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Emiliano Colasanti

Storia emotiva della retrocessione del Frosinone

La paradossale stagione dei ciociari raccontata da un tifoso che si era illuso.

Raccontare una storia di cui già si conosce il finale non è mai facile, ma ci provo lo stesso. Magari fermandomi un attimo prima. 

 

Solo le 21:30 del 26 maggio del 2024 e io non sono al Benito Stirpe. Ho lasciato il mio posto di abbonato in Curva Sud a mia sorella, perché il lavoro mi ha impedito di essere allo stadio. Sono a Milano, nei camerini di un festival musicale, da solo, con una connessione di fortuna, delle orribili luci al neon, le zanzare, l’assurda strisciante sensazione che lo psicodramma si stia per compiere.

 

Ho cominciato a pensarlo al primo errore difensivo di Lirola, ne ho avuto la quasi certezza dopo la traversa colpita da Soulé su punizione. Gira tutto male e può solo finire peggio. In realtà ho iniziato a pensarci ancora prima, questa sensazione mi accompagna da giorni. Venerdì a pranzo un amico mi dice di stare tranquillo, io gli rispondo che tranquillo non lo sono mai, che la carriera di Eusebio di Francesco è costruita su momenti d’esaltazione da cui nascono fallimenti spettacolari. 

 

Durante tutta la giornata di domenica non c’è una persona che m’incontri e che non mi dica: «Dai che è fatta», e io penso che non è fatta per niente. Mi stringo nelle spalle, guardo il palco dove la chitarrista è in ginocchio che gioca con i pedali degli effetti e penso che è tutto sbagliato.

 

Avrete capito che lavoro nel mondo della musica, un lavoro che trasforma i festivi in giorni feriali e che non conosce feste comandate. Difficile far coincidere il mio essere tifoso abbonato con quello che faccio per campare. Eppure ci riesco quasi sempre: il primo maggio del 2023, cioè il giorno in cui il Frosinone di Fabio Grosso ha centrato la promozione in Serie A, lo avevo aspettato facendo calcoli su calcoli, sperando che nessuno degli artisti con cui lavoro venisse coinvolto in una delle tante feste dei lavoratori che si tengono in Italia. Le due promozioni in Serie A prima di queste, d’altra parte, le ho perse per ragioni di lavoro: durante Frosinone – Crotone del 2015 ero impegnato in un festival musicale a Roma, quella partita l’ho vista a casa uscendo subito dopo il fischio finale. Sulla tangenziale avevo visto dei palloncini giallo blu volare in cielo, ma in realtà era l’inaugurazione di un nuovo Ikea.

 

Il giorno di Frosinone – Palermo del 2018, invece, ero a Milano in un hotel a sei stelle. Una famosa coppia di stilisti aveva ingaggiato uno degli artisti che seguo per una sfilata. Non lo dico certo per vantarmi, ma perché in un hotel a sei stelle non puoi urlare come vorresti, forse come dovresti, durante una partita del genere. Nel mio caso, a un certo punto, è arrivata la sicurezza a chiedermi di abbassare la voce. Dopo il fischio finale sono uscito in strada e me la sono fatta a piedi fino a piazza Duomo dicendo “Forza Frosinone” a chiunque incrociasse il mio cammino. Il primo maggio del 2023, come ho detto, è stata la mia prima volta allo stadio per una promozione e comunque il diluvio che si è abbattuto su Frosinone dopo quella partita mi ha impedito di festeggiare come volevo. Il fatto di dover lavorare la sera di Frosinone – Udinese mi ha fatto stare male, quindi, ma forse meno di quanto credessi. 

 

Avevo provato questo stesso malessere sottile il giorno in cui Eusebio Di Francesco è stato ufficializzato come allenatore al posto di Fabio Grosso. Ovunque mi girassi c’era un meme che urlava retrocessione ancora prima di fare il primo allenamento. Di Francesco che come Nonno Simpson entra dalla porta, si toglie il cappello, lo poggia sull’attaccapanni, lo riprende, inforca l’uscita e se ne va immediatamente. Di Francesco come l’orchestrina del Titanic che suona il violino mentre la nave cola a picco. I miei molti amici romanisti mi scrivono che sono dispiaciuti per me e che sanno cosa si prova. Ma io guardo Di Francesco con quello sguardo da bestia ferita che aspetta la morte e penso che sarebbe davvero bellissimo se invece ce la facesse. 

 

Anche le settimane che hanno preceduto l’inizio di questa stagione le ho vissute nel segno dello scoramento. Non solo per Di Francesco ma anche per via di un mercato indecifrabile e che forse si è trascinato troppo per le lunghe. Come per Di Francesco, però, dall’iniziale senso d’abbandono è nato un affetto inaspettato per questa squadra scombinata già durante le prime amichevoli estive. O almeno scombinata sembrava al me che voleva cedere al pregiudizio, mentre il me che sperava vedeva segnali diversi. Per esempio il gol del pareggio contro la Salernitana, in una delle amichevoli estive, dopo un’uscita palla dalla difesa impeccabile, una di quelle che dovrebbero essere studiate a Coverciano, come si dice.

 

Anche i primi trentacinque minuti giocati all’esordio in campionato contro il Napoli, allo Stirpe, mi avevano fatto ben sperare. Certo, alla fine il Frosinone aveva perso 3-1, ma ricordo che quella partita mi aveva lasciato un certo buon umore. L’ho detto anche a mio padre, seduto accanto a me quel giorno: «Vabbè, alle brutte vorrà dire che almeno ci divertiremo un po’».

 

Una settimana dopo a Frosinone è arrivata l’Atalanta e tutti noi tifosi abbiamo riempito lo stadio come condannati a morte che affrontano il patibolo. L’Atalanta, “la Dea”, la grande e irreprensibile Atalanta del generale Gasperini. Una partita che nella normalità delle cose prevederebbe almeno cinque gol subiti e che invece questa volta fa succedere l’impossibile. Marchizza ruba un pallone a centrocampo, lancia Harroui che quasi indisturbato riesce a entrare in area, calcia di destro, mira l’angolino opposto e segna. Per qualche ragione vinciamo 2-1 e a questo punto le mie remore svaniscono definitivamente, al punto che per la prima volta commetto un errore madornale: comincio a crederci. Certo, tra me e me ancora mi racconto che è ancora calcio d’agosto, che è solo la seconda giornata di campionato, ma sotto sotto ci credo.

 

Chissà, quel giorno a vedere il Frosinone, nel suo appartamento di Torino, forse c’è anche Matias Soulè. E forse comincia a crederci anche lui, perché il giorno dopo scioglie la riserva e comunica alla Juventus di avere accettato il prestito e di volere raggiungere il suo amico Barrenechea. Gli ultimi giorni del calciomercato del Frosinone sono totalmente pazzi, non si riesce a stare dietro alle notizie di mercato. Arrivano giocatori a raffica, uno persino dal Real Madrid. Sono quei rari momenti in cui in una sessione di calciomercato la fantasia diventa realtà.

 

Contro il Sassuolo, sempre in casa, il Frosinone va sotto di due gol (Pinamonti, pure ex) ma riesce ad accorciare le distanze, agguantare il pari, passare in vantaggio con una rete piuttosto fortunosa di capitan Mazzitelli. Una partita da sogno, che non si fa mancare nemmeno una parata incredibile al 92′ di Stefano Turati, che in quel momento diventa un nuovo eroe cittadino. Il gol di Lirola che chiude la partita ci fa tornare a casa felici.

 

Fino a dicembre siamo la squadra rivelazione del campionato, tutti parlano bene del Frosinone e anche le sconfitte non fanno paura. È un sogno? La mia illusione è arrivata al punto che persino dopo aver sciupato un vantaggio di tre gol a Cagliari cerco di non ascoltare i tanti che ci avevano intravisto una coazione a ripetere da parte di Di Francesco, una tendenza autodistruttiva che poi si sarebbe effettivamente realizzata. Non sono stati però i risultati a farmi dubitare, ma gli infortuni. In una partita si scassano entrambi i terzini titolari – cioè Oyono e Marchizza, che fino a quel momento avevano fatto benissimo – e i sostituti non sembrano all’altezza. Al centro della difesa siamo corti da inizio stagione e quando Monterisi s’infortuna – fino a quel momento una delle rivelazioni del campionato – comincia una sperimentazione permanente in cui centrocampisti centrali vengono arretrati in difesa e le mezzali costrette a giocare da terzini.

 

Ciccio Gelli, detto “Gellingham”, copre tutti i ruoli tranne quello del portiere, Brescianini decide di portare la croce e diventa un giocatore fondamentale, mentre anche Harroui si fa male a un piede e sparisce. Eppure, nonostante tutto, continuiamo a giocare bene. Certo: perdiamo quasi sempre. Soulé segna sempre meno su azione, Cheddira si sbatte ma non becca mai la porta. Qualcosa si è inceppato.

 

Ci sono ancora dei lampi di magia, però. Il Frosinone va a giocare al Maradona di Napoli contro il Napoli di Mazzarri e vince per 4-0, arrivando per la prima volta nella sua storia a giocare i quarti di finale di Coppa Italia. Una serata storica, incredibile, irreale e che rafforza l’immagine di una squadra che mantiene più di quello che promette. Che sembra, a noi poveri illusi, essere superiore a tutte le altre che lotteranno per non retrocedere.

 

Il calciomercato di gennaio cerca di mettere le toppe aperte dagli infortuni. Arrivano Zortea e Valeri per sostituire i terzini, al centro della difesa viene acquistato Kevin Bonifazi, che però non giocherà quasi mia per via degli infortuni. A Frosinone arriva anche l’ennesimo esterno d’attacco in prestito, Demba Seck, ce n’era davvero bisogno? Il suo arrivo contribuisce a mandare in tribuna Giuseppe Caso, beniamino della tifoseria e uno degli eroi della squadra che ha conquistato la Serie A, punito per avere rifiutato tutte le offerte di trasferimento. Da romantico di questa squadra mi piace pensare che è proprio quello il momento in cui tutto quello che di buono era stato costruito comincia a sgretolarsi, la polaroid di un palazzo che crolla mentre c’è ancora il cantiere. 

 

Il Frosinone vince contro il Cagliari in casa a fine gennaio, ma è un fuoco di paglia. Per tornare a vedere una vittoria bisognerà aspettare Frosinone – Salernitana del 26 aprile. Come da copione, molte partite le perde giocando bene: con la Roma in casa (0-3), dopo un primo tempo in cui non ho ancora capito come non abbiamo fatto a segnare; con la Juventus allo Stadium, dove abbiamo perso subendo gol da Rugani a 15 secondi dalla fine. Bastava davvero poco per rimanere in Serie A.

 

Allo Stirpe si comincia a mugugnare nei confronti di tutti. Mi ci metto pure io, pensando che Di Francesco potrebbe anche provare a pareggiarne una invece che provare a vincerle tutte. La parte più razionale di me prova a pensare che siamo arrivati lì anche grazie a quell’ambizione. Mio padre, in maniera più pagana, bestemmia ogni volta che proviamo a costruire dal basso. Ormai tutto sembra galoppare verso il peggio.

 

C’è un’ultima svolta illusoria, come tutte le parabole che portano alla morte. Succede quando Di Francesco passa al 3-5-2 trasformando Lirola in braccetto di sinistra con Zortea e Valeri larghi, e Brescianini avanzato quasi al centro dell’ attacco. È una mossa che ci aiuta a pressare meglio, e anche Cheddira, allargato sulla sinistra, sembra giovarne (in quella posizione segnerà 5 dei suoi 8 gol in campionato). È in questo modo che pareggiamo a Napoli, Empoli e Torino, che vinciamo con Salernitana e Monza. Insomma, ce la giochiamo, o almeno così continuiamo a ripeterci. 

 

Arrivati all’ultima giornata, come sapete, abbiamo due risultati disponibili su tre, e l’ultima in casa contro l’Udinese. Da buon cliché giornalistico siamo noi gli artefici del nostro destino. Il problema è che è un destino beffardo, triste e pure un po’ ridicolo. Un finale amaro da commedia all’italiana che dopo un po’ di giorni faccio ancora fatica a verbalizzare. 

 

Come si esce da una cosa così? Come si va avanti? Da cosa si riparte? Su un sito ho letto i consigli di uno psicologo utili ad affrontare una delusione sportiva: non identificatevi troppo con la squadra, state insieme agli amici, bevete tanta acqua e non prendete sostanze eccitanti. Io ci ho provato. Ho fatto tutto ciò che il sito mi chiedeva di fare, una dietro l’altra, eppure non se n’è andata la sensazione di non essere stato fuori dalla realtà negli ultimi giorni, di avere ancora la possibilità di svegliarmi.

 

Ho pensato e ripensato al momento in cui questa retrocessione impossibile è diventata possibile, e poi alla fine reale. Non sono arrivato ancora a una conclusione, ma alla fine mi sono ricordato dell’unico momento in cui penso di aver avuto una visione lucida della situazione, tra lo spaesamento iniziale e la depressione finale. Quello, cioè, in cui mi ero girato verso mio padre dopo la sconfitta contro il Napoli, all’esordio in campionato, e gli avevo detto: «Dai papà, alla fine ci siamo divertiti».

 

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Emiliano Colasanti lavora nella musica ed è co-fondatore dell’etichetta 42 Records. Ha scritto per diverse riviste, pubblicato libri e con Daniele Manusia conduce il podcast PVC.