerr è arrivato all’intuizione di sviluppare il suo sistema ibrido c’è questo pezzo uscito su ESPN Magazine che racconta proprio i primi passi, con l’aneddoto dei discorsi al tavolo di un ristorante spostando le posate per simulare le giocate.

Detto molto brevemente, tutto nasce dall’idea che due giocatori come Curry e Thompson nella stessa squadra non sono contenibili se entrambi in ritmo, a cui si aggiungono due giocatori come Green e Iguodala che sono in grado di gestire il pallone senza problemi anche da situazioni statiche. Vengono studiati schemi specifici che possano sfruttare la possibilità di avere contemporaneamente i due migliori tiratori in campo e dei giocatori attorno in grado di fargli arrivare il pallone con spazio e intelligenza, attraverso blocchi e passaggi precisi. La base di tutto c’è il fatto che la palla si muove più velocemente dei giocatori in campo e che se si muove la palla si muove anche la difesa. La sua squadra deve quindi diminuire il tempo passato con la palla in mano del singolo giocatore per distribuirlo lungo tutti e cinque. Lo può fare perché piena zeppa di giocatori con spiccata intelligenza cestistica e disposizione al sacrificio della statistica personale. Un gruppo cresciuto insieme dal Draft di Curry in poi a cui viene aggiunto un talento facilitatore come Iguodala, un allenatore in campo che ha la capacità di fare la cosa giusta al momento giusto.

Kerr quindi si immagina una squadra che può utilizzare il terrore che Curry porta nella difesa, il campo magnetico che automaticamente crea per la sua facilità di conclusione da qualsiasi punto del campo, per muovere il pallone contro una difesa troppo lenta e troppo spaventata per adattarsi. Perché se deve muoversi pensando di difendere su Curry a otto metri dal canestro, non può realmente ruotare abbastanza velocemente per poter stare dietro a una palla che viene passata dai quattro citati a grande velocità e con movimento continuo per andare su Harrison Barnes dalla parte opposta. Così si crea l’ambiente ideale per sfruttare poi quando serve il giocatore in quel momento caldo. La palla circola tanto quanto i giocatori, ad alta velocità e in un campo il più aperto possibile: insomma si crea tutto quello che rende più complicato il compito di una difesa nel contestare un tiro. E così si creano delle ondate in grado di creare un parziale non colmabile per gli avversari.

Le squadre non sono (ancora) costruite per difendere su un quintetto così versatile e l’impatto sulla lega è devastante. Qui sta la vera intuizione che porta Kerr ad essere dal primo giorno un allenatore in grado di fare la differenza nella NBA: non tanto per gli specifici set che disegna durante le gare, ma per l’aver compreso come raccogliere l’avanguardia tattica della lega per esaltare un gruppo di giocatori molto particolare. Creare un sistema che mette la propria stella nella condizione di fare il suo basket e prendere teorici role players come Green e trasformarlo in un lungo che gestisce il pick and roll. Non inventa nulla di rivoluzionario rispetto ai semi già lasciati da altri nel corso della storia: trova solo il modo di sfruttare al meglio quello che il roster già presentava, dare un senso alla peculiarità e renderla il punto di forza.

Quello che sembra interessare Kerr, anche quando ne parla in conferenza stampa, è il fatto che tutti i giocatori in campo in quel momento devono sentirsi coinvolti nell’attacco. Chiunque è in campo deve toccare il pallone il più possibile, perché solo così quando arriverà il momento di dover tirare si sentirà pronto. Sembra che la sua esperienza personale come giocatore di ruolo e il fatto di averlo fatto sotto Popovich ha costruito in lui questa filosofia di gioco per cui la palla è in campo per essere condivisa. Anche quando Curry prende e tira da otto metri i compagni non si scompongono, innanzitutto perché sanno che quasi una volta su due quella palla entra e poi perché sanno che all’interno di questo sistema il numero di giocate è abbastanza alto da permettere a tutti di poter partecipare, e che proprio la paura della difesa di subire quel tiro di Curry libera spazio per gli altri.

Il campo restituisce l’immagine di una squadra che nei primi mesi di Kerr prima di tutto si diverte a giocare. E non parlo solo dei titolari: Kerr ne fa un punto di partenza della sua filosofia lo sforzo di inserire all’interno del progetto tutti i giocatori del roster, di mantenere tutti con minutaggio consistente durante non soltanto la stagione regolare, ma anche i playoff: “Penso ci sia qualcosa di potente quando tutti sono coinvolti. L’ho imparato da Phil Jackson. Se vi ricordate ad inizio anni ’90, quando i Bulls hanno iniziato a vincere titoli, lui aveva tanti giocatori che uscivano dalla panchina”. Il sistema funziona grazie ai titolari, ma non solo i giocatori di talento che partono dalla panchina trovano spazio nella partita (non soltanto Shaun Livingston, insomma). Durante le partite cerca di integrare role players puri come Justin Holiday e Marreese Speights: tutti i primi 12 del roster sono sopra i 10 minuti di media giocati in stagione. Chi sta anche più indietro come James McAdoo e Brandon Rush ne giocano comunque 9 e 8. Tutti inseriti all’interno della dinamica della squadra per quanto possibile, anche a costo di perdere un parziale.

Foto di Noah Graham/NBAE via Getty Images.

Il successo immediato

Le vittorie arrivano subito e la squadra è consapevole di poter arrivare lontano, ma quello che si vede più di ogni altra cosa è un atteggiamento proattivo e positivo di tutti i giocatori in campo. Anche delle teste calde come Draymond Green, un giocatore che per la prima volta si sente riconosciuto per il talento che pensa di possedere e che restituisce tale fiducia in campo con un’attitudine difensiva in grado di rendere gli Warriors non solo una corazzata con la palla, ma anche una squadra talmente versatile in difesa da potersi permettere di tenere un quintetto piccolo in campo e forzare gli avversari ad adattarsi.

Anche qui l’intuizione di Kerr risulta decisiva, perché la scelta di liberare Green in difesa permette la creazione di un giocatore da aiuto costante, in grado di uscire fuori dall’arco come di tenere botta sotto canestro. Gli Warriors accettano di cambiare in ogni situazione, con Iguodala e Thompson in grado di risparmiare Curry dall’esterno migliore in campo il più delle volte ma con la stella della squadra a cui viene chiesto di impegnarsi nelle letture difensive, e non essere quindi un telepass come a suo tempo era successo con Steve Nash. Con l’intelligenza di Curry questo è possibile e, a meno di non trovarsi in un cambio sfavorevole contro un giocatore nettamente più grosso, la strategia di cambiare funziona. Come spesso accade, una squadra che si diverte in attacco, poi è più felice di sforzarsi in difesa e gli Warriors che nascono come titano offensivo quasi insormontabile, finiscono per mostrarsi anche tra le migliori difese della lega. Il quintetto che vede Curry, Thompson, Iguodala, Barnes e Green contemporaneamente in campo è talmente dominante nel suo essere versatile in attacco e in difesa da venire soprannominato il Death Lineup (il quintetto della morte) e gli Warriors chiudono la stagione con il secondo migliore rating offensivo e il miglior rating difensivo, grazie anche alla presenza di un’eminenza grigia della difesa come Andrew Bogut (fintanto che il fisico lo sorregge).

Kerr inizia la sua prima stagione stracciando record: primo allenatore a vincere 21 delle sue prime 23 partite; primo a vincere più di 62 partite nella sua prima stagione; primo allenatore a guidare una squadra a due strisce di più di 18 vittorie consecutive in casa nella stessa stagione; record di vittorie in stagione con 67. In pochi mesi dal suo esordio come capo allenatore Kerr già raccoglie i frutti delle sue idee e pone le basi per la creazione di una squadra in grado di dominare la lega. Arriva il primo titolo battendo 4-2 la Cleveland di LeBron James (senza Irving e Love) e il sistema messo in piedi da Kerr si dimostra talmente tanto solido che il volante può essere anche preso in mano dagli assistenti quando i problemi alla schiena lo portano a dover saltare buona parte della sua seconda stagione.

Luke Walton guida la squadra per le prime 43 partite e il modo in cui gli Warriors riescono a rimanere un squadra tremendamente vincente (chiudono con un parziale di 39 vittorie e 4 sconfitte) mostra il grandissimo lavoro nella creazione di un ambiente autosufficiente. In linea con i suoi maestri Jackson e Popovich che erano riusciti a creare un sistema talmente tanto ben tarato da poter vincere partite di stagione regolare per inerzia. Le 73 vittorie con cui gli Warriors rompono il record decennale dei Bulls di Jackson rendono Kerr la prima persona ad aver stabilito il record di vittorie in stagione sia come giocatore che come allenatore. E in questo caso sigilla il fatto che il Kerr allenatore batte il Kerr giocatore.

Il suo rapporto con Curry nell’assecondarne le scelte di tiro pretendendo in cambio movimento continuo e intangibles in campo non è da sottovalutare per il salto di qualità del numero 30 nella sua carriera.

Anche nel suo approccio alla valutazione della performance della squadra riflette un pensiero da Popovich che valuta il sistema attraverso il riscontro statistico di alcuni elementi (per dire, Popovich conta a fine gara il numero dei blocchi per capire quanto un giocatore aiuta il sistema a funzionare). A bordo campo lo si vede il più delle volte tranquillo e serafico, attento a non rompere il ritmo della sua squadra. Quando si alza per gridare qualcosa il più delle volte è la frase “Muovete il pallone”, con la variante che prevede il rafforzativo che comincia per F quando vuole far capire bene di farlo subito. Interviene quando capisce che il singolo giocatore ha problemi o che gli indicatori che utilizza non danno buone notizie sull’esecuzione. Quando in un’intervista Bill Simmons gli chiede quali sono le prime tre cose che guarda nel box score lui ha risposto: “Guardo la percentuale dal campo degli avversari, i nostri assist di squadra e le nostre palle perse di squadra. Se difendiamo e stiamo attenti a trattare il pallone, vinciamo. Generalmente è così e questi tre numeri solitamente mi dicono come stiamo andando”.

Ovviamente parliamo di statistiche base, non esattamente il miglior indicatore per un’analisi attenta della performance di una squadra. Però con questa risposta Kerr vuole fa intendere che lui sa bene come la precisione al tiro va e viene e non sempre dipende dall’esecuzione dello schema e che bisogna invece preoccuparsi di fare bene tutto il resto dove l’impegno e l’attenzione può dare maggiori frutti, come la difesa o la gestione del possesso. La sua idea è che se un giocatore si sente di voler tirare può farlo, sempre e da qualunque posizione, raramente si è visto arrabbiato a bordo campo per una conclusione. Accetta anche due tiri da 8 metri consecutivi, ma non accetta invece due palle perse consecutive. Lì arriva il timeout e il richiamo all’attenzione. Anche perché conosce benissimo la natura della sua squadra e il modo con cui finisce per flirtare con le palle perse.

L’ultima versione degli Warriors

La sconfitta alle Finals 2016 proprio nell’anno del record di vittorie ha portato all’arrivo di Kevin Durant e con lui a una necessaria evoluzione del sistema di Kerr, che è passato dall’avere Barnes libero di tirare sull’angolo opposto all’inizio dell’azione, ad avere un giocatore come Durant che difficilmente sarebbe stato disposto a fare il role player. In questo pezzo su The Athletic che ripercorre i giorni della decisione di Durant si capisce come Kerr sia rimasto più che altro in disparte in quei momenti concitati, lasciando ai suoi giocatori l’opera di convincimento: “Non ho parlato molto. Bob [il GM Myers] e io abbiamo detto un paio di cose e basta. Era realmente tutta una questione tra i giocatori”. Kerr vede nell’inserimento di Durant prima di tutto la necessità di un sacrificio da parte sua nell’accettare il sacrificio necessario per funzionare all’interno di un sistema che vuole vedere la palla girare velocemente. Più avanti dirà a riguardo: “Nella transizione di KD all’interno della squadra c’è del sacrificio, ma si tratta sempre di un sacrificio relativo. Dipende da come lo si guarda: se si vuole vincere e fare parte di una grande squadra, non è un grande sacrificio”.

Foto di Christian Petersen/Getty Images.

Con le difese avversarie che hanno capito come adeguarsi al Death Lineup (difendendo in raddoppio su Curry e cambiando su tutti con giocatori atleticamente in grado di giocare dentro e fuori) il lavoro tattico di Kerr in questo senso è stato immediato nel proporre la versione aggiornata della sua creatura, dove chiede a Durant una dimensione diversa del suo numero di azioni in isolamento o di arresto e tiro senza aver prima mosso la difesa. Ha quindi chiesto un lavoro di adattamento alla squadra per assorbire il volume superiore di conclusioni che Durant avrebbe preso rispetto a Barnes, l’ha fatto non toccando il ritmo di gioco (il pace è passato da 99.3 a 99.8). A risentirne di più ovviamente è stata la stella Steph Curry a cui viene chiesto di scendere sotto i 20 tiri a partita e di muoversi costantemente sfruttando l’attenzione che Durant occupa nella difesa e i blocchi che i compagni piazzano aprendogli la strada. Curry si muove costantemente e la palla si muove con lui; Durant non è il fine ultimo, ma può scegliere quando forzare il tiro se sente di poterlo mettere con un accoppiamento favorevole o quando il cronometro dei 24 si sta avvicinando allo scadere. Un attacco ancora più versatile di prima perché su più dimensioni con Green e Iguodala da facilitatori e Thompson lo spauracchio della difesa avversaria, perché la coperta è necessariamente corta e qualcuno libero dalla marcatura ci deve finire.

Quando gli Warriors prendono ritmo, fanno girare il pallone e si muovono, sono veramente invincibili. Lo stesso Durant secondo Kerr è migliorato proprio nelle intangibles che permettono al sistema degli Warriors di circolare, nei blocchi, nei passaggi prima dell’assist, negli aiuti in difesa: “Quando giochi con grandi giocatori hai la possibilità di migliorare in modi che non sono visibili o evidenti con i numeri come il segnare canestri. Ma credo che KD ci direbbe che è migliorato giocando con Steph, Klay, Draymond e Andre”. Questo è più o meno lo stesso pitch che Kerr aveva venduto a Durant al momento della sua scelta, la possibilità di migliorare prima di tutto come giocatore in un ambiente che potesse esaltare il suo gioco, ma chiedendogli in cambio un sacrificio nelle piccole cose che rendono una grande squadra una squadra invincibile. Proprio come lo erano stati i Bulls di Kerr. Con KD in squadra sono arrivati due titoli consecutivi ma il lavoro di perfezionamento è continuo, Kerr stesso è consapevole di quanto sia impossibile accontentarsi del livello raggiunto in una lega esigente come la NBA: “Penso sia importante continuare ad evolversi. Sappiamo che la lega continua a rincorrerci, tutti stanno migliorando. Basta vedere cos’ha fatto Houston. Ormai tutti decidono di cambiare in difesa contro di noi, hanno più o meno capito un insieme di regole per provare a difenderci”.

Stabilito quindi che lui ha imposto un sistema che da subito si è mostrato l’ideale sublimazione delle avanguardie tattiche della NBA ed è stato in grado di portare gli Warriors ad avere le basi per una dinastia di portata storica, il suo lavoro non è stato tanto importante con la lavagnetta in mano. Quello è importante, certo, ma non è dove Kerr ha imposto la sua impronta maggiore. Kerr ha avuto il coraggio di pensare di pensare costantemente fuori dagli schemi e poi di realizzarlo in campo: un esempio famoso di aggiustamento è quello di mettere Bogut a marcare Tony Allen nella serie di playoff contro i Memphis Grizzlies, puntando sui problemi al tiro dell’esterno avversario tanto bravo dall’altra parte a marcare Curry e facendolo uscire dalla serie. Ed è anche in grado di sviluppare azioni peculiari per permettere - ancora dopo tutti questi anni - a Curry e Thompson di ricevere tante volte liberi fuori dall’arco.

Un esempio è questo del tiro di Curry su passaggio sotto le gambe del centro dopo che il numero 30 ha attraversato in palleggio tutta l’area visto più volte agli ultimi playoff.

Ed è difficile trovare difetti nella sua gestione tecnica. Forse Kerr raramente prova qualcosa di nuovo prima dell’inizio della serie ai Playoff, puntando su aggiustamenti mirati dopo le prime partite, cosa che può significare un inizio più in salita dal punto di vista tattico contro avversari che si accoppiano meglio del previsto da subito. O anche il fatto che, pur di predicare la sua pallacanestro fatta di fiducia nel proprio gioco e nella propria esecuzione, si fida fin troppo della capacità della sua squadra di leggere i momenti della partita e di trovare il modo di creare l’ondata vincente, mentre può capitare che per non rompere il ritmo finisca per assecondare troppo i suoi giocatori. Proprio questo tema però si lega con quello dove la sua impronta maggiore è arrivata nella costruzione della mentalità vincente e nella gestione della quotidianità di una squadra tanto ricca di talento, soprattutto dopo l’arrivo di Durant.

Come gestire un gruppo che vince per inerzia

Lì si vede l’importanza di un capo allenatore-gestore, un aspetto del lavoro tanto importante quanto il costruttore del sistema. Perché la gestione dell’esecuzione di un sistema o dei cambi o degli aspetti tattici di una singola partita può essere delegata anche agli assistenti, ma la gestione del gruppo ricade sulle sue spalle. Il modo in cui gli Warriors hanno chiuso il loro terzo titolo in quattro anni sotto Kerr è in parte grazie al lavoro proprio dell’allenatore nel gestire il gruppo. Una questione troppo spesso sottovalutata, ma che in una squadra sotto le pressioni del livello degli Warriors post-decisione di Durant non si può dare per scontato. Soprattutto sentendo quanto gli stessi giocatori si sono resi conto con il tempo che arrivare fino in fondo costantemente è un lavoro tanto fisico, quanto soprattutto mentale. Come detto da lui stesso in estate, più passa il tempo e più la convivenza di questa squadra con tanta pressione di dover vincere per forza dal post-Durant e di essere una squadra che spesso si trova senza stimoli in partite contro avversari inferiori, rendono ogni anno più difficile del precedente per il gruppo: “È stato l’anno più duro della mia breve carriera da allenatore” ha detto dopo l’utlima stagione. “Quattro anni, ma questo è stato il più difficile sicuramente. Abbiamo avuto le tipiche situazioni interne che ogni squadra ha, forse qualcosa di più delle tipiche, è il peso di rifare qualcosa un’altra volta. Lo sapete che ci sono poche squadre nella storia hanno raggiunto le Finali quattro anni di seguito. Nel mentre ci sono tante situazioni interne che capitano e come allenatore devi essere in grado di aggirarle e far continuare il treno nella stessa direzione”.

Kerr in questo caso si riferisce a due cose precise: una è quella dello scegliere coscientemente di non inseguire più record in stagione regolare, di gestirsi aspettando il momento giusto per girare l’interruttore ai playoff; l’altra sono i battibecchi interni al gruppo. In questi quattro anni il suo lavoro di gestore è quello che gli ha preso più tempo, soprattutto per via di giocatori come Draymond Green che necessitano del confronto/scontro costante per rimanere motivati.

Kerr e Green sono una coppia da sitcom anni ‘90.

Forse l’esempio più famoso di questo rapporto speciale viene riportato da The Athletic quando Green viene lasciato in panchina gli ultimi 10 minuti di una brutta partita contro i Nets e tra i due ne esce uno scontro durissimo. Lo ammette lo stesso Green: “Se mi avesse detto un’altra parola gli sarei saltato addosso. Una sola parola ed ero pronto a menargli. Ma è sveglio, questo devo ammetterlo, non ha aggiunto nulla”. Uno scontro che smobilita anche la dirigenza, preoccupata dalla reazione del giocatore e che Kerr gestisce come sa. Non ne parla direttamente davanti a tutti, trova il tempo di uscire a cena con Green qualche giorno dopo e chiarirsi. Ci riuscirà. Dirà Green: “La gente non capisce la nostra relazione: probabilmente sono più vicino a Steve che a tutti gli altri giocatori di questa squadra”.

Kerr è famoso per la sua onestà e capacità di critica anche davanti alle telecamere, la possibilità di essere l’amico fraterno e il padre inflessibile nell’arco di due frasi. Ma questo lo porta spesso a scherzare con il fuoco e a dover fare il pompiere una volta resosi conti di essere andato oltre. Ma il fatto di aver instaurato una cultura tanto aperta al dialogo tra persone adulte e responsabili delle proprie azioni è forse alla base della creazione di un gruppo tanto unito. Dice Green: “Se qualcuno ha un problema, cosa che accade raramente, noi ce ne occupiamo. Sento che la voce di tutti qui è importante, dal capo all’ultimo arrivato. Tutti possono esporsi e dare il proprio input e questo avviene grazie alla cultura che Steve ha imposto”.

Lo stesso Green, che come avrete capito quando nomina Kerr lo fa con gli occhi che brillano, la stagione scorsa ha parlato di come la vicinanza di Kerr ai problemi sociali in USA è un altro elemento che aiuta l’alchimia della squadra, essendo lo spogliatoio degli Warriors politicamente omogeneo. Una squadra apertamente schierata contro Donald Trump e che trova in Kerr il portavoce senza timore contro il trattamento delle minoranze da parte della polizia, la polemica per le proteste durante l’inno nazionale o a favore di una restrizione alle armi da fuoco (tema caro a chi viene dalla periferia americana). Kerr non ha paura di utilizzare la piattaforma a disposizione vista la sua notorietà per parlare apertamente delle sue idee politiche e questo aumenta il rispetto dei giocatori nei suoi confronti: lo vedono come qualcuno che realmente si preoccupa della comunità, uno dei temi caro a questa generazione di atleti NBA.

La questione delle armi poi ovviamente è strettamente legata alla vita personale di Kerr, con la morte del padre arrivata per un omicidio attraverso un’arma da fuoco in Libano. Una tragedia che ha avvicinato Kerr alle questioni sociali, da cui però era comunque sempre vicino perché viene da una famiglia attenta a questi aspetti: il nonno paterno è stato biochimico, capo del dipartimento dell’Università americana di Beirut, Libano, dov’è nato il padre e dove ha vissuto prima di andare negli USA per liceo e università. In USA il padre si è specializzato in studi mediorientali e diventato professore alla UCLA prima di tornare in Libano per diventare presidente proprio dell’Università americana di Beirut. L’attenzione e il rispetto che la famiglia ha riservato alle altre culture ha cresciuto un uomo spiccatamente empatico e aperto al diverso. Due qualità fondamentali per essere la guida di un gruppo (e lavorare con una proprietà) attento a queste cose come quello degli Warriors.

Ma non è solo un fatto di affinità politiche che lega lo spogliatoio. Kerr ha trovato il giusto equilibrio nella gestione del quotidiano inserendosi come un veterano all’interno del gruppo, uno con cui si può sempre fare la battuta o le gare di tiro a fine allenamento. Non è un allenatore maniacale, non è uno che respira solo pallacanestro ed è disposto a chiudere tutto il suo mondo attorno alla preparazione e al miglioramento del sistema. Ama uscire fuori dal tracciato con i suoi giocatori, legge tanto ed è disposto a condividere le sue esperienze apertamente. In questo ricorda molto Phil Jackson: tratta i giocatori con rispetto considerandoli persone intelligenti e con l’innata voglia di migliorarsi. Il suo libro preferito, quello che fa girare nello spogliatoio (lui dice: “Ne ho una decina di copie perché mi piace sempre passarlo a qualcuno”) si chiama “Il gioco interiore del tennis”, un semplice manuale sull’allenamento tennistico scritto negli anni ‘70 che gli era stato passato quando era giocatore negli Spurs da Chip Engelland, l’allenatore del tiro con cui aveva un grande rapporto.

Il libro sono solo 134 pagine di modi per allenare i tennisti in cui però la filosofia di base secondo Kerr è fondamentale anche per capire il basket: l’atleta, secondo l’autore Galloway, è diviso in due, la sua mente e il suo corpo, e la sua mente spesso rovina quello che il suo corpo è in grado di fare già da solo. Lo fa mettendosi pressione da solo o anche sovranalizzando in tempo reale, ad esempio durante il movimento al momento del tiro. Quello che un atleta deve fare quindi è ascoltare e fidarsi di più del proprio corpo e spegnere gli input del cervello. La pratica porta il corpo a saper rispondere da solo a quello che succede da fuori. Questo è quello che secondo Kerr rende Curry un giocatore tanto speciale proprio quando entra “nel suo mondo”, e lo stesso i può dire di Thompson e Durant. La squadra è un sistema complesso fatto però di individualità: non esiste l’esecuzione della squadra come ammasso informe, ma come somma di tutte le individualità che ne fanno parte. Una volta capito come agire ascoltando solo il proprio corpo tutto il gruppo finisce per muoversi meglio. Per questo Kerr insiste tanto nel voler mantenere tutti all’interno della dinamica e soprattutto nel voler predicare un basket che metta in ritmo chiunque sta in campo allo stesso momento. In fondo si tratta sempre di continuare i predicamenti di Jackson e Popovich, inserendoli all’interno di un gruppo di tante stelle, ognuno con la propria agenda, che devono remare dalla stessa parte per essere invincibili.

E questi Warriors danno l’idea proprio di essere invincibili quando portano in campo le idee del loro allenatore. Che al quinto anno nella lega può già essere considerato tra i migliori in circolazione e già adesso è certo di entrare nella Hall of Fame anche dovesse ritirasi domani mattina. Volendo solo ridurre il discorso ai titoli vinti - non il massimo della profondità d’analisi, però utile per inquadrare la portata dell’impronta di Steve Kerr - al momento ci sono Jackson a 11, Auerbach a 9, Kundla a 5 come Popovich e Riley. Poi lui con 3. In quattro anni quindi Kerr ha già quasi raggiunto il Pantheon assoluto. Tutto quello che fa della figura di Kerr quello che è ora si sposa con quello che serve ad un allenatore d’élite nella NBA attuale: la capacità di costruire un sistema, la capacità di mantenere tutti coinvolti, la flessibilità nel prevedere varianti, la capacità di guidare un gruppo e di superare le agende personali per il bene comune. Nessuna rivoluzione culturale, semplicemente la continuazione del lavoro di chi è venuto prima di lui e da cui ha preso il meglio. Un ex role player che guida la squadra più ricca di stelle della lega e allena ora come sognava di essere allenato.

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