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È tornato il Pistolero
14 gen 2022
Ad appena 26 anni, Krzysztof Piatek cerca un altro rilancio.
(articolo)
11 min
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C’è stato un momento della nostra vita in cui credevamo che Krzysztof Piatek fosse uno dei centravanti più forti al mondo. Aveva i capelli schizzati dei manga, il naso grosso, lo sguardo truce, una certa ineleganza est-europea, ma segnava ogni volta che tirava in porta. Teneva la caviglia rigida, chiudeva gli occhi, e sparava il tiro. Poi scivolava sulle ginocchia, braccia incrociate e le mani che diventano due pistole. La bocca che fa “pum pum pum”, un cortocircuito perfettamente post-moderno di serietà virile e cringe. Che anno era? Il 2011? il 2019? Il 2015? Da quando ho compiuto trent’anni le stagioni di Serie A, nella memoria, si accavallano l’una sull’altra, ammantate di una nebbiolina che le rende sfuggenti e senza riconoscibilità.

In realtà era il 2018: un anno vicino eppure abbastanza lontano da raccontare un Genoa preistorico. Ballardini in panchina, poi Juric, infine Prandelli. Il Genoa di Kouamé, Bessa, Romulo, Hiljemark. Questo gruppo di giocatori di cui oggi è impossibile sapere cosa fanno (come vivono), era guidato da quel centravanti spigoloso, la terza versione di centravanti polacco con caratteristiche simili - Lewandowski->Milik->Piatek, con una degradazione tecnica progressiva. Come se un artigiano tentasse di ricreare ogni volta la magia originaria, avvicinandocisi sempre meno.

Pochi giorni fa Krzysztof Piatek ha firmato con la Fiorentina, al secondo tentativo di rianimazione della carriera, e noi torniamo a pensare a quel momento del 2018 in cui sembrava il centravanti più forte del mondo.

Onnipotenza

Alla prima partita ufficiale con la maglia del Genoa, Piatek ha segnato quattro gol. Li ha segnati tutti in area, due con la testa, tirando sempre con la durezza dei grandi attaccanti, quelli che sembrano fare le cose con una ferocia supplementare. Li ha segnati tutti in 37 minuti. I turni estivi di Coppa Italia, però, sono il regno delle illusioni, degli attaccanti che fanno promesse al Fantacalcio che non possono mantenere. Su Tuttomercato si scrive: «Capacità di inserimento, ottimo stacco di testa, movimenti da vero bomber. Sono alcune delle qualità che questa sera ha messo in luce riuscendo a strappare gli applausi a scena aperta del pubblico presente».

Quando inizia il campionato, però, Piatek diventa un fenomeno paranormale. Segna in ognuna delle prime 7 partite di Serie A, eguagliando il record che apparteneva a Enzo Pasciutti. In quelle prime 7 giornate ha segnato 9 reti, e ha vinto il premio AIC di miglior calciatore di settembre. Tutte queste cose ho bisogno di ripeterle perché oggi fatico a ricordare che siano successe veramente. Riguardando quei gol, ci si accorge che più passano le partite più i gol di Piatek diventano complessi, e sembrano rivelare un talento più speciale di quello che sembrava agli inizi. Contro il Frosinone segna con un tiro secco di controbalzo sul primo palo; contro il Parma anticipa tutti di testa deviando la palla sul secondo. Contro l’Atalanta, da fermo, piazza la palla sotto all’incrocio dei pali. Questo Piatek magari sarà “solo” un semplice numero nove, ma calcia benissimo in porta, si muove alla grande in area e pare avere una ferocia particolare. D’altronde quando era arrivato in Italia aveva detto: «Ho solo due obiettivi, giocare sempre e segnare in ogni gara». Una specie di automa progettato nei laboratori polacchi per demolire la Serie A. Preziosi si era fatto convincere a comprarlo a Ibiza, mentre stava cucinando l’astice alla catalana.

Piatek è freddo, ruvido, spietato, si muove senza nessuna grazia, tira solo molto forte, fa a spallate coi difensori, la sua vita è tutta un “bum-bum”. La sua ascesa è così folgorante che a gennaio lo compra un Milan disperatamente alla ricerca di un finalizzatore attorno a cui costruire una squadra. O quanto meno un numero nove affidabile, dopo il vuoto lasciato da Ibrahimovic quasi dieci anni prima. Mettere in fila i fatti della sua vita è un esempio abbastanza accelerato delle curve di gloria e fallimento del calcio italiano.

La cosa più incredibile è che appena arrivato al Milan sembra Gesù. Ciascuna delle sue prime partite sembra una testimonianza del sacro. Arrivato da un paio di giorni, la squadra deve giocare i quarti di finale di Coppa Italia contro il Napoli, e Gattuso lo mette subito dentro, come se fosse da pazzi avere a disposizione Piatek e non schierarlo. Dopo nemmeno dieci minuti Laxalt lo manda in porta (!), lui si infila ben lubrificato tra Maksimovic e Koulilbaly, e segna con un piatto sul secondo palo. Il telecronista tifoso lo chiama “Il chirurgo polacco”. Al 26’ riceve una palla di Paquetá che si porta avanti col petto; è molto defilato in area di rigore, alza la testa, la muove con l’esterno, ha Koulibaly addosso quando, rivolto verso la propria porta, riesce a segnare con un tiro secco sul secondo palo. «Se lo è inventato» ha detto Gattuso dopo la partita. Chi era di fronte al televisore può riconoscere di aver provato una di quelle stupide eccitazioni che abbiamo di fronte al talento che si rivela di fronte ai nostri occhi di testimoni. Sembrava uno di quei momenti dalla grande portata mistica, tipo la traversa di Adriano contro il Real Madrid, il gol di Cassano contro il Bari. Prima della partita Gattuso lo aveva definito “Robocop”.

Alla terza presenza, contro l’Atalanta, rilancia: segna un gol davvero alla Lewandowski. Su un cross innocuo, taglia in anticipo sul difensore, è spalle alla porta, e alla cieca, visionario, col piatto sinistro la gira sul secondo palo. Un gol francamente incredibile, non sembrano esserci limiti nei modi che Piatek può trovare per segnare. Segna nelle prime quattro partite in rossonero, come solo Oliver Bierhoff era riuscito. Al Milan segna 9 gol in 18 partite, uno ogni due, e se non è riuscito a mantenere le medie irreali al Genoa, ha confermato di poter funzionare anche a un livello più alto, circondato da una maggiore pressione.

La maledizione

In estate Giampaolo arriva al posto di Gattuso, Piatek prende la numero nove, che come sappiamo è circondata da una specie di maledizione. I compagni, scherzando, gli consigliano di scegliere un altro numero, lui non ha un’anima figuriamoci se può essere scaramantico. In estate Piatek è ammantato da un’attesa messianica, ma comincia a circolare la voce che non si stesse integrando bene nel sistema di Giampaolo. In un’intervista si può leggere in controluce una conferma di questi problemi: «A Genoa giocavamo un calcio semplice, si lanciava la palla per me e Kouamé che dovevamo lottare. Al Milan a volte ci mancano queste palle lunghe in cui posso combattere coi difensori. Mi piace vincere queste battaglie di velocità, raccogliere i lanci lunghi. Al Milan giochiamo di più con la palla a terra. A volte dovresti pensare a giocare in modo più semplice, come attaccante mi mancano quei lanci lunghi». Piatek in effetti è un giocatore semplice: tutto spallate coi difensori, salti coi gomiti alti, bombe tirate col collo del piede. Se lo fai pensare troppo, si annoia, e soprattutto non funziona. Giampaolo in un’intervista ha definito il suo stile di gioco, en passant, “piratesco”.

Piatek comincia a fare la spola tra la panchina e il campo, segna solo su rigore, e dopo si spende in esultanze sempre più polemiche. Con chi ce l’ha? Comincia a sembrare ridicolo, quando alla tv polacca dice: «Sono costato 38 milioni di euro, ora voglio far di tutto perché per il prossimo trasferimento mi paghino 60-70 milioni». Nessuno gli crede più. Quando arriva Pioli le cose non vanno meglio e circola la voce dell’arrivo di Zlatan Ibrahimovic, che in quel momento sembra la versione grossa e muscolosa del cane piccolo e piangente che è Piatek.

In quei mesi Piatek si trasforma in un meme con la caratteristica voracità da inceneritore che possiede internet. Piatek si prendeva troppo sul serio: l’aria dura, l’esultanza codificata, il reclamo della numero nove; al contempo però aveva qualcosa di “provinciale”, di paesano, rispetto ai veri giocatori forti. Coniugava in modo bizzarro la serietà ipermotivata degli attaccanti che vivono per il gol, e l’improvvisazione raffazzonata di chi si trova a vivere una simulazione in un contesto troppo grande per lui. Uno di quei film in cui un impostore si ritrova a recitare la parte del grande artista, del grande sportivo, senza sapere nemmeno da dove cominciare. Quella che all’inizio sembrava una freddezza marziana, col tempo è sembrata una banale vuotezza. Giampaolo in una conferenza si è lasciato scappare, involontariamente, una frase che suggeriva che Piatek fosse scemo - «Come sta prendendo Piatek le voci su Ibrahimovic sui giornali?» «Non credo che Piatek legga i giornali». «Sono nato per segnare gol» continua a ripetere in ogni intervista, con un sorriso sempre più distante.

Nelle interviste di Piatek c’è qualcosa di autenticamente vuoto, qualcosa di sinistro. Il modo in cui parla con lo sguardo basso, e quando alza gli occhi sembra guardare attraverso il suo interlocutore. In queste interviste ammette di non essere un “nove” completo, che ha delle lacune da colmare; poi si lamenta degli arbitri italiani perché proteggono più i difensori degli attaccanti. Ma è stato fortunato? «Se segni 30 gol in 48 partite non sei fortunato. Se segni 8 gol in 5-6 partite allora puoi essere stato fortunato, ma per me non è andata così».

Il fatto è che ha ragione. Non si può proprio dire che Piatek sia stato fortunato. Al massimo che ha sfruttato un momento di grazia divina in fase realizzativa, e sappiamo che la finalizzazione, anche a livello statistico, è uno dei dati che tende a variare di più nel corso di una stagione o di una carriera. La sua storia racconta più che altro la natura magica di quel tipo di ispirazione che porta gli attaccanti a fare gol; e nel caso di Piatek questa ispirazione ha la forma di una specie di patto col diavolo, terminato il quale Piatek è tornato un giocatore normale, privato delle ambizioni che lo hanno animato in una certa fase della sua vita.

Il suo crollo è stato vertiginoso: un anno dopo il suo arrivo era già con le valigie in mano, cacciato per far posto al vero centravanti, e cioè Zlatan Ibrahimovic. L'ultimo centravanti che aveva funzionato al Milan, come se l'unico modo per sconfiggere la maledizione fosse accettarla.

In Germania, all’Hertha Berlino, Piatek ha ricominciato una carriera normale, lontana dai picchi gloriosi e fallimentare toccati in Italia. Prima di arrivare ci ha tenuto a farci sapere che avuto contatti col Tottenham e il Manchester United - non è da sfigati sbandierare certe cose? È diventato un giocatore che se gioca male non fa notizia, e che forse non giocherà mai abbastanza bene da fare notizia. Klinsmann se ne è andato dopo dieci giorni dal suo arrivo e il nuovo allenatore, Labbadia, gli preferisce il 36enne bosniaco Vedad Ibisevic; lui scrive a Lewandowski per avere qualche consiglio da spendere in campo: «Ci scriviamo e chiamiamo spesso. Parliamo spesso della situazione nei club, di come dovremmo muoverci in campo, cosa ci è richiesto. Imparo molto da lui».

Ogni settimana che passa, la spirale discendente di Piatek si inabissa di più. Quest’anno non ha praticamente giocato: 9 presenze, di cui solo 4 da titolare. La miseria di 346 minuti giocati, in cui ha accumulato statistiche di cui non andare fieri. L’unico parametro in cui spicca Piatek sono le pressioni, come se corresse per sfogare la delusione repressa, o per dimostrare qualcosa, una cosa qualsiasi. Magari Piatek rimpiange anche il momento in cui veniva criticato e sbeffeggiato, considerato l’ultima vittima di una maledizione più grande di lui, o dell’hype mediatico che maciulla i calciatori. Almeno in quel periodo si parlava ancora di lui.

È stata una mossa sorprendente e controintuiva, quella della Fiorentina, che ha deciso di riportarlo in Italia, forse nell’estremo tentativo di riattivare quell’aura magica durata pochi mesi in cui Piatek sembrava Lewandowski. Oppure Italiano ha visto il suo numero di pressioni su FBref e si è convinto che non poteva poi essere così male: almeno pressa.

In ogni caso Piatek ha solo 26 anni. È arrivato in Italia non giovanissimo, ma è passato nel tritacarne così velocemente che è già nella situazione paradossale di poter provare una quarta vita calcistica ancora nel fiore degli anni. La prima cosa detta in Viola? «Il pistolero è tornato». Accanto a lui avrà uno dei centravanti più promettenti d’Europa, Vlahovic, ma per Piatek non c’è problema, possono anche giocare insieme: «Un grande attaccante che ha dimostrato di valere facendo tanti gol, come me perché anche io ho fatto molti gol in Italia».

Cercare di rubare minuti a Vlahovic in campionato non sarà semplice. Un attaccante integro, che se sta bene è la versione moltiplicata, espansa di Piatek. Se il polacco sa fare tre cose, Vlahovic le sa fare tre volte meglio, e ne sa fare molte altre in più. D’altra parte sarà quasi impossibile per lui fare peggio di Kokorin, una delle presenze più eteree della Serie A degli ultimi anni. Il problema di Piatek è sempre stato quello di praticare un calcio antico, pane e salame, fatto di duelli coi difensori e tiri in porta. È sempre parso in difficoltà a sviluppare un gioco razionale di associazioni con i compagni. Per la prima volta, però, si troverà a giocare in una squadra funzionale e organizzata, che magari riuscirà a tirare fuori il meglio da lui.

Di certo sarebbe sorprendente se questa operazione si rivelasse un successo. Intanto ieri ha segnato all'esordio con la maglia viola, al Diego Armando Maradona, nei supplementari di una partita pazza. Il Napoli, finito a giocare in 9, era già sulle ginocchia e su una situazione di quattro contro tre Piatek si è infilato nella difesa avversaria e ha messo in porta il cross basso di Venuti alzando il pallone dolcemente con il piatto. E come se non fosse passato nemmeno un giorno, riecco la magia.

Sarebbe bellissimo se Piatek tornasse a bombardare anche la Serie A coi suoi tiri violenti e ineleganti, seguiti ogni volta dalle scivolate a terra con le pistole incrociate. Se ci riportasse di nuovo tutti all’interno della sua allucinazione, quella in cui è un grande centravanti, implacabile sotto porta, venuto al mondo solo per fare gol. Provaci ancora, Pistolero.

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