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Trova qualcuno che ti guardi come Nikola Jokic guarda Aaron Gordon
22 mar 2024
Storia di un’intesa telepatica.
(articolo)
10 min
(copertina)
IMAGO / Icon Sportswire
(copertina) IMAGO / Icon Sportswire
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Basta vedere una qualsiasi partita dei Denver Nuggets per rendersi conto di come Gordon abbia un posto speciale nella testa e nel cuore di Jokic. Ci sono momenti in cui nulla sembra interessare di più all’MVP delle ultime Finals che fare felice il suo amico Aaron: ogni volta che riceve palla, ogni volta che recupera un rimbalzo, ogni volta che sta per effettuare una rimessa, il primo pensiero è sempre per Gordon, che a sua volta sa di avere un appuntamento sopra il ferro per concretizzare in due punti i messaggi d’amore del suo BFF.

Come altro si spiega un assist del genere se non come una storia d’amore? Il passaggio è stato talmente improvviso che la regia della partita se l’è perso e non esistono replay: la NBA è andata a riprendere queste immagini dal feed della camera centrale per testimoniare uno degli assist più assurdi di questa stagione. Jokic a malapena dà una breve occhiata all’altra metà campo!

Cos’era Gordon prima di incontrare Jokic

Anche se non ha ancora compiuto 29 anni, Aaron Gordon è alla sua decima stagione in NBA ed è a tutti gli effetti un veterano di questa lega. Ora abbiamo un’idea definita di lui, riconoscendolo non solo come un giocatore che sta in quella fascia tra l’ottimo titolare e l’All-Star, ma anche come un pezzo fondamentale di una squadra capace di vincere il titolo NBA dominando negli ultimi playoff. Eppure non è sempre stato così, anzi era esattamente il contrario.

Nei primi sei anni e mezzo della sua carriera era difficile capire cosa fosse e, ancor di più, cosa potesse diventare Aaron Gordon. Scelto alla numero 4 del Draft del 2014 dagli Orlando Magic che ancora non capivano da che parte girarsi senza Dwight Howard, ha impiegato due anni solamente per imporsi nel quintetto base di una squadra che oscillava tra le 25 e le 35 vittorie senza mai riuscire a scollarsi dalla peggiore mediocrità. Anche nei suoi momenti più brillanti, Gordon rimaneva incastrato nel mezzo: troppo basso per essere un 4, troppo poco tecnico per giocare da 3, troppo poco tiratore per essere una prima opzione offensiva, troppo atletico per non trovargli un posto in campo.

Di fatto, il grande pubblico lo conosceva solo per il suo tormentato rapporto con la gara delle schiacciate, di cui ricopre con ogni probabilità il dubbio privilegio di essere il miglior perdente di tutti i tempi.

A Gordon veniva chiesto di essere una prima opzione offensiva senza che avesse lo skillset per esserlo: le sue capacità con la palla in mano sono sempre state inadeguate per il ruolo che i Magic pensavano potesse ricoprire, cercando di farlo diventare uno di quegli “apex creator” sopra i due metri seguendo lo stampino dei vari Jimmy Butler e Carmelo Anthony, per non arrivare a scomodare LeBron James. Ma con un ball-handling a malapena mediocre e doti da tiratore in sospensione pressoché nulle, la sua efficienza offensiva era di conseguenza terribile: nei suoi sette anni ai Magic ha tenuto a malapena il 50% effettivo dal campo, con appena un tiro su tre che veniva preso al ferro. Uno spreco di risorse a tutti gli effetti, considerando il suo atletismo debordante.

Gli osservatori più attenti avevano riconosciuto il fatto che Gordon venisse usato nella maniera sbagliata. Nella squadra di Evan Fournier e Nikola Vucevic, a Gordon era richiesto di prendersi più responsabilità di quelle che erano nelle sue possibilità, e anche in difesa non era messo nelle condizioni mentali e tecniche per poter far vedere quanto fosse ampio e versatile il suo repertorio. Qualche lampo, però, c’era: per lui si è sempre usato il paragone con Draymond Green, immaginandolo come ideale valvola di sfogo negli short roll per sfruttare le sue sottovalutate capacità di muovere il pallone e, soprattutto, lo spazio per detonare verso il ferro. Ma chi doveva creargli quegli spazi in una franchigia che non supera il 20° posto per rendimento offensivo dal 2011-12?

La folgorazione sulla via verso Denver

Tutto è cambiato quando Gordon, esasperato da una situazione che non sembrava sbloccarsi mai, ha chiesto di essere ceduto ed è stato mandato a Denver in cambio di RJ Hampton, Gary Harris e la prima scelta al Draft 2025 nel marzo di tre anni fa. Per la sua carriera non sarebbe potuto succedere niente di meglio. Dopo il suo arrivo, infatti, qualcosa ha fatto immediatamente click in quella squadra: con Gordon in quintetto i Nuggets hanno vinto le prime sette partite consecutive anche se lui solo in una occasione ha superato quota 20 (alla sua prima contro i Magic, peraltro) e sembrava veramente potesse essere il pezzo mancante per una squadra che nella bolla di Orlando aveva raggiunto le finali di conference, eppure faticava a farsi prendere davvero sul serio come contender per il titolo.

La rottura del legamento crociato di Jamal Murray alla sua nona partita in maglia Nuggets ha come messo in pausa l’intera franchigia: senza il playmaker canadese Denver ha continuato a rimanere nell’alta borghesia della conference grazie all’incessante grandezza di Jokic, ma era evidente che mancasse quel qualcosa per poter competere davvero. La stagione 2021-22 interamente saltata da Murray, col senno di poi, non è stata però buttata: Jokic e Gordon infatti l’hanno usata per affinare ancora di più la loro connessione, per conoscersi dentro il campo e sviluppare l’intesa telepatica che li ha resi inarrestabili anche se tutti sanno cosa vogliono fare, e per diventare amici fuori dal campo, con Gordon che ha passato del tempo in Serbia a casa del suo giocatore franchigia.

Quando incontri l’uomo della tua vita, non vuoi fare altro che renderlo felice — e non c’è niente che renda Jokic più felice che guardare cavalli.

La verità è che Jokic ci ha fatto vedere una versione ancora diversa del Gordon che ci immaginavamo. Dimenticatevi Draymond Green: Gordon ha sviluppato parti completamente diverse del suo gioco per adattarsi come un guanto alla genialità di Jokic, andando a occupare quelle zone di campo che il serbo solitamente non calpesta e imparando a muoversi divinamente negli spazi che le difese avversarie inevitabilmente devono lasciare liberi. Ci sono momenti in cui l’attacco dei Nuggets ha una strutturazione talmente geometrica da sembrare quasi hegeliana: Murray e Jokic giocano il pick and roll al centro del campo; Kentavious Caldwell-Pope e Michael Porter Jr. si spaziano negli angoli per lasciare loro spazio di manovra e punire sugli scarichi; Gordon pattuglia la linea di fondo aspettando il momento giusto per assaltare il ferro, oppure mettendosi in angolo dove ha percentuali da tre oneste (36% in questa stagione) per portare via l’aiuto avversario, specialmente quando viene marcato da un 5.

L’ultimo esempio, fresco fresco di stanotte. Non è tanto che “Jokic ha gli occhi dietro la testa”, come suggerisce l’account della NBA; è che Jokic ha visto Gordon 3 secondi prima e poi non ha più bisogno di guardarlo, deve solo aspettare che gli avversari sbaglino.

In questo modo anche le difese più sofisticate si ritrovano davanti a una scelta impossibile: Murray e Jokic hanno ormai sviluppato una tale familiarità nei loro giochi a due da essere inarrestabili se marcati da soli due giocatori, ma allo stesso tempo mandare aiuto contro di loro equivale inevitabilmente a esporsi a un tiro ad alta percentuale — che sia una tripla di uno degli esterni (sia KCP che MPJ viaggiano attorno al 40% da tre punti) o una conclusione al ferro di Gordon, che tira col 75% nell’ultimo metro di campo.

Perfino i Boston Celtics due settimane fa non sono mai riusciti a capire come aiutare su Jokic senza lasciare una pista di decollo libera a Gordon, vedendolo dominare nel dunker spot per tutta la partita fino all’azione finale

Da quando è arrivato a Denver, Gordon ha esplorato il lato più primordiale del suo gioco, anche modificando il suo corpo per renderlo più adatto a giocare sotto canestro e ricoprire il ruolo di 5 di riserva quando si riposa Jokic. Adesso Gordon sfrutta la sua stazza e la sua forza fisica per prendere la miglior posizione possibile nei confronti degli avversari, specie se sono più piccoli di lui: all’inizio delle Finals dello scorso anno i Miami Heat hanno provato a “nascondere” Gabe Vincent su di lui, ma la ferocia con cui Gordon ha attaccato il mismatch sotto canestro ha costretto Spoelstra a tornare rapidamente sui suoi passi — vedendosi così privato subito di una possibile soluzione tattica all’inizio di una serie in cui non è mai riuscito davvero a venire a capo di come fermare i Nuggets al loro massimo splendore.

Oltre 13 minuti di assist l’uno per l’altro solamente nella scorsa post-season. Ci sono momenti in cui Jokic sembra usare Gordon come strumento di tortura per i suoi nemici, scegliendo il modo più sadico per far loro del male.

Come per il pick and roll con Murray, quello che rende difficile fermare Jokic e Gordon è la loro intercambiabilità: se Jokic ha un mismatch migliore, Gordon è capace di spaziarsi sul perimetro per recapitargli un entry-pass di buon livello, e ovviamente è possibile il contrario. I due, poi, possono anche giocare il pick and roll in combinazione, e sono poche le coppie di lunghi in grado di seguire i loro passi di danza senza commettere un errore fatale. Basta una minima incertezza per vedere Gordon volare indisturbato verso il canestro, e i Nuggets sono in grado di giocare situazioni di questo tipo anche nei finali di gara punto a punto pur non avendolo mai esplorato per tutta la partita. È il vantaggio di conoscersi a menadito e di sapere esattamente cosa vuole l’uno dall’altro: mentre agli avversari servono schemi complicati, a loro basta scambiarsi uno sguardo — anzi, a volte non serve nemmeno quello.

Dice Jokic, facendolo sembrare semplice: «A volte non ho nemmeno bisogno di guardare perché so già dove si trova. Devo solo alzarla su e lui la maggior parte delle volte arriva a prenderla. Se non ci arriva, allora è colpa mia». Nella sua infinita genialità, ci sono momenti in cui Jokic sfrutta la minaccia di poterla alzare a Gordon per rimanere un passo avanti agli avversari, che rimangono sempre incastrati nel dubbio amletico se aiutare sul serbo o se rimanere a metà strada per intercettare il lob.

Di tutti gli assist di Jokic per Gordon, quelli in cui esegue tutta la sua meccanica di tiro e all’ultimo istante la alza al suo migliore amico sono i miei preferiti — seguiti di un’incollatura da quelli di tocco in cui non ha nemmeno bisogno di avere il controllo il pallone per mandarlo a segnare.

L’umiltà di mettere la vittoria al primo posto

Dei 226 canestri assistiti realizzati da Gordon quest’anno, ben 111 nascono da passaggi di Jokic, rendendoli una delle coppie più prolifiche di tutta la lega oltre che tra le più belle da vedere. Jokic renderebbe grande qualsiasi compagno, ma bisogna anche dare dei meriti a chi gli sta intorno per essersi sintonizzato sulla sua stessa lunghezza d’onda, cosa tutt’altro che banale. Anche perché poi nella metà campo difensiva Gordon è in grado di tappare ogni falla, prendendosi carico dell’ala avversaria più pericolosa (nell’anno del titolo è passato da Karl-Anthony Towns a Jimmy Butler passando per Kevin Durant e LeBron James, e scusate se è poco) e sfruttando anche il suo fisico per stare coi 5 e spostare il serbo su un accoppiamento meno complicato.

La parabola di Gordon è paradigmatica di quanto il contesto sia tutto per un giocatore NBA, anche per uno di già buonissimo livello come era lui a Orlando. Quanti altri Aaron Gordon abbiamo perso per strada perché non hanno avuto la loro opportunità in una contender? Quanti altri Aaron Gordon non hanno mai trovato il loro Nikola Jokic per diventare davvero grandi? E quanti altri invece avevano quella opportunità, ma non hanno avuto l’umiltà per “accontentarsi” di rimanere in quella situazione, andando a cercare statistiche e contratti da altre parti invece di mettere la vittoria al primo posto?

Se Jerami Grant nell’estate del 2020 avesse accettato di rimanere a Denver a seguito della cavalcata fino alle finali di conference invece di andare a cercare di fare la prima opzione offensiva a Detroit, ora probabilmente Gordon non sarebbe ai Nuggets — e la sua carriera sarebbe completamente diversa, così come il modo in cui ci ricorderemo di lui tra dieci o vent’anni. La vita, come sempre, è una questione di scelte, anche se non sempre sono le nostre a determinare che piega prenderanno gli eventi. Ma Gordon ha il grande pregio di farsi trovare pronto al posto giusto al momento giusto, e ora può godersi la vita al ritmo di un lob alzato dal più grande lungo passatore di tutti i tempi. S’è visto di peggio.

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