Al triplice fischio Mohammed Saleh cade sulle ginocchia, lo sguardo rivolto verso il cielo. La Nazionale palestinese ha appena battuto Hong Kong per 0-3, la sua prima storica vittoria nella Coppa d’Asia che le ha permesso di ottenere la sua prima storica qualificazione nella fase ad eliminazione diretta della competizione. La Palestina si è qualificata come prima tra le migliori terze del torneo, merito anche dell'insperato pareggio contro gli Emirati Arabi Uniti nella partita precedente, ma il percorso non è stato semplice. L’esordio è finito con uno secco 4-1 contro l’Iran - un risultato che sembrava presagire un torneo simile alle altre due Coppe d’Asia a cui la Palestina ha partecipato: 6 partite giocate, 4 sconfitte, un solo gol segnato - e anche questo 0-3 è un risultato in parte bugiardo. Hong Kong ha avuto almeno tre occasioni clamorose per segnare, tra cui una con il risultato ancora sullo 0-1, e un rigore sparato sulla traversa al minuto 98. Le cose, cioè, sarebbero potute andare molto diversamente.
Quello mostrato da Saleh a fine partita, però, non sembra essere sollievo per una partita tirata, negli occhi ha una sorta di disperazione. Guarda il cielo e piange, poggia la fronte a terra e dagli spasmi che continuano ad agitarlo capiamo che lo sta facendo per nascondere il viso. Per leggere la sua reazione dobbiamo sapere che è uno dei giocatori della Nazionale palestinese ad essere nato a Gaza e che dietro alla sua immagine piangente c’è un mare di cose che sarebbero potute essere ma non state, di giocatori che sarebbero potuti esserci ma non ci sono.
A dicembre la federazione palestinese di calcio ha pubblicato un report secondo cui gli atleti morti nella striscia di Gaza o in Cisgiordania per via degli attacchi dell’esercito israeliano (dallo scorso ottobre) sono stati 85, tra cui 55 calciatori - e chissà quanti altri ce ne sono stati, nel frattempo.
Tra questi figurano nomi a noi sconosciuti ma che, forse, sarebbero potuti essere al posto di Saleh sui nostri schermi oggi.
Rashid Dabour, difensore 28enne della squadra palestinese Al-Ahli Beit Hanoon, ucciso in un raid aereo.
Shadi Sabah, morto insieme alla sua famiglia durante il bombardamento del palazzo in cui viveva.
Questi sono due nomi, ma in realtà sono talmente tanti che il commentatore palestinese Khalil Jadallah, interpellato da Al Jazeera, è riuscito a tirarne fuori una Top XI. E persino ai suoi nomi si potrebbe aggiungere anche quello di Hani Al-Masry, ex storico giocatore della Nazionale palestinese diventato general manager della Nazionale olimpica.
L’attacco allo sport e in particolare al calcio palestinese in questi mesi è andato oltre la sua dimensione fisica, cioè dei corpi degli atleti, e ha riguardato anche la sua dimensione simbolica, la traccia che lascia nella cultura di una comunità, nella psiche collettiva. È dal 2011 che Israele sostiene che gli impianti sportivi sono utilizzati come base di lancio dei missili, rendendoli quindi obiettivi militari da colpire. Per questa ragione poche settimane fa l’esercito israeliano ha prima parzialmente distrutto il più importante e antico stadio di Gaza, lo Yarmouk, e poi lo ha trasformato in un enorme centro di detenzione per presunti terroristi.
Nel terrificante video che è arrivato a noi vediamo uomini e bambini in mutande con le mani sopra la testa, carrarmati che passeggiano su quello che rimane del campo, decine e decine di persone inginocchiate su un prato che teoricamente è pensato per un gioco. In sottofondo una straniante musica house che stride con la drammaticità delle immagini, montata in funzione epica da un giornalista israeliano integrato nell’esercito di Gerusalemme.
Quella palestinese non è la prima Nazionale che vive l’urgenza di affermare l’esistenza di qualcosa che non c’è. Il Kosovo l’ha utilizzata per prefigurare la sua indipendenza ancora prima che avvenisse; le selezioni britanniche - Galles, Scozia e Irlanda del Nord - compensano a livello simbolico la mancata indipendenza dei rispettivi Paesi all’interno del Regno Unito. Nessuna però ha mai vissuto la stessa urgenza di testimoniare l’esistenza di una comunità che si sente sull’orlo della sua fine. «Dobbiamo ricordare al mondo che la Palestina esiste», ha detto l’allenatore tunisino della Nazionale palestinese, Makram Daboub, prima della partita d’esordio contro l’Iran.
È difficile capire, da qui, il peso letterale che hanno queste parole. In effetti c’è stato un momento in cui la stessa Nazionale palestinese non è stata sicura di poter partecipare a questa Coppa d’Asia. Dopo l’onda di distruzione scatenata da Israele sui territori palestinesi a seguito del massacro compiuto da Hamas lo scorso 7 ottobre, non era scontato che la squadra riuscisse a uscire fisicamente dai territori palestinesi. Ci sono voluti giorni di trattative, e l’intercessione del principe di Giordania Ali bin Al Hussein (che contestualmente è anche il presidente della federazione giordana di calcio), per superare in sicurezza, a fine ottobre, il confine di terra con la Giordania che divideva la Nazionale palestinese dal resto del mondo. E nonostante ciò, per via di questa attesa, la Palestina ha dovuto comunque rinunciare a un torneo in Malesia a cui avrebbe potuto partecipare. Da quel momento, comunque, la Palestina ha giocato tutte le sue partite “in casa” in Kuwait o in Qatar, senza mai poter rientrare, a partire da quella valida per le qualificazioni mondiali con l'Australia dello scorso 21 novembre.
Non per tutti i membri della Nazionale palestinese, poi, è stato facile uscire dal proprio Paese. «Il medico della squadra ha provato a muoversi dal proprio villaggio a Ramallah ma è dovuto tornare indietro perché i coloni [israeliani, ndr] hanno attaccato la sua macchina», ha raccontato un giocatore della Nazionale ad Al Jazeera che è voluto rimanere anonimo. «Gli hanno tirato addosso un grosso masso che ha spaccato il parabrezza. È fortunato ad esserne uscito vivo».
Inoltre, come succede ormai da anni, la Nazionale palestinese ha dovuto fare a meno dei giocatori di Gaza, impossibilitati a uscire. L’ultimo giocatore che viveva a Gaza ad essere convocato per la Nazionale rimane il portiere Abduallah Shaqfa, che venne chiamato per la Coppa Araba del dicembre del 2021. Nella squadra attuale gli unici giocatori di Gaza sono riusciti ad unirsi perché giocano in altri Paesi, come lo stesso Mohammed Saleh che gioca in Malesia.
Il suo pianto alla fine della partita contro Hong Kong rimarrà in futuro come simbolo di una grande impresa sportiva, ma oggi è riflesso di un’angoscia che è molto più contingente e materiale. «Non è facile concentrarsi sulla partita. I ragazzi controllano ogni minuto le notizie sui telefonini, in albergo, sul bus, anche durante gli allenamenti», aveva detto il CT Daboub prima dell’esordio contro l’Iran. Per i giocatori che hanno ancora tutta o parte della propria famiglia a Gaza quest’angoscia è presente, costante, ed è difficile da immaginare la forza che ci vuole per essere presenti in un torneo di calcio mentre alcune delle persone più care potrebbero sparire da un momento all’altro. «I miei cugini sono stati uccisi oggi, tipo 30 minuti fa», aveva dichiarato prima della partita d’esordio un altro giocatore della Nazionale, Mahmoud Wadi.
Nessuno più di Saleh, però, riesce a contenere tutta questa immane tragedia. Lui, cresciuto a Gaza, imparando a giocare a calcio nello stadio Yarmouk, oggi è in Qatar per la Coppa d’Asia mentre la sua famiglia lotta per la sopravvivenza. «Pochi giorni fa hanno bombardato la casa di mio zio e i miei cugini sono rimasti feriti», ha detto dopo la partita con Hong Kong. Ieri sul suo braccio c'era scritto 110, come i giorni che Gaza aveva passato sotto le bombe. Il giorno in cui la Palestina giocherà il suo ottavo di finale, i giorni saranno diventati almeno 115.