Scorrendo sul sito ufficiale degli Europei femminili d’Inghilterra la lista delle 16 rappresentative nazionali attualmente in lotta per strappare il biglietto d’accesso alla finale di Wembley ci si imbatte una strana presenza, che narra a sua volta di una assenza. Stiamo parlando dell’asterisco che, giustapposto al nome del Portogallo, spiega un avvicendamento avvenuto all’ultimo momento, e che ovviamente la macchina organizzativa dell’Europeo non vorrebbe tenere troppo sotto i riflettori: Carole Costa e compagne, infatti, giocano al posto della Nazionale russa, che agli spareggi dell’aprile 2021 le avevano sconfitte sul campo.
Un’esclusione che è stata conseguenza della decisione più generale presa congiuntamente da FIFA e UEFA, la quale - giusta o sbagliata che fosse - è stata sinora guardata in Occidente soltanto dal nostro punto di vista. Ma che ripercussioni potrebbe avere dall’altra parte? Quanto potrebbe danneggiare lo sviluppo del calcio femminile in Russia che, già debolissimo di suo a causa degli atavici pregiudizi della società, stava in questi ultimi anni ricevendo ingenti aiuti dall’estero? Una domanda ancora più bruciante considerano anche da noi abbiamo iniziato a liberarci dai pregiudizi solo qualche anno fa, un po’ per l’encomiabile impegno delle #RagazzeMondiali in terra francese nel 2019, ma anche per il sostegno all’unisono arrivato da federazioni nostrane e sponsor esteri, interessati a coinvolgere anche l’Italia in una crescita globale da cui era rimasta fino al 2015 quasi inspiegabilmente esclusa.
Calciatrici nella terra dei Soviet
Sono incerte, a livello storiografico, le notizie circa l’inizio dell’attività in terra russa. La seconda edizione della storia ufficiale della Coppa del Mondo femminile, stilata dall’autorevole Museo FIFA di Zurigo, ci informa di una partita femminile giocata addirittura il 3 agosto 1911 nei dintorni di Mosca, ma anche la storica inglese Jane Williams, nella sua recente History of Women’s Football, non dice niente di più al riguardo. Forse, il fatto che ci si trovasse in uno dei pochi centri urbani degni di questo nome è da collegare al piccolo ma combattivo movimento femminista che durante la Belle Époque stava iniziando a svilupparsi anche dell’Impero Russo, ma chissà.
Nel 1917 la Russia volta pagina e inizia l’era sovietica, quella in cui il regime comunista interverrà a gamba tesa nelle vicende del calcio maschile locale, come nel caso dello Spartak Mosca dei fratelli Starostin. E il calcio femminile? Non pervenuto, tanto che Muza Dementieva, moglie del calciatore Peter Dementyev, non trovò nessuna compagna con cui giocare da adulta come aveva invece fatto da bambina: divenne allora direttrice di gara, nel 1932, e si tolse pure la soddisfazione di arbitrare delle partite maschili. A inizio anni Quaranta, ci informa J. W. Riordan, ci fu qualche tentativo, il quale tuttavia risulta già esaurito entro la fine del 1945. Una vicenda che già così accennata assomiglia sin troppo al copione di quella più famosa e studiata delle inglesi durante la Prima Guerra Mondiale, a cui fu permesso sì di giocare, ma fin tanto che gli uomini erano lontani, impantanati nelle trincee delle Fiandre: una volta finito tutto, si ripresero il campo e bucarono metaforicamente il pallone alle Munitionettes Girls, con tanto di celeberrimo ban della FA datato 1921.
Bisogna aspettare l’inizio degli anni Settanta per vedere qualcosa di consistente muoversi, questa volta nella Repubblica Socialista d’Ucraina, dove il 3 novembre 1971 la squadra di Kharkiv ricevette a Donetsk (e batté 3-2) le ospiti provenienti da Vilnius. Queste prime calciatrici sovietiche non si organizzarono però in un campionato, bensì si limitarono prudentemente ad amichevoli come quella di Donetsk, o a tornei come la Coppa Valentina Tereškova, che nel 1972 radunò a Dnipropetrovsk formazioni provenienti non solo dalla cittadina sul fiume Dnepr ma pure da Kharkiv, Donetsk, Kiev, Užhorod (città anch’essa in Ucraina, come le precedenti) e Riga. L’intitolazione alla celebre cosmonauta non è ovviamente casuale, come fa notare Anke Hilbrenner: la prima donna ad andare nello spazio (nel 1963, due anni dopo Yuri Gagarin), insignita, al ritorno sulla Terra, dell’Ordine di Lenin e dell’altisonante titolo di Eroina dell’URSS, era infatti additata dalla propaganda come l’incarnazione dell’ideale della zhenstvennost’, la ‘femminilità’ in salsa sovietica.
Come sempre nella storia dello sport femminile, anche quelle calciatrici avevano bisogno di una qualche figura moderna e modernizzante socialmente accettata alla cui ombra compiere il loro rivoluzionario esperimento, che avrebbe spezzato quell’identificazione fra calcio e mascolinità già così forte nella società dell’epoca. Un’identificazione sulla quale abbiamo la testimonianza dello storico Manfred Zeller: egli stesso, intervistando molti uomini circa la vita quotidiana durante il periodo sovietico, si stupiva che quando c’era da ricordare il calcio, questi tirassero in ballo unicamente compagni di classe, conoscenti e figli maschi, nonostante poi, a domanda esplicita, ammettessero che in effetti, di fianco a loro, mentre guardavano le partite in TV ci fossero madri, sorelle, figlie. Si tratta proprio di un’auto-percezione sociale: il calcio era avvertito come cosa da maschi, come - per usare l’immagine di uno storico questa volta autoctono come Igor Narsky- una riserva maschile.
Dati questi pregiudizi, era chiaro che la luna di miele fra URSS e calcio femminile non potesse che durare poco: fra la fine del 1972 e l’inizio del 1973, il regime spazzò via «l’indecoroso spettacolo». Parole usate da Natalia Graievskaia, a capo del Dipartimento Medico del Consiglio Superiore degli Sport Sovietici. La dottoressa, come riportato addirittura da La Stampa dell’epoca, chiarì che «la pratica del calcio da parte delle donne porta alla dilatazione delle vene nelle gambe, che la lotta per la sfera può provocare lesioni negli organi sessuali oltre che fratture al bacino in caso di tiri violenti. La dottoressa Graievskaia ammonisce poi che stoppando il pallone col petto, si hanno altre gravi conseguenze, pertanto raccomanda alle donne di praticare altri sport, come ad esempio l’atletica, la scherma, il ciclismo, il tiro». Ci penserà poi il Comitato Statale per l’Educazione Fisica e lo Sport a bandire in un solo colpo calcio, boxe e lotta femminili dalla terra dei Soviet, in quanto sport (considerati) maschili.
Niente di nuovo, più di un elemento di questo boicottaggio è in comune con quello attuato in Italia dal CONI fascistizzato a fine 1933: la consulenza dei medici dello sport, la condanna parallela di calcio e pugilato femminili, lo spauracchio di compromettere irrimediabilmente il fisico delle donne. E non si pensi che ciò vada collegato per forza al totalitarismo tout court: anche nella “semplice” dittatura dell’Estado Novo di Getúlio Vargas il nascente movimento calcistico femminile era stato spazzato via dall’iniziativa di uno zelante cittadino brasiliano, tale José Fuzeira, che aveva preso carta e penna protestando contro il comportamento antipatriottico delle calciatrici verde-oro, che giocando mettevano in pericolo la propria fertilità. Vargas s’era allora rivolto al Ministero dell’Educazione e della Salute per aver lumi, e il 14 aprile 1941 il Consiglio Nazionale dello Sport aveva stabilito che le donne non potevano praticare sport che, come il calcio, fossero «incompatibili con la condizione della loro natura».
L’Unione Sovietica, però? Non doveva essere diversa sul tema della parità fra uomo e donna? E non furono forse le atlete sovietiche a lasciare tutti a bocca aperta nel 1946, quando si presentarono per la prima volta agli Europei di atletica ospitati a Oslo, conquistando 5 medaglie d’oro sulle 9 femminili messe in palio - giusto perché a controbilanciarle c’era Fanny Blankers-Koen, la «mammina volante» che si portò a casa l’oro negli 80m ostacoli (tagliando il traguardo un decimo di secondo prima delle sovietiche Gokieli e Fokina) e condusse le compagne olandesi a vincere la staffetta 4x100m? Il giornalista Gianni Brera, che era lì presente principalmente per seguire le imprese delle azzurre, era rimasto sinceramente colpito dalla «potenza assoluta dell’atletismo russo per quanto riguarda il settore femminile», ma al contempo aveva ironizzato fra le righe circa l’aspetto della vincitrice del getto del peso, Tatyana Sevryukova, «una ragazzona russa che ha la struttura atletica e l’energia d’un’autentica valchiria».
In realtà, se vogliamo capire le radici del sostegno dato dallo stato sovietico allo sviluppo dello sport femminile, non possiamo ignorare le coordinate ideologiche dello stesso. Come spiegato molto bene dallo storico dello sport Federico Greco nel suo Cinque cerchi di separazione, «indipendentemente dal sesso, il corpo di tutti i cittadini sovietici apparteneva allo Stato, che poteva servirsene all’occasione in modi differenti», un atteggiamento a tal punto introiettato da atleti e atlete dell’URSS da farsi sì che sviluppassero «come più alto desiderio quello di rendere il proprio corpo uno strumento per mostrare a tutti la superiorità del sistema socialista. Di fatto, lasciando libertà alla medicina sportiva - altro campo in cui lo Stato non lesinava finanziamenti - di intervenire su quello stesso corpo, anche in modo irreversibile, al fine di ottenere miglioramenti nelle prestazioni». Se quindi l’Unione Sovietica, al pari della Germania Orientale qualche anno dopo, non si faceva problemi a modificare se necessario quei corpi femminili di cui si era fatta proclamata strenua paladina la già citata Natalia Graievskaia, perché il calcio no?
Basta pensare a cosa stava avvenendo fuori dai confini sovietici: nonostante il fuoco di paglia dei due Mondiali “autonomi” di Italia 1970 e di Messico 1971, organizzati non dalla FIFA ma dalla Federazione Internazionale Europea Football Femminile (FIEFF), per molti anni non ci furono manifestazioni internazionali di calcio cui sentirsi in qualche modo costretti a mandare una selezione nazionale. Quindi, perché farlo? Perché mettere in discussione lo stereotipo? Si tratta per altro della stessa infausta condizione in cui si vennero a trovare le calciatrici nel nostro paese, nel 1933: forse, con un calcio incluso nel programma olimpico di Berlino 1936, Achille Starace, in quel momento a capo del CONI, avrebbe preso una decisione diversa da quella del boicottaggio. Lui che personalmente non avrebbe mai fatto fare gare sportive alle ragazze, ma che invece sostenne in quegli anni Trenta Ondina Valla prima e le cestiste che poi, nel 1938, vinsero sotto i suoi occhi a Roma il primo Europeo di pallacanestro.
Non è un caso che di calcio femminile si torni a parlare, dalle parti di Mosca, quando l’avventura dell’Unione Sovietica è ormai agli sgoccioli e il primo McDonald’s ha già aperto da due mesi i battenti sulla Piazza Rossa: il 26 marzo 1990 scende in campo per la prima volta, in trasferta, la Nazionale femminile dell’URSS, impegnata contro la Bulgaria, e riesce pure a vincere 4-1. Se non prese parte alle qualificazioni per gli Europei di Danimarca 1991, limitandosi a giocare amichevoli, lo fece invece in occasione di quelle successive valide per il pass d’entrata agli Europei di Italia 1993. Fece però in tempo a giocare solo la prima partita, un 2-1 in casa strappato all’Ungheria il 6 ottobre 1991, prima di trasformarsi, nel maggio del 1992, nella Nazionale femminile della CSI, poi Federazione Russa, la quale tuttavia non arrivò per un soffio alla fase finale. Dopo aver vinto agilmente il Gruppo 8 contro Ungheria e Bulgaria infatti, venne travolta ai quarti di finale (all’epoca, una specie di play-off, visto che accedevano alla fase finale solo 4 squadre) dalle tedesche, 0 - 7 all’andata, e poi un più pacifico pareggio a reti inviolate al ritorno.
https://twitter.com/philharrison192/status/1421766298560835586
Nel frattempo, nel febbraio di quello stesso 1992, ci fu anche il primo incontro (amichevole) con la nostra Nazionale, come raccontato nel recentissimo Azzurre. Storia della Nazionale di calcio femminile di Giovanni Di Salvo. Sull’onda dal recente e repentino sviluppo del loro movimento calcistico nazionale (campionato nato nel 1987, in quel momento a 8 squadre, alla testa di 76 società e 5.000 tesserate in tutta la CSI), per raggiungere il Belpaese le nostre avversarie «affrontano un lunghissimo viaggio in pullman (due giorni e due notti per arrivare da Mosca alla Riviera Adriatica), sovvenzionato dalla ditta distributrice di prodotti alimentari Gonciarov». Vista la prevedibile doppia sconfitta per 1-0 (oltre alla Nazionale maggiore, s’era aggiunta anche quella Under 21), che senso poteva avere in prospettiva quell’odissea verso Rimini, se non quello di far cogliere alle proprie coraggiose giocatrici di essere parte di qualcosa di più grande, di più ampio della propria solitaria battaglia condotta contro tutti i pregiudizi coi quali confrontarsi quotidianamente a casa? Non lo sentivano, le ragazze guidate dal CT Oleg Lapschin, il richiamo di un’Europa finalmente a portata di mano e un po’ più open minded degli sguardi perplessi cui erano abituate in patria?
Pregiudizi che non si smuovono
Per cercare di comprendere la società entro cui le calciatrici russe si muovevano, e si muovono tutt’ora, ci viene incontro un interessante articolo scritto nella primavera del 2018 da Boris Egorov, il quale giustamente si chiedeva, anche al netto di un impegno delle istituzioni nazionali nel cercare di sostenere la diffusione dello sport, «Perché le donne russe non giocano a calcio?». La domanda sorgeva prima di tutto dalla visione degli scarsi risultati della Nazionale, allora 26esima nel ranking e con due quarti di finale ai Mondiali (USA 1999 e USA 2003) come migliori piazzamenti internazionali - per inciso: cosa avremmo dovuto dire noi, avendo all’epoca le nostre azzurre collezionato come massimo piazzamento ai Mondiali un misero quarto di finale a Cina 1991? - La causa principale veniva individuata da Egorov nella persistenza di pregiudizi atavici che ancora trovavano spazio nella società russa, per cui «il calcio non è affare da donne» era frase ch’era facilissimo ascoltare in giro. Intervistata, Anna Kožnikova, difensore della nazionale e del FC Locomotive, spiegava: «C’è gente che ci rimane, quando viene a sapere che il calcio femminile esiste. Ma ci sono pure un sacco di giudizi negativi: c’è pure gente che ti dice di tornartene in cucina, l’unico posto dove sei buona a stare». Gli faceva eco la giocatrice del CSKA Karyna Blynskaya: «Quand’ero più piccola, la gente era sorpresa: una ragazza e il calcio?!? Molti trovavano che le due cose non potessero andare assieme, che non era un tipo di sport femminile».
Lungi dall’essere un pregiudizio diffuso solo nell’uomo della strada, eccolo riaffiorare anche fra i professionisti dello sport, come il commentatore radiofonico Vasily Utkin: «Il calcio femminile di fatto interessa solo quelli che sono rimasti esclusi dal [vero] calcio maschile, come negli USA, dove le ragazze giocano a calcio - o soccer [ come lo chiamano loro] - in massa». Si tratta di un pregiudizio ben radicato perché connesso con l’educazione di genere tradizionale, come spiegato da Alla Filina, co-fondatrice e allenatrice della scuola di calcio #TagSport: «Il calcio, in Russia, non è mai stato considerato uno sport femminile. Non ce ne sono di genitori che pensano che le proprie figlie possano giocare a calcio: a pallamano o a pallavolo sì, ma a calcio assolutamente no».
La stessa storia di Anna Kožnikova dimostra come la scarsa conoscenza del fatto che anche le bambine potessero giocare a calcio rischiava di non far mai arrivare il suo talento ai piani alti: «Quando ho iniziato a interessarmi di calcio, non avevo assolutamente idea che ci fossero squadre, o campionati femminili». Ancora nel 2018 c’erano pochissime scuole calcio femminili, e solo un approccio serio e professionale nell’introduzione al calcio avrebbe potuto giovare ad un movimento calcistico numericamente ancora troppo esiguo. Kožnikova chiedeva giustamente: se nella massima serie continuano a giocare solo 8 squadre, come avrebbero potuto mai pensare di competere con le avversarie europee? Giocando la miseria di 14 partite di campionato più quelle di coppa? Nell’articolo di Egorov si parlava di un programma di sviluppo pensato dallo stato russo per quadruplicare le calciatrici di Russia entro il 2020. Un anno prima, in occasione degli Europei del 2017, l’UEFA metteva a confronto i numeri del calcio femminile italiano con quelli dell’omologo movimento russo. In Italia si registravano 23.200 calciatrici, con una crescita del 79% rispetto al 2011/2012; in Russia c’era un numero praticamente pari di calciatrici (su una popolazione però ben maggiore rispetto a quella italiana, 142 milioni contro 60: 0,04% di calciatrici in Italia, contro lo 0,016%, come faceva notare Giuseppe Berardi), con una crescita più modesta (+25%) rispetto a 6 anni prima.
Amichevole dell’aprile 2017: USA - Russia 5 - 1. Nonostante il risultato, la partita della vita di Yulia Grichenko, che quasi para un rigore a Carli Lloyd, duella con Alex Morgan al limite dell’area ed evita un passivo ben peggiore contro le campionesse del mondo in carica.
Un ulteriore elemento negativo messo in rilievo da Egorov era la quasi assenza di pubblico: «Se in Europa e negli Stati Uniti sono in migliaia ad assistere alle partite, in Russia si contano nell’ordine delle centinaia, se non delle dozzine». La situazione migliorava un poco - secondo la testimonianza di Kozhnikova - per le giocatrici dei grandi club maschili con sezione femminile (come il suo), visto che i tifosi dei calciatori spesso supportavano per spirito di solidarietà societaria anche le calciatrici. Pochissimi, nonostante tutto, i tifosi della Nazionale femminile.
A domanda esplicita, Alla Filina rispondeva che secondo lei il problema principale per lo sviluppo del calcio in Russia non era la mancanza d’investimenti, bensì la mentalità patriarcale, che poteva essere cambiata solo alzando il tiro, cioè «rifiutando i metodi grezzi ancora vivi in molte scuole calcio, sostituendoli con un’atmosfera più rilassata, e facendo conoscere il calcio femminile in TV». Conscia delle dinamiche della società in cui era nata, Filina aggiungeva che non sarebbe bastato semplicemente trasmettere le partite di calcio femminile in TV, perché nessuno le avrebbe guardate, bisognava piuttosto far sì che in TV venissero mostrate delle belle calciatrici. Sulla stessa lunghezza d’onda la giocatrice della Nazionale Nelli Korovkina: «Dovrebbe esserci un po’ più di promozione del calcio femminile: le giocatrici dovrebbero essere ospitate nelle trasmissioni televisive e in quelle radiofoniche. Questo aiuterebbe il movimento sportivo a crescere». Uscite come quella della numero 1 della Nazionale (nonché del CSKA Mosca) Elvira Todua, la quale nel maggio 2021, durante uno show su YouTube, pontificava sul sesso prima delle partite («è normale che le donne possano farlo, mentre agli uomini so che molti allenatori lo hanno proibito»), paiono andare in questa direzione. Subito dopo, infatti, a microfoni ancora aperti, metteva sul piatto il ben più pressante problema della maternità: «I nostri contratti prevedono che il club sia obbligato a pagare anche in caso di maternità. Abbiamo una clausola nei nostri contratti al CSKA, ma non è così ovunque. So che in altri club il contratto viene rescisso in caso di gravidanza».
Egorov concludeva la sua analisi aggiungendo che le vittorie internazionali avrebbero fatto bene al movimento calcistico femminile russo: la «storica vittoria» (virgolette nell’originale) contro l’Italia agli Europei dei Paesi Bassi 2017 aveva fatto registrare un risveglio di interesse in patria. Se quella sconfitta inaspettata per 2 a 1 viene ancora ricordata dalla azzurre allora in campo (così ad esempio Melania Gabbiadini, intervistata in Azzurre. Storia della Nazionale di calcio femminile: «Se nell’incontro con le russe ci fosse stato un risultato diverso sarebbe stata tutt’altra storia e probabilmente avremmo passato il girone»), il ragionamento di Egorov non è affatto campato in aria. Vincere in campo internazionale rende più forti al ritorno in patria, l’ha ammesso pure Megan Rapinoe, dopo la vittoria ai Mondiali 2019: «Capiamo ora quanto vincere conti. Avremmo potuto anche non vincere, tornare in patria e aiutare lo stesso la crescita del movimento, ma capiamo bene che se vinciamo, tutto quanto cambia, è la vittoria la pressione che più di qualsiasi altra cosa è capace di coalizzare le forze».
Nella primavera del 2018 la 22enne calciatrice della Nazionale Margarita Chernomyrdia esprimeva davanti ai microfoni di France Press tutte le proprie speranze affinché gli imminenti Mondiali maschili potessero dare un qualche tipo di aiuto all’emergere del movimento femminile. La sua era una visione assai ottimistica, da bicchiere mezzo pieno, da scollinamento ormai effettuato: «Le ragazzine hanno visto che possono giocare a calcio, che ciò è permesso, che nessuno lo vieta, e che i genitori non devono affatto preoccuparsi». Un po’ più pessimista la 17enne giocatrice della Nazionale giovanile Olga Belousova: «Qualcuno dei miei amici dice che il fatto che io giochi è una cosa del tutto normale, altri dicono che no, non è cosa da donne. Io rispondo che a me piace, che non m’interessa quello che dicono gli altri. La cosa che conta è a che a me piace, è una cosa mia». Dopo aver confermato da testimone oculare la quasi totale assenza di un pubblico sugli spalti, l’inviato di France Press interrogava l’allenatore del Chertanovo Sergei Lavrentyev su quale fosse l’ostacolo maggiore per lo sviluppo del calcio femminile nel proprio paese, «la risposta è semplice: l’apprensione diffusa nella società nel lasciare che le ragazzine giochino a pallone, il che provoca il fatto che poi queste non abbiano di fatto scuole calcio nelle quali allenarsi». In quest’ottica, l’entusiasmo per i Mondiali maschili avrebbe forse potuto portare frotte di bambine a bussare alle porte delle scuole calcio, secondo Lavrentyev. Un ottimismo che lasciava perplessa la sua 18enne giocatrice Vicktoria Dubova, già ampiamente stanca del catcalling e delle occhiatacce a causa delle quali sognava già, come obiettivo primario, di diventare abbastanza forte da poter andarsene a giocare all’estero in santa pace. Perché là, fuori dai confini della Russia, «nessuno vede differenze fra il calcio maschile e il calcio femminile. Là giocano, e basta». (Per la cronaca, pare che purtroppo Viktoria non sia ancora riuscita a realizzare il proprio sogno, e stia ancora aspettando la propria opportunità indossando la bianca maglia del WFC Chertanovo).
Le bambine non sono fatte di marmellata
Fra il 2017 e il 2018, insomma, nonostante il persistere dei pregiudizi, qualcosa si stava muovendo: e non solo per il coraggio e l’impegno delle calciatrici russe e di tutti i loro sostenitori, ma anche perché dall’estero proveniva un messaggio chiaro: siete parte anche voi di un movimento più ampio. Che tale aria globalizzante fosse aria buona nei polmoni delle calciatrici di Russia è evidente non solo dalle appena citate parole di Vicktoria Dubova, ma anche da piccoli segni: come non accorgersi che il cerchietto rosa sfoggiato da Margarita Chernomyrdina era uguale a quello della star mondiale Alex Morgan, quell’anno protagonista del film Alex & Me? Non era forse lo fenomeno che era accaduto qualche anno prima, quando la piccola Barbara Bonansea (come raccontato nella sua autobiografia) vedeva e rivedeva a casa propria la videocassetta di Sognando Beckham, flebile testimonianza che esisteva un mondo, fuori dall’Italia, dove uno spazio per calcio femminile veniva concesso?
Che tale messaggio empatico provenisse dagli enti deputati alla promozione del calcio femminile, cioè UEFA e FIFA, è più che scontato; ma non va sottovalutato nemmeno il ruolo degli sponsor. In occasione della Giornata della Donna 2017 Nike faceva uscire proprio per il mercato russo uno dei più spettacolari spot promozionali mai realizzati per lo sport femminile, ossia What Are Girls Made Of: godibilissimo di per sé, lo diventa ancora di più alla luce della conoscenza del contesto nazionale che stiamo appunto provando a investigare.
Un gruppo di bambine sale su un palco per una recita, con tanto di pubblico composto da rispettabili signori e da mogli ingioiellate. La cantante solista attacca una canzone tradizionale, dal testo assai rassicurante: «Dimmi, dimmi, dimmi / Di cosa sono fatte, le ragazzine?/ Son fatte di fiori, di anelli/ Di chiacchiere e di marmellata/ Ecco di che cosa sono fatte le ragazzine!». L’attempato pubblico non fa in tempo a continuare col proprio gongolìo compiaciuto, che dal fondo della sala fa irruzione, su un paio di pattini, Adelina Sotnikova. La prima russa in grado di vincere, a Soči 2014, la medaglia olimpica nella gara individuale di pattinaggio di figura sorride silenziosa alla ragazza come a dire: “Coraggio, sorellina, va’ avanti, ché ora devi cantare i versi scomodi”. Sì, perché si aggrottano le ciglia fra le poltrone, quando dalla boccuccia della cantante escono le prime parole modificate: «Sono fatte d’acciaio,/ Di impegno e di dedizione/ Sono fatte di lotte/ Ecco di che cosa sono fatte le ragazzine!». Non contenta prosegue: «Sono fatte di tenacia/ E di grazia/ Che danno orgoglio alla nazione intera / Ecco di che cosa sono fatte le ragazzine!», mentre la ballerina Olga Kuraeva, allieva della prestigiosa Accademia del Balletto Bolshoi, s’erge sulle punte dei piedi, in un mix forse per noi eccentrico di patriottismo e di visione più tradizionale e quindi accettabile dello sport femminile. Un contro-bilanciamento semantico, in realtà, a quanto sta per arrivare, il peggiore incubo postumo per il Comitato Statale per l’Educazione Fisica e lo Sport d’era sovietica: «Sono fatte di lividi, sono fatte di pugni», verso cantato mentre in un cantuccio del teatro la campionessa di arti marziali miste Anastasia Yankova se la prende con un sacco finito lì chissà come. La strofa non è finita: «Sono fatte di coraggio/ E di pugni chiusi», mentre la skater Kate Shengeliya sfreccia per il teatro, «Sono fatte di indipendenza/ E di abilità», e scatta dai blocchi di partenza la sprinter Kristina Sivkova Makarenko, «Sono fatte di passione e di cuore/ Sono fatte di dignità / Sono fatte di una determinazione/ Che è più dura della pietra/ Sono fatte di forza/ E di fuoco», e Anastasia Kotelnykova si fa forza con le braccia per ergersi su di una sbarra, «Sono fatte di libertà/ Rispetto alle opinioni delle altre persone» (Bum! L’ha detto, mentre significativamente l’attrice Irina Gorbacheva, mischiata fra il pubblico, si strappa di dosso l’elegante vestito da sera che indossa, rimanendo in top giallo, of course firmato Nike), «Sono fatte di risultati/ Sono fatte di conquiste/ Ecco di che cosa sono fatte le ragazzine!», canta ormai all’unisono tutto il coro, con sotto l’organo a dare manforte a questa rivoluzionaria opera adolescenziale che ridisegna sulle note di una canzone tradizionale l’intero panorama di genere dello sport femminile russo (e non solo quello). E le calciatrici? La loro rappresentante non poteva che giungere ora, a mo’ di ciliegina sulla torta, quando la musica scompare e le luci si spengono: Kseniya Lazareva alza coi piedi il pallone e lo fa atterrare di precisione nelle mani della giovanissima cantante, che a mo’ di oggetto magico lo stringe, chiude gli occhi e si ritrova, con tanto di maglietta firmata Nike e cerchietto simil-Alex Morgan (questa volta giallo però), su un campo di calcio innevato. Appoggia il pallone sul dischetto e grazie all’inquadratura capiamo di essere finiti nel bel mezzo di una partita giovanile. Mentre sentiamo la neve scricchiolare, la ragazzina col suo niente affatto tradizionale sguardo da tigre affamata fissa la propria avversaria fuori campo, mentre l’apparire dello slogan «Tu sei fatta di quello che fai» ci impedisce di sapere se ce le farà o no a segnare. Le bambine finiscono di cantare il loro «La la la», il secondo slogan «Credici di più» e il logo Nike suggellano il tutto, apparendo su sfondo nero.
Già dagli elementi riportati non ci vuole molto a comprendere la scaltrissima mossa commerciale dell’azienda di Portland, che, lungi dall’essere una ONG per l’emancipazione femminile, facendo l’occhiolino al female empowerment attraverso la «celebrazione di una visione più equa della donna nello sport e nella società» vuole ovviamente conquistare un mercato locale presentandosi come la paladina di una visione più fashion di quella tradizionale russa, per la quale forse i rubli alla voce abbigliamento sportivo delle figlie vanno usati giusto per il tutù delle ballerine e per i pattini da ghiaccio. Si potrebbero invece spendere pure per tutti gli altri sport visti in azione in What Are Girls Made Of! Non a caso, per quella stessa Giornata Internazionale della donna 2017 la Nike aveva diffuso un altro ancora più esplosivo e contradditorio video pubblicitario, destinato questa volta al mercato mediorientale, What will they say about you, già sapientemente decostruito da Giorgia Bernardini del suo recentissimo Velata. Hijab, sport e autodeterminazione - per chi volesse dilettarsi, ci sarebbe anche il capitolo turco, Bizi böyle bilin, a chiudere il trittico internazionale del 2017.
Quello che interessa in questa sede, tuttavia, non sono tanto gli scontati fini commerciali di What Are Girls Made Of, quanto gli effetti possibili sulle giovani calciatrici russe, agli occhi delle quali l’Occidente dove finalmente poter praticare lo sport desiderato qualsiasi esso sia (nel video, è ben ricordarlo, sono rappresentati anche gli sport tradizionalmente considerati femminili!), appare come l’Eldorado a lungo sognato. Non è poi da sottovalutare, nella trama della pubblicità, il ruolo decisivo del calcio femminile, non uno sport fra i tanti, ma quello finale, quello che suggella tutta la rassegna, che fa passare dal sogno dorato del teatro alla gelida realtà del campetto di periferia. Il calcio come la chiave per immaginare una nuova Russia, per «crederci di più», al sogno, anche se un sogno griffato.
Pronte a salire sul carro (globale)
In uno dei pochissimi articoli disponibili in rete in lingua italiana dedicati al calcio femminile russo Paolo Di Padua faceva il punto della situazione all’altezza del maggio 2020, in occasione del lancio di un nuovo programma di sviluppo presentato da Polina Yumasheva, responsabile della divisione femminile della Federcalcio russa (RFU). Lo scopo? Far capire a russi e russe che «il calcio femminile è bello, moderno, interessante, sincero ed emozionante». La parola d’ordine era far aumentare in maniera esponenziale il numero delle praticanti, così da avere poi ricadute sui piani alti del movimento nazionale: inaccettabile una massima serie giocata ancora fra le solite 8 squadre, bisognava arrivare ad averne almeno 12, che sarebbero state solo la punta dell’iceberg di un sistema a 3 divisioni comprendente in totale ben 80 società. «Un programma decisamente ambizioso, considerata l’attuale situazione del movimento femminile in Russia», commentava realisticamente Di Padua, il quale, dopo aver raccontato nel dettaglio dell’entrata dei club maschili del calcio femminile, passava all’analisi della Nazionale, ora affidata a Elena Fumina, «prima donna a rivestire quest’incarico, se si esclude la breve reggenza di Vera Pauw: 5 mesi nel 2011 senza mai disputare alcun incontro ufficiale» (!). Come giocatrice-simbolo dell’intero movimento Di Padua segnalava Nadezhda Karpova, contesa non solo dai maggiori club d’Europa ma pure dalle «principali aziende di moda e cosmesi», che «si battono per averla come testimonial», per poi terminare con una riflessione extra-sportiva: «Lo sviluppo del calcio femminile potrebbe servire come chiave di volta per portare a compimento quel processo di emancipazione femminile da sempre rimasto incompiuto in Russia. Una sorta di grimaldello che possa scassinare quell’intricata matassa di pregiudizi, che stritola nelle sue spire le fondamenta della società russa».
Nell’estate del 2020 la già citata Elena Fomina, prima donna russa ad ottenere una Licenze PRO da allenatrice, e CT sia della Nazionale sia del Lokomotiv Mosca, si mostrava ottimista circa la crescita del calcio femminile, grazie anche al fattivo supporto della Federcalcio nazionale, e dei club maschili che avevano iniziato ad aprire sezioni femminili interne. I punti su cui lavorare ancora erano i metodi di allenamento e il numero basso di calciatrici fra cui selezionare poi quelle per la rappresentativa nazionale. Il prestigio di eventuali vittorie internazionali, si capisce fra le righe, era la spada di Damocle sopra la testa della Fomina: così, dopo aver affermato che certo le statunitensi non avrebbero potuto vincere per sempre una Coppa del Mondo che nelle prime edizioni era passata sempre di mano, alla fine cedeva alle pressioni dell’intervistatore, e provava a tracciare una road map alquanto ambiziosa: se tutto andrà come deve andare, forse entro 5 anni (ergo, nel 2025) potremmo pensare di competere veramente per la conquista della Coppa del Mondo.
VI Images via Getty Images
Se questi erano i sogni ad occhi aperti di Fomina, bisogna andare a vedere quanto le ragazze chiamate a indossare la maglia rosso-granata con San Giorgio sul petto avessero abbastanza esperienza internazionale maturata coi rispettivi club per arrivarci. Nell’ottobre del 2020, le giocatrici della Nazionale che giocavano all’estero erano infatti appena 6: 13 mesi dopo, fra le 23 convocate in occasione del match contro la Danimarca si riducevano ad una, ossia la 21enne terzina Alsu Abdullina, tesserata per il Chelsea, mentre tutte le altre 22 compagne giocavano in patria (Lokomotiv, CSKA e Zenit essenzialmente). Nel febbraio 2022, però, la Serie A forniva il suo piccolo contributo all’internazionalizzazione del calcio femminile russo: l’Hellas Verona, infatti, acquistava Alina Miagkova dalla Lokomotiv Mosca, squadra con cui aveva vinto campionato, Coppa e Supercoppa di Russia l’anno prima. Alla fine della stagione erano 6 le presenze e un gol per la giocatrice russa, che vantava 12 presenze in Nazionale. Nella stessa sessione di mercato il Chievo Verona Women acquistava l’attaccante bielorussa Karyna Alkhovik, dando così una chance ad una rappresentante di un’altra repubblica ex-sovietica.
Cronache di un’esclusione
Nel frattempo erano partite (nell’agosto 2019) e si erano pure concluse (nell’aprile 2021) le qualificazioni per l’Europeo d’Inghilterra 2022. Fra le 47 nazionali in lizza per i 16 posti, ben 10 erano ex-sovietiche: Russia (14° fra le europee secondo il ranking FIFA con 28.187 punti al momento del sorteggio, svoltosi a Nyon il 21 febbraio 2019), Ucraina (16°, 27.260 punti), Bielorussia (27°, 16.361), Kazakistan (34°, 12.453), Moldavia (36°, 8.237), Estonia (39°, 7.225), Georgia (41°, 6.500), Lettonia (42°, 5.702), Lituania (43°, 4.973) e Azerbaijan (44° nonché ultima a pari merito con Cipro e Kosovo, senza punti). Se a ciò aggiungiamo la mancata partecipazione della Nazionale dell’Armenia, abbiamo un quadro complessivo abbastanza desolante, come se, a distanza ormai di trent’anni dalla dissoluzione dell’URSS, la cappa sovietica fungesse ancora, quatta quatta, da invisibile zavorra.
In ogni caso il campo forniva verdetti chiari: la Russia conquistava un buon secondo posto nel Gruppo A, seconda con 24 punti davanti alla Slovenia (p. 18) e all’esordiente Kosovo (p. 10), alle spalle delle vicecampionesse del mondo olandesi, lassù in cima con 30 punti, frutto di 10 vittorie su 10: entrambe le sconfitte con le orange erano per altro avvenute di misura, 2 - 0 a Eindhoven (8 ottobre 2019) e solo 0 - 1 a Mosca (18 settembre 2020). Negli altri gironi, per la cronaca, si assisteva ad una mattanza di Nazionali un tempo dipendenti da Mosca: Georgia 6° su sei nel gruppo B (bullizzata dalle danesi con ben 14 reti a Viborg, ma pure con 7 dalle bosniache a Zenica: le nostre azzurre, per non essere da meno, rifilavano le loro 6 in quel di Benevento), Bielorussia 4° su cinque nel Gruppo C (i propri 6 punti li andava a conquistare tutti nel doppio confronto con le Fær Øer ...), Moldavia e Azerbaijian chiudevano a pari merito la coda del Gruppo D, con 3 punti conquistati l’una con l’altra, Lettonia ultima e a 0 punti nel gruppo F, così come il Kazakistan nel Gruppo G e la Lituania nel grippo H. Unica altra squadra ex sovietica capace di tener testa alla Russia - neanche a dirlo - l’Ucraina, seconda nel gruppo I con 15 punti, solo 2 in più dell’Irlanda terza classificata: netta la differenza sul campo con le tedesche prime del girone, che il 3 settembre infliggevano a Leopoli un impietoso 0-8, replicato in maniera identica un mese dopo ad Aquisgrana. Giunte così entrambe ai play-off, le due Nazionali li affrontavano in maniera in apparenza diversa: l’Ucraina andava a perdere in casa a Kovalivka 1-2 contro l’Irlanda del Nord il 9 aprile 2021, e poi ancora 0 - 2 a Belfast 4 giorni dopo; la Russia, al contrario, faceva l’impresa andando a vincere 0 - 1 a Lisbona il 9 aprile 2021, riuscendo poi a resistere sullo 0 - 0 a Mosca nel match di ritorno. Missione compiuta.
Passa l’estate, nell’ottobre 2021 vengono sorteggiati i gironi della fase finale: la Russia finisce nel girone C, con Paesi Bassi (ancora loro!), Svezia e Svizzera. Dopo le vacanze natalizie la macchina mediatica della UEFA si mette in moto, e il 7 febbraio 2022 pubblica sul proprio sito e sui suoi canali social Gol classici della Russia agli Europei, un video che ripropone alcune reti del passato. Apre la rassegna, come ovvio, la staffilata di Elena Danilova alle azzurre a Euro 2017, seguita dall’altrettanto iconico colpo di testa di Elena Morozova, anche se a parer di chi scrive quello di più pregevole fattura è quello della stessa Morozova a Euro 2013, contro la Francia, nato da un errore controllo madornale della 23enne Wendie Renard, evidentemente la versione ancora acerba di quella che tutti avremmo imparato a conoscere e ad apprezzare ai Mondiali del 2019.
Mai tempistica fu però più funesta, giacché esattamente 3 settimane dopo la pubblicazione del video, il 28 febbraio 2022, FIFA e UEFA comunicano congiuntamente di aver sospeso «fino a nuovo ordine» «dalla partecipazione alle competizioni FIFA e UEFA» «tutte le squadre russe, siano esse rappresentative nazionali o squadre di club». Chiusa del comunicato: «Il calcio è totalmente unito e solidale con tutto il popolo ucraino coinvolto nel conflitto. Entrambi i presidenti [di FIFA e UEFA] sperano che la situazione in Ucraina migliori significativamente e rapidamente in modo che il calcio possa tornare a essere un veicolo di unità e pace tra i popoli». Da segnalare, alla vigilia della decisione, il comunicato della Federazione Svizzera di Calcio (ASF), che aveva dichiarato l’intenzione, comune alle Federcalcio di Polonia, Svezia e Repubblica Ceca, di escludere la Nazionale maschile russa dagli spareggi per i Mondiali del Qatar, «una posizione "non negoziabile" e che l'ASF estende anche alla prima partita della selezione rossocrociata femminile contro la Russia ai prossimi Europei, in programma il 9 luglio in Inghilterra».
In attesa dell’esito dello scontato ricorso della Federcalcio russa, ci si inizia ad interrogare su chi potrebbe sostituire le russe. Il 1° marzo un articolo del giornalista inglese Asif Burhan spiega come la UEFA non abbia ancora preso una decisione. Fra le altre cose, Burhan prova a interrogare la breve storia degli Europei alla ricerca di un precedente, tirando fuori solamente quello celebre della Jugoslavia maschile a Euro 1992, escludendo la quale a causa della Risoluzione 757 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU venne ripescata la Danimarca, ossia la prima squadra non qualificata di quello stesso girone (tutti sappiamo come andò a finire...). Per questo motivo, Burhan punta le sue fiches sul ripescaggio del Portogallo. Se ancora il 26 aprile The Athleticsi lamenta che ancora non sia stato deciso il nome della sedicesima squadra, il 3 maggio esso viene rivelato: ci andranno le portoghesi, all’Europeo.
Se in rete possiamo ancora trovare vecchi programmi con il nome della Russia cancellato a mano dai fans e dagli stessi sostituito con quello del Portogallo, il sito degli Europei curato dalla UEFA si trova una bella gatta da pelare, perché certo non può cancellare del tutto le russe. Così nella pagina del sito UEFA delle squadre nazionali partecipanti a Euro 2022 Russia e Ucraina si fanno ora compagnia nel gruppo «Spareggio», la prima però con un asterisco che recita: «Sospesa fino a nuovo avviso». Il cerchiolino con la bandiera portoghese viene silenziosamente portato nel primo gruppo, quello della “Fase a gironi”; un altro asterisco, nella pagina dedicata al Portogallo dalla «Guida alle squadre di Women’s EURO», pubblicata il 17 maggio 2022, spiega che «il Portogallo sostituisce la Russia».
Quando l’Europa si allontana
Come ben sappiamo da innumerevoli esempi, lo sport globalizzato ha una regola ferrea: la politica deve rimanere fuori dalla porta. E il calcio femminile, che da anni vuol presentarsi come diverso da quello maschile, brutto e corrotto e schiavo dei potenti? L’esclusione delle 23 calciatrici russe diventa così un banco di prova per capire se è vero o no che nel Mondiale 2019 l’anarchica icona di Megan Rapinoe sia stata una vera e propria figura di rottura rispetto alla quella tradizionale dello sportivo politicamente neutrale, oppure (come aveva insinuato a suo tempo Cat Ariail) nient’altro che un’eccezione tollerata dal sistema. Appaiono infatti abbastanza pilatesche le dichiarazioni della calciatrice olandese Vivianne Miedema, una delle star del movimento globale, cui Adidas ha persino dedicato una statua ora posizionata fuori dall’Emirates Stadium dove gioca con l’Arsenal Women: «Siamo delle professioniste: a noi non cambia nulla giocare contro la Russia o il Portogallo. Dal punto di vista della guerra, e dal punto di vista dell’UEFA, hanno fatto la scelta giusta. Ovviamente, poi, provi empatia per le giocatrici [russe]. Punire direttamente le giocatrici per la situazione che si è venuta a creare non è sempre bello, ma penso che per ora sia la decisione giusta». Un attimo più empatiche paiono le parole pronunciate a inizio marzo dal suo allenatore di club, Jonas Eidevall, il quale aveva accompagnato qualche mese prima le sue giocatrici a Mosca per una partita di Champions League: «Penso che sia assolutamente necessario mettere sanzioni, e che siano dure il più possibile; eppure le giocatrici della Nazionale, che si sono qualificate per l’Europeo... io penso anche a loro: non hanno niente a che vedere con questo conflitto. Gli stanno togliendo quello che si sono conquistate. È triste, molto triste».
E dall’altra parte? Per capire lo scoramento di chi aveva sperato che il calcio femminile russo riuscisse a prendere quel treno della globalizzazione che ora con l’esclusione dall’Europeo 2022 si allontana sempre di più all’orizzonte, possiamo metterci in ascolto di due voci, abbastanza isolate (il che è assolutamente comprensibile, vista la terra bruciata a cui si auto-condanna chi oggi in Russia osi criticare pubblicamente l’operato bellico del governo) eppure proprio per questo significative. La prima è quella della calciatrice Nadya Karpova, che a inizio giugno ha rilasciato una drammatica intervista alla giornalista di BBC Sport Alexandra Vladimirova. La 27enne sportiva è l’unica fra le giocatrici della Nazionale femminile a essersi esposta pubblicamente contro l’Operazione Speciale in Ucraina, al pari di alcuni colleghi maschi tra cui Feder Smolov e Aleksandr Sobolev. A differenze dei due, tesserati rispettivamente per la Dynamo e lo Spartak Mosca, Karpova non ha dovuto subire pressioni in loco, visto che da anni gioca all’estero, nell’Espanyol. Una sistemazione, quella spagnola, che le ha permesso non solo di esprimersi liberamente (su Instagram ha oltre 143.00 followers), ma anche di fare cose che nella Russia di Putin sarebbero state impossibili, come vivere alla luce del sole la sua relazione con una ragazza (una vicenda molto simile a quella di Elena Linari). Il 2017 era stato per lei l’anno della svolta: aveva partecipato con la Nazionale all’Europeo (entrando dalla panchina anche contro l’Italia, in sostituzione della protagonista del match Danilova) e si era trasferita a giocare in Spagna (prima Valencia, quindi Sevilla e infine Espanyol).
View this post on Instagram
Un post condiviso da nadya karpova (@karpichito)
Intervistata in un ristorante cinese di Barcellona (location significativa per comprendere il pot-pourri multiculturale che l’allontana anni luce dalla Russia del patriarca Kyrill), non tocca nemmeno il cibo che ha ordinato, e riversa sulla corrispondente della BBC tutta la sua rabbia contro la propaganda del governo e sulla missione storica affidata al popolo russo: «Di cosa parlano? Non penso che i Russi siano in qualche modo speciali; allo stesso tempo, non mi vergogno di essere russa, perché il governo e Vladimir Putin non coincidono con la Russia. Putin ci ha rubato tutto, ci ha rubato il futuro. Però l’ha fatto col nostro tacito consenso...». La parte finale dell’intervista è occupata poi dal racconto dell’arrivo in spogliatoio, a marzo, dell’attaccante ucraina Tamila Khimych: «Al nostro primo incontro, mi osservava prudentemente, come se avesse timore che io fossi a favore della guerra e considerassi miei nemici gli Ucraini. Volevo piangere. Pensavo alla sua famiglia e ai suoi amici: stavamo bene? Per me pensare che avrebbe potuto perdere le persone che amava era una sensazione orrenda».
Esprimendo il desiderio che altri sportivi russi come lei si espongano, Karpova prova a gettare uno sguardo su un futuro inevitabilmente diverso per il proprio paese: «Quelli là se ne andranno, un giorno: sono tutti anziani. Quando ciò accadrà, noi saremo ancora vivi, e dovremo essere pronti a rimettere tutto a posto. Spero che tutto ciò accada molto presto». Come ha scritto a inizio marzo lo storico dello sport Nicola Sbetti, «il vero quesito destinato per il momento a restare senza risposta è se l’esclusione degli atleti russi sarà efficace nel contribuire (nel suo piccolo e) assieme alle altre sanzioni a far fare retromarcia ai militari russi. Per quello ci vorrebbe la sfera di cristallo. Il paradosso però è che per isolare e indebolire Putin si rischia di togliere una piattaforma a tutti quegli sportivi che come Rublev, Pavlyuchenkova, Smolov, Medvedeva, Gamova e tanti altri si erano esposti pubblicamente contro la guerra. Si tratta di gesti niente affatto scontati che hanno messo a repentaglio la propria sicurezza e quella delle loro famiglie, che contribuiscono a rafforzare quell’opposizione alla guerra e a Putin che negli ultimi giorni ha portato all’arresto di oltre 6.000 manifestanti».
Un recentissimo articolo di Philip Buckingham per The Athletic, seppur focalizzato sul calcio maschile, può aiutarci ad intuire le ricadute anche economiche dell’esclusione globale sul movimento femminile, già ruota debole del carro nazionale russo. Se la fuga di massa dei giocatori stranieri dai grandi club riguarda principalmente il maschile (se ne contano già 60 su 162, autorizzati dalla FIFA a rescindere univocamente i propri contratti), ci sono altre ripercussioni per le calciatrici: come farà ad esempio lo Zenit a investire come in passato sulla squadra femminile, se dovrà fronteggiare il mancato gettone di partecipazione alla Champions League? L’altra questione grave, che si ripercuote sulla prima, è la fuga degli sponsor stranieri: Nike - sì, quella dello spot del 2017, e che sta investendo assai su questo Europeo d’Inghilterra 2022 - ha già rescisso la sponsorizzazione che durava dal 2005 con lo Spartak Mosca e - si dice - abbandonerà pure lo Zenit, mentre Adidas ha già salutato la Nazionale, la cui rappresentativa maschile peraltro non gioca un incontro internazionale da novembre (pure l’idea di un’amichevole contro l’Iran in settembre è naufragata).
La seconda voce non è quella di una calciatrice, bensì di un’appassionata tifosa, la 21enne Polina Dogunkova, originaria di Volgograd, la quale nonostante tutto tenta di dire la sua «mostly about Russian women’s football», come recita la bio del suo profilo Twitter. Se leggiamo tutti i tweet di Dogunkova dall’inizio dell’invasione, possiamo metterci in ascolto di questa voce dolente, che unisce la passione per il calcio con una decisa opposizione alle politiche del presidente Putin (di cui non è certo un’ammiratrice), nonché una crescente disperazione per l’involuzione democratica del proprio paese. A metà febbraio la Nazionale femminile russa aveva partecipato alla seconda edizione della Pinatar Cup, piccolo torneo amichevole ad invito, dove si era arresa solo in finale ai rigori al Belgio (20° nel ranking UEFA, mentre la Russia era 25°), il 22 febbraio. All’improvviso, dopo aver ritwittato i risultati del torneo, ecco arrivare la doccia fredda: il 25 febbraio Dogunkova avvisa i propri followers che la UEFA ha vietato fino a nuovo avviso le partite in casa alla Nazionale femminile russa.
Dogunkova è tutt’altro che ingenua e sottolinea la falsità della presunta estraneità alla politica dello sport: il 24 marzo, ad esempio, commenta così l’affermazione del Ministero dello Sport russo Oleg Matytsin, secondo cui gli sportivi non sono autorizzati a commentare in alcun modo l’Operazione Militare Speciale o l’operato del presidente Putin: «In Russia, ne puoi avere solo una, di opinione». Pensando in particolare alla storia del proprio paese, il 25 aprile afferma: «Lo sport, in Russia, è stato da sempre uno strumento di propaganda. Ecco perché io amo il calcio femminile: le autorità ignorano del tutto che esista!». Dogunkova ci fornisce poi un bell’esempio di come la storia dello sport e l’attivismo possano andare a braccetto. Il 21 marzo posta la pagina di un annuario del 2009 dello Zvezda 2005 di Perm’ (città ai piedi degli Urali, che dal 1940 al 1957 fu rinominata Molotov, in onore dell’ineffabile Ministro degli Esteri sovietico che un anno prima aveva firmato il famoso patto di non aggressione con la Germania nazista), tuttora la squadra calcistica più titolata di Russia, unica capace di raggiungere in quel 2009 addirittura una finale di UEFA Women’s Cup. Il commento è semplice: essendoci sotto le fotografie delle calciatrici il paese di provenienza, fa notare come «le Ucraine abbiano sempre svolto un grande ruolo all’interno del calcio femminile in Russia».
https://twitter.com/DogunkovaPolina/status/1505972770383052808
Dogunkova rilancia tutte le notizie riguardanti sportive russe che si stanno esponendo pubblicamente contro l’invasione dell’Ucraina, come la già citata Nadya Karpova, o come la pallavolista Ekaterina Gamova (per quanto un po’ annacquato, aggiungiamoci pure questo tweet dall’Italia di Alina Miagkova); si dichiara ironicamente sorpresa del fatto che due calciatrici bielorusse abbiano lasciato lo WFC Zenit di San Pietroburgo per tornarsene a giocare alla WFC Dinamo Minsk, in patria; il 21 maggio ritwitta le immagini del bombardamento che ha devastato lo stadio di Kharkiv utilizzato abitualmente dalla Nazionale femminile ucraina; il 30 maggio informa che il padre della già citata dirigente calcistica Polina Yumasheva si è dimesso dall’incarico di consigliere del Presidente Putin; il 17 giugno rilancia la notizia che la Nazionale femminile non disputerà alcun incontro almeno fino all’autunno. La Federcalcio russa è ovviamente fra i bersagli preferiti di Dogunkova, visto che mette la politica davanti a quelle calciatrici che dovrebbe difendere e promuovere. Il 2 maggio commenta amaramente: «Fino a quando Putin rimarrà al potere, le squadre di calcio russe non prenderanno parte ad alcuna competizione internazionale: è per questo che la Federcalcio russa (RFU) dovrebbe opporsi a Putin e al suo governo, al posto di appellarsi al CAS per la decisione di FIFA e UEFA. La RFU deve aiutare i calciatori [e le calciatrici], non Putin». Che le calciatrici russe stiano perdendo i colpi è evidente anche dal fatto, rilanciato da Dogunkova, che all’atto di celebrare il titolo nazionale inglese conquistato dal Chelsea, la giornalista del Guardian Suzanne Wrack non se la senta di mettere un voto alla stagione di Alsu Abdullina, con la seguente motivazione: «Ha giocato troppo poco per essere valutata. È stata una stagione difficile, quella della 21enne calciatrice, che ha lottato contro la barriera linguistica [in spogliatoio] e ha dovuto fronteggiare le ripercussioni dell’invasione russa dell’Ucraina, durante questo suo primo anno in Inghilterra».
Mentre dall’altra parte della cortina i paesi collaborano per creare eventi pacifici come l’Europeo congiunto Norvegia & Svezia 1997 («I paesi nordici sono in grado di unirsi per ospitare l’Europeo femminile. Bielorussia e Russia, paesi slavi, lo fanno per bombardare l’Ucraina. Fan***o.», twitta il 14 marzo), la giovane tifosa russa sfoga così i propri dubbi di fronte alle sirene provenienti dall’estero: «Desidero avere un’esistenza migliore, ma non voglio lasciare la Russia. Che dilemma! Voglio costruire un paese normale, non limitarmi ad andarmene all’estero». Si avverte, nei tweet di Polina Dogunkova, il rimpianto di quello che sarebbe potuto accadere, che stava per accadere, prima che le sliding doors dell’Europa si chiudessero, come quando il 25 maggio sospira: «Sembra che l’Europeo femminile del 2017 sia avvenuto 10 anni fa», o come quando invita a ripensare, col senno di poi, a quelle illusorie speranze che il Mondiale di Russia 2018 aveva suscitato nell’opinione pubblica mondiale. Eppure, stoicamente, il 7 giugno twitta lo stesso: «Io mi guarderò ogni singola partita dell’Europeo femminile, e nessuno potrà impedirmi di farlo».