
San Luis Potosí è una città a metà strada tra Città del Messico e il confine con gli Stati Uniti, con un centro storico patrimonio UNESCO, un buon posto in cui vivere e aprire attività industriali. Il 26 giugno 2024 Cristiano Piccini, già terzino con tre presenze nella Nazionale italiana e ideatore di centri commerciali nel metaverso, è atterrato all'aeroporto Ponciano Arriaga per firmare con l'Atlético San Luis.
Come si può intuire dal nome e dalla maglia a strisce bianche e rosse, il club è controllato dal 2015 dall'Atlético Madrid: una delle cose che Piccini ha dichiarato di sapere sulla sua nuova squadra, oltre al fatto che l'allenatore è spagnolo (l'ex vice di Guardiola, Domènec Torrent) e che la filosofia di gioco gli piace molto. Il club ha dimostrato di avere conoscenze altrettanto generiche sulla popolazione italiana, annunciando l'acquisto sui social con un video in cui, sullo sfondo di alcune immagini da cartolina di edifici coloniali, i suoi nuovi compagni di squadra si esibiscono nel gesto della mano a borsa o a carciofo. Sui motivi della scelta non c'è molto da dire: le discussioni con la Sampdoria per il rinnovo contrattuale andavano per le lunghe e poi, in fondo, perché no? Una chiacchierata con un conoscente, il centrocampista spagnolo Édgar Méndez, passato da Cruz Azul e Necaxa, ha aiutato a decidere.
Non è una mossa banale: il Messico resta una destinazione esotica per i calciatori italiani, un luogo di fantasia dove ambientare fake news da sogno come l'arrivo di Montolivo alla Cremonesse Xalapa in una lega non riconosciuta dalla FIFA. Lasciando da parte il caso di Mauro Germán Camoranesi, a cui il passaggio in Messico servirà solo per arrivare in Italia, dove un bisnonno di Potenza Picena gli permetterà di vincere i Mondiali con la maglia azzurra, sono pochi i calciatori italiani che hanno tentato l'avventura in Messico, e ancora meno quelli che ci sono arrivati direttamente, senza fare tappa in altri Paesi esteri. Ho provato a raccontarli nei paragrafi che seguono.
Mierko Blazina al CD Oro (1957-58)
Quando nel luglio del 1957, reduce da un'esperienza in Uruguay e dopo aver rifiutato offerte da una grande del calcio brasiliano, arriva per difendere i pali del Club Deportivo Oro, fondato decenni prima da alcuni gioiellieri del quartiere Oblatos di Guadalajara, Mierko Blazina, «portiere dai nervi d'acciaio» noto per la strana usanza di posizionare del cotone al centro dell'area piccola, detto anche "El Loco" per le sue uscite avventurose, è per tutti un celebre calciatore argentino, talmente iconico con la maglia del San Lorenzo da essersi meritato un tango a lui dedicato. Estremo difensore dell'Oro per la stagione 1957/58 e l'inizio della successiva, nel luglio del 1958 parte per l'Argentina per motivi familiari e non torna più in Messico.
Nato a Gorizia il 18 febbraio 1925, è considerato, a seconda delle fonti, argentino, essendo cresciuto dall'età di otto anni a Buenos Aires, dove ha trascorso gran parte della sua vita e dove, all'interno del museo del San Lorenzo, si trovano le sue ceneri, italiano (oriundo triestino, secondo La Stampa), jugoslavo, croato o sloveno. Resta, comunque, il primo calciatore nato in territorio italiano ad aver militato nel campionato messicano. Sulle sue tracce, negli ultimi anni, un cineasta di Monfalcone, un giornalista triestino, un baritono-giornalista sloveno-argentino e l'ambasciata slovena di Buenos Aires: se avete notizie, contattate pure.
Francesco Gallina all'Atlante (1971-74)
Trapattoni, che ha provato l'ebbrezza di marcare Pelé, lo considera il suo vero incubo, il calciatore che più di tutti gli ha tolto il sonno. Francesco (detto Franco) Gallina, nato a Napoli a Capodanno del 1945, giocatore «beat», «Garrincha dei poveri», è capace di ammaliare e irritare in egual misura. Abituato a indossare foulard e giacche colorate e a viaggiare a bordo di un'Alfa 36 rosa con la capote nera, "Ciccillo", come lo chiamano gli amici, è un'ala destra coi capelli ricci e i basettoni, adattatosi a giocare anche a sinistra, abilissimo a saltare l'uomo, molto meno a centrare la porta.
Due stagioni in B al Genoa finiscono con un'espulsione per un fallo di reazione in una delicata partita con il Catania, i tifosi che lo contestano («ha talento ma poca testa») e il presidente Fossati che ipotizza la pena di morte («Non servono le multe, bisognerebbe ucciderlo»); con il Vicenza debutta in Serie A, andando in gol quattro volte e facendosi notare per aver tirato una scarpa in direzione dell'allenatore, colpevole di averlo schierato in allenamento con le riserve, e per aver criticato le condizioni dell'albergo scelto per il ritiro estivo. Dopo due anni all'Internapoli attraversa l'Atlantico: una stagione con il Montréal Olympique nella NASL e, nel 1971, l'arrivo in Messico per vestire la maglia dell'Atlante. Il debutto, la sera di giovedì 25 novembre, è da sogno: allo stadio Azteca di Città del Messico, un anno e mezzo dopo Italia-Germania 4-3, Gallina va a segno due volte per il 2-1 finale sul Toluca.
Il seguito non è all'altezza: l'esterno napoletano si fa notare per la sua velocità, per quelle florituras che imbastisce sulla fascia, per una serie di carreras a tontas y a locas, ovvero di corse a vanvera, sulla sinistra, ingannando più di un difensore, ma il prodotto finale, nonostante qualche gol, lascia a desiderare. Contro il Jalisco, a dicembre, dopo aver scartato tre avversari ed essere entrato in area, solo davanti al portiere, non trova la porta; un anno dopo, il quotidiano El Informador fornisce una caustica definizione di Gallina, "un individuo veloce che conduce la palla fino all'area per poi perderla irrimediabilmente, perché non sa giocare a calcio". Lascia a desiderare anche l'aspetto disciplinare: in due stagioni e mezza riceve cinque espulsioni (tra cui una per proteste, una per aver colpito Aceves dell'Atlas a palla lontana, una per un calcio a Torres del Guadalajara, una per aver perso tempo deliberatamente) e una squalifica di tre partite per aver insultato e minacciato di aggredire un guardalinee. Sono, per l'Atlante, tempi non facili: la cessione all'IMSS, equivalente messicano dell'INPS, è ancora lontana e, con il proprietario Fernando González, detto "Fernandon", in difficoltà economiche, si vive all'ordine del giorno.
Nel febbraio del 1974 Gallina fa sapere di essere un professionista e di non essere abituato a una squadra che, in mancanza di un campo di allenamento fisso, deve chiedere di volta in volta il permesso per usare strutture altrui; inoltre, assicura, non esiste nemmeno un figura incaricata di lavare le divise indossate nelle varie sedute. Preferisce tornare in Canada, dove chiude la carriera tra Toronto e Montreal. Curiosità: per alcuni mesi del 1973 ha come compagno di squadra, in prestito dal Boca Juniors, Nicola Novello, nativo di Marina di Fuscaldo, trasferitosi in Argentina a due anni di età.
Carmelo D'Anzi al Cruz Azul (1981)
Quando, a inizio 1981, Carmelo D'Anzi arriva a Città del Messico per mettersi alla prova con la maglia del Cruz Azul, la squadra allenata da Ignacio Trelles è la grande potenza del calcio locale: viene da un decennio in cui ha vinto tutto, ha conquistato gli ultimi due campionati ed è tra le favorite per trionfare ancora.
L'italiano, nato a Messina nel 1956 e cresciuto nel settore giovanile del Messina, a diciotto anni è emigrato negli Stati Uniti, dove ha iniziato la sua carriera da calciatore professionista. Il suo passaggio in Messico, durato otto mesi, non lascia il segno: raccoglie una manciata di presenze, spesso entrando dalla panchina, senza risultare troppo utile nella cavalcata che porta i "cementeros" alla terza finale in tre anni, persa contro i Pumas di Hugo Sánchez e dell'allenatore Bora Milutinović, e non viene riconfermato a fine stagione. Se non altro, l'esterno offensivo siciliano si toglie un paio di soddisfazioni: segna un gol, a marzo, nella vittoria in campionato sullo Zacatepec, e un altro, a giugno, nel primo turno di Coppa dei Campioni CONCACAF, un colpo di testa contro gli honduregni del Real España. Secondo i giornali, sarebbe stato da annullare per fuorigioco.
Marco Rossi all'América (1995-96)
«Se fosse stata Dolly Parton, avrebbe ucciso l'arbitro»: questo il commento del telecronista di TV Azteca, Emilio Alonso, al gesto più celebre di Marco Rossi nella sua unica stagione con la maglia dell'América. Per fortuna il difensore italiano, oggi celebre allenatore della Nazionale ungherese, ha una fisicità diversa rispetto alla cantante country e l'aver colpito Miguel Ángel Salas, in una partita contro il León, gli costa non un anno, come paventato da qualcuno, ma appena tre giornate di squalifica, da sommare alle due per l'aggressione a un avversario e a quella per l'espulsione che ha scatenato tutto.
La serata al Nou Camp di Guanajuato si era aperta, dopo una mezzora, con il primo e unico gol di Rossi in terra messicana, un colpo di testa su calcio d'angolo ad aprire le marcature; già ammonito, con le "Águilas" raggiunte sul 2-2, Rossi va però a fermare un avversario lanciato a rete e, rialzatosi, va a colpire il direttore di gara con un colpo di petto prima ancora che questo sventoli il cartellino rosso, per poi prendere la via degli spogliatoi a testa bassa. La vicenda suscita dibattiti in punta di diritto: la commissione disciplinare punisce l'intento di aggressione, ma il colpo di petto, lungi dal rimanere nel mondo delle intenzioni, ha avuto davvero luogo e si dovrebbe forse parlare di aggressione vera e propria.
Non è la prima né l'ultima delle polemiche che coinvolgono il difensore italiano durante la sua stagione messicana. Partito dall'Italia a fine agosto 1995, Rossi lascia la Sampdoria per andare a guadagnare l'equivalente di 800 milioni di lire all'anno, il doppio di quanto percepisce in blucerchiato. A volerlo è l'intermediario di origini italiane Giuseppe Rubulotta, giunto a ricoprire la carica di vicepresidente del Club América, dopo averlo visto in azione nella semifinale di ritorno di Coppa delle Coppe tra Arsenal e Sampdoria. Il primo impatto con la capitale del Messico è traumatico: «Con mia moglie e mio figlio piccolo arrivammo in una giornata piovosa, dall’albergo si vedeva questa città sterminata, l’aria inquinata ti avvolgeva. Mia moglie che è sempre stata la più forte, si arrese: qui non resisto. Il giorno dopo telefonai al direttore sportivo e comunicai la decisione. Vennero in albergo, ci portarono a vedere la casa in un parco. La giornata era splendida, il posto stupendo. Cambiammo idea, subito». Dopo una decina di giorni c'è chi sostiene, dopo averlo visto in allenamento, che avrà poche opportunità di giocare. Le incomprensioni linguistiche non lo aiutano quando, ancora in fase di ambientamento in una metropoli inquinata a 2300 metri di altitudine, una sua risposta a un giornalista viene trasformata in una sorta di minaccia: se non sarò titolare ci saranno problemi.
Marcelo Bielsa, appena giunto sulla panchina azulcrema, risponde immediatamente che le decisioni sono di sua esclusiva responsabilità e non ammette alcun tipo di pressioni o di suggerimenti: Rossi è infatti considerato dalla stampa un raccomandato di Rubulotta, che pochi mesi prima non si è fatto problemi a esonerare l'olandese Leo Beenhakker per aver schierato un giocatore non gradito al club. Poi le cose rientrano, Rossi inizia a giocare con una certa regolarità e Bielsa finisce per complimentarsi con lui. A giugno viene inserito nella lista dei cedibili del draft di Acapulco: ne approfitta l'Atlante, acquistandolo per un milione e mezzo di pesos. Rossi fa subito presente che, fino a quando non troverà un accordo contrattuale con la nuova società, l'América dovrà continuare a versargli l'attuale stipendio: «Ci sono delle leggi. Mi dà molto fastidio perché sono venuto qui, ho cambiato maniera di vivere, a diecimila chilometri dall'Italia, senza mai tornare. Voglio che venga rispettato il contratto che ho firmato. Voglio giocare nell'Atlante ma bisogna definire l'aspetto economico». La richiesta, pare, è di 350.000 dollari per un anno, al netto delle tasse: un sueldo estratosférico, secondo i giornali, che l'Atlante non concede. Rossi indossa la maglia dell'Atlante solo per qualche allenamento e si trasferisce all'Eintracht Francoforte.
Pietro Maiellaro al Tigres (1995)
Nell'estate del 1995 il Tigres non assomiglia nemmeno lontanamente al club di oggi, abituato a vincere campionati e acquistare giocatori di fama internazionale. Piena di debiti, reduce dalla peggior stagione della sua storia nella massima serie messicana, la squadra dell'Universidad Autónoma de Nuevo León parte, a fine luglio, per una tournée europea in Italia e Grecia in cui testare, tra le altre cose, una serie di possibili stranieri da mettere sotto contratto. Dopo un 4-0 inflitto al Bassa Anaunia, compagine della Val di Non, il Tigres partecipa alla terza edizione del Torneo Gianni Brera, battendo la Cremonese 8-7 ai calci di rigore dopo l'1-1 nei tempi regolamentari e perdendo la finale di Pinzolo con l'Atalanta per 1-0 (gol di Vieri); seguono un 8-2 al Trento e, al ritorno dalla Grecia, altre tre partite con Perugia, Casarano e Padova.
La partita con i salentini è l'occasione per provare due possibili rinforzi italiani: Luca Marcato, difensore classe '67 reduce da cinque stagioni con l'Ascoli, e Pietro Maiellaro, che effettivamente firma e diventa, insieme al bosniaco Sead Seferović, il primo europeo a vestire la maglia dei "Felinos". "Lo Zar", che viene da una stagione in Serie B con il Palermo, ricorda così la trattativa: «Un giorno mi chiama Ernesto Bronzetti e mi dice di recarmi subito a Norcia. Arrivo e c'era il Tigres che mi aspettava, mi fecero fare un'amichevole e tempo una settimana e sono partito per il Messico». Per il giocatore si tratta di «un'esperienza umana magnifica, che rifarei anche domani», anche perché «è un posto fantastico e poi ero ad un’ora e mezza dal confine con gli Stati Uniti e ogni quindici giorni me ne andavo in Texas».
Sul campo le cose vanno meno bene: dopo aver segnato un gol ai salvadoregni dell'Águila in amichevole a Houston e aver atteso a lungo l'arrivo del transfer, Maiellaro, che ammette di essere stato fisicamente in fase calante, mette insieme una manciata di presenze, spesso partendo dalla panchina. Già a fine ottobre, tra un articolo e l'altro sui calciatori stranieri che hanno deluso, si scrive che non ha fatto vedere granché, e a novembre che non ha mostrato proprio nulla e si può pensare di sostituirlo con un altro straniero. Il 30 novembre entra nella storia del Clásico Regiomontano dalla parte sbagliata, quando il paraguayano Rubén Ruiz Díaz gli para un calcio di rigore nell'edizione numero 50 del derby, settima sconfitta consecutiva del Tigres nella stracittadina.
È, secondo lo stesso Maiellaro, l'errore che pone fine alla sua esperienza messicana: «Può sembrare illogico, ma la mia sorte è decisa dal rigore che ho sbagliato contro il Monterrey. Il Tigres perde il derby e mi mandano via. È dura accettare che per un rigore sbagliato si giudichi un'intera stagione». A fine stagione il Tigres vince la coppa nazionale, si qualifica ai play-off per il campionato e al tempo stesso retrocede amaramente perdendo il derby di ritorno: Maiellaro, però, è già lontano, allontanato a dicembre per lasciare il posto al bosniaco Almir Turković, e si risparmia il momento in cui qualche infiltrato fa partire, nell'impianto dello stadio, le note di Se fue, la versione spagnola di Non c'è di Laura Pausini, da quel momento idolo inconsapevole dei tifosi Rayados, che ogni 24 marzo celebrano el día de Laura Pausini.
Cristian Battocchio al Pumas (2021-22)
Nato a Rosario, e con appena quarantuno presenze con squadra italiane, grazie ai nonni di Treviso, Cristian Battocchio scende in campo agli Europei Under 21 del 2015 con la maglia dell'Italia, colleziona una presenza con la B Italia ed è segnalato da Antonio Conte, allenatore della nazionale maggiore, come uno dei pochi in grado di saltare l'uomo tra i giovani calciatori. È quindi, a tutti gli effetti, il primo italiano ad avere l'onore di alzare il pugno destro durante l'inno del Pumas, prima di ogni partita casalinga, nella stagione 2021-22.
Va talmente male da essere spostato, per una partita, nella squadra Under 20: scelta che viene vissuta dai tifosi come mancanza di rispetto, ma nei confronti dei giovani di casa. A fine marzo, dopo appena 741 minuti di gioco in campionato, le parti decidono di risolvere il contratto. In una lettera a Messi spiega i motivi del fallimento: in soli sei mesi, oltre a soffrire per l'altitudine, ha contratto due volte il Covid e ha sofferto la rottura dell'adduttore, un'intossicazione batterica e la rimozione della cistifellea.