Quando Alan Hansen ha alzato il trofeo, al termine di un puramente celebrativo Liverpool-Derby County, non sembrava così entusiasta. Del resto era il suo ottavo titolo in tredici stagioni con il Liverpool. Era l’inizio di maggio del 1990 e due settimane prima i "Reds" avevano battuto il QPR diventando matematicamente campioni d’Inghilterra. Quella serata ad Anfield era una festa. Mentre la Kop intonava You’ll Never Walk Alone, Kenny Dalglish era entrato in campo per la sua ultima presenza da calciatore. Aveva rughe intorno alla bocca e i capelli di un biondo spento. Aveva 39 anni ed era una leggenda assoluta del club: 355 partite e 112 gol da giocatore; 1 stagione da allenatore, 5 da allenatore/giocatore con 10 titoli vinti: Dalglish è, ancora oggi, l’atleta con più trofei vinti nella storia del calcio. Era un’epoca di fasti assoluti per il Liverpool. Quella partita chiudeva un decennio in cui era riuscito ad alzare 18 titoli, nel contesto di una città con l’economia e il tessuto sociale devastati dalle politiche thatcheriane. Il calcio era un sollievo e un riscatto per la classe operaia dei docks.
Sono passati 30 anni. I calciatori indossavano ancora calzoncini scandalosamente corti, non curavano i propri tagli di capelli e la Premier League ancora non esisteva. Nessun tifoso del Liverpool avrebbe scommesso, allora, che non ci sarebbe stato un altro titolo di Premier nei successivi tre decenni. In occasione del trentennale la società ha intervistato gli eroi di quella stagione: sono tutti anziani, incanutiti, ricordano con lieve stupore il senso di sicurezza che li accompagnava, la sensazione di trovarsi in un club in cui le vittorie sembravano arrivare da sole, come una specie di legge di natura.
«Non era una questione di “se avremmo vinto” ma di “quando avremmo vinto”» ricorda Gillispie, «Se mi avessero detto che non avremmo altri titoli da qui al 2020 avrei detto “Sei fuori di testa!”». Gillespie pensava che neanche se il Liverpool avesse smesso di giocare per altri cento anni il Manchester United avrebbe raggiunto il suo numero di titoli. Oggi lo United ha 20 Premier League in bacheca, due in più dei "Reds". Sir Alex Ferguson, guardando il solco lasciato dalla sua maestosa era di successo, ha detto con una certa violenza che l’obiettivo più grande della sua carriera è stato: «Far scendere giù il Liverpool dal suo cazzo di trespolo». Anche un riferimento all’uccello che campeggia sullo stemma dei Reds.
Per qualcuno, l’epoca d’oro di quel Liverpool è finita con la strage di Hillsborough. L’impegno di Dalglish per far sentire la propria vicinanza alle vittime, scrivono i giornali in quei giorni, è “eroico e colossale”. Si dice che nelle settimane successive alla tragedia arrivava ad assistere fino a cinque funerali al giorno. Circa un mese dopo, il Liverpool perderà il campionato ad Anfield perdendo 0-2 contro l’Arsenal: la partita raccontata da Nick Hornby in Febbre a 90°, assurta per questo a simbolo dell’imprevedibilità e della felicità contenuta in una partita di calcio (perché ovviamente, per chi non avesse letto il libro, Hornby è tifoso dell'Arsenal). La moglie di Dalglish racconterà che dopo Hillsborough l’allenatore ha sofferto di notti insonni e sbalzi d’umore. Non riusciva neanche a prendere le decisioni più semplici. Lascerà la squadra l'anno successivo alla vittoria del 1990, tornando in modo per certi versi incredibile nel 2011, per traghettare il Liverpool uscito malconcio dalla fine dell’era Benitez.
In quegli anni il calcio inglese era un universo chiuso. Dal 1985 le sue squadre erano state escluse dalle competizioni europee e la Premier League e la FA Cup erano gli unici palcoscenici su cui potevano misurare il proprio valore. Due stagioni dopo l’ultima vittoria in Premier, il Liverpool è tornato in Europa in uno scenario modificato, dove però ha continuato a trovarsi a proprio agio. Nel trentennio fra il 1960 e il 1990 i "Reds" hanno alzato 41 trofei; in quello successivo, che si concluderà nel 2020, solo 16. C’è un numero rimasto però invariato: in entrambi i periodi il Liverpool ha vinto stati 7 i titoli continentali.
La grande voce mancante, quindi, è quella dei campionati nazionali.
L’inseguimento di un nuovo titolo, in quella che nel frattempo è diventata la Premier League, è stato straziante, ricco di sfortuna ed episodi persino paradossali. Una storia che arriva fino a oggi. Mentre scrivo, il Liverpool è primo in Premier League con 25 punti di vantaggio sul Manchester City, secondo. Il 7 marzo, battendo il Norwich, la squadra di Jurgen Klopp aveva stabilito l’impressionante record di 22 vittorie consecutive: poi il calcio si è fermato per una pandemia globale.
Al Liverpool mancano solo sei punti per laurearsi ufficialmente campione d’Inghilterra, la rincorsa trentennale si è allungata di almeno altri tre mesi e non esiste ancora certezza se si potrà tornare in campo.
Naturalmente ci sono dei motivi razionali dietro l’assenza di successi del Liverpool negli ultimi trent’anni. Anzitutto i grandi cicli di altri due giganti del calcio inglese: il Manchester United di Sir Alex Ferguson e l’Arsenal di Arsene Wenger; poi l’arrivo dei soldi russi e arabi, prima al Chelsea e poi al Manchester City, che hanno stravolto gli scenari competitivi della Premier League. Ma non basta a spiegare del tutto perché una squadra come il Liverpool (che comunque dal 2010 è di proprietà di un grande gruppo statunitense, il Fenway Sports Group) non sia riuscita a vincere.
Se non altro perché in questo periodo ha avuto squadre forti, ricche di campioni, in grado di vincere due Champions League e arrivare in finale altre due volte. Nel torneo, quindi, considerato più tortuoso e difficile da vincere. In campionato, in questi trent’anni, i "Reds" hanno accumulato quattro secondi posti e in almeno due occasioni il titolo è sfuggito per dettagli inafferrabili e per due episodi diventati iconici nella storia recente della Premier.
The Slip
Il 24 aprile del 2014 il Liverpool primo in classifica affronta il Chelsea terzo. Due settimane prima aveva battuto il Manchester City in un altro scontro diretto delicatissimo, proprio nell’anniversario dei 25 anni dalla tragedia di Hillsbourough. Non sembravano esserci grandi ostacoli a quel punto per la vittoria finale.
Alla fine del primo tempo, però, il risultato è ancora sullo 0-0 e le due squadre recitano le loro parti. Il Chelsea, il secondo di Mourinho, è nella propria metà campo, in attesa del momento in cui l’avversario rivelerà la propria debolezza; il Liverpool di Rodgers invece controlla la palla e cerca di mettere in moto il suo eccezionale talento offensivo: Coutinho, Suarez, Sturridge, Sterling. A gestire la palla, quando ormai siamo nei minuti di recupero, è Mamadou Sakho, largo a sinistra. Gerrard, che quell’anno aveva disputato una grande stagione davanti la difesa, era sceso per effettuare la salida lavolpiana. Quando Sakho gli passa il pallone, Gerrard muove la testa alla ricerca di un compagno, forse della traccia più diretta per dare il via all’ultima occasione della partita. Quando la palla gli arriva sta guardando in un'altra direzione, di solito non sarebbe un problema per un giocatore come lui, ma quella volta il più banale degli stop non gli riesce: la palla gli scorre sotto il piede destro e a quel punto cerca di riconnettere velocemente corpo e cervello, deve recuperare la palla in fretta, troppo in fretta, perde l’appoggio sul terreno al secondo passo e scivola. Demba Ba, la cui carriera verrà sostanzialmente riassunta in quel singolo momento di cinismo, raccoglie il pallone e segna con un tiro sciatto che passa in qualche modo sotto le gambe di Mignolet.
Gerrard reagisce con la virilità di un capitano e di un simbolo del calcio inglese: raccoglie il pallone e corricchia verso il centro del campo come per provare a riavvolgere il nastro. In un drammatico replay successivo lo vediamo passarsi la mano tra i capelli e poi aggrottare la faccia in un’espressione di sconcerto e dolore. In un’altra foto ha le mani sui fianchi e l’aria stanca, mentre sullo sfondo i tifosi del Chelsea fanno festa: un’immagine teatrale della spietatezza del calcio nella dialettica tra attori e spettatori, individuo e collettivo.
Il Chelsea vincerà quella la partita e il Liverpool entrerà in una spirale suicida che raggiungerà la sua massima espressione nella partita contro il Crystal Palace: con il punteggio sul 3-0 la squadra di Rodgers prova disperatamente a segnare altri gol per accorciare la differenza reti nei confronti del City di Pellegrini, così si sbilancia e subisce tre gol piuttosto ridicoli negli ultimi dieci minuti. Al fischio finale, Gerrard deve consolare Suarez con gli occhi a terra e in lacrime.
Ascoltate bene perché a un certo punto il telecronista dice: “Non c’è dubbio che la partita sia già vinta, bisogna vedere di quanto”.
Il Liverpool diventa una barzelletta. La partita verrà ribattezzata “Crystanbul”, sull’account Twitter del Tottenham comparirà un sadico: «Brutale ma molto divertente» (tweet che poi verrà cancellato con la scusa che che gli era stato hackerato l’account). Nella nostra memoria quel titolo è sfuggito dalle mani del Liverpool per via della scivolata di Gerrard, anche se in una stagione fatta di 36 partite è difficile ridurre il margine che separa il successo dall’insuccesso a un singolo momento.
Alcuni hanno voluto spostare l’attenzione su Mignolet. Carragher ha detto: «Guardi al portiere e pensi: Dai, facci vincere il campionato. Fai quella parata che diventerà il momento memorabile della stagione», ma così non è stato. Neville si dirà stupito che nonostante il brutto tiro di Ba nessuno abbia incolpato Mignolet per quel gol. L’errore di Gerrard aveva una carica metaforica troppo potente per non definire il fallimento del Liverpool: il suo capitano e giocatore simbolo che scivola letteralmente sul terreno di gioco è la squadra intera che simbolicamente scivola a una passo dal titolo.
È struggente che uno dei più grandi campioni della storia del Liverpool, Steven Gerrard, non abbia mai vinto un campionato. Anzi, dentro la cornice domestica la sua immagine rimarrà associata a quella sfortunata scivolata a cui in Inghilterra si fa riferimento con un semplice “The Slip”. C’è un dettaglio dai contorni ancora più perfidi in questa storia. Nel discorso post-partita contro il City, Gerrard caricò i compagni ripetendo: «Non ce la facciamo sfuggire ora! Non ce la facciamo sfuggire ora!» (che in inglese però si traduce con lo stesso verbo che noi utilizziamo anche per dire "scivolare"). Giocherà ancora un altro anno ai "Reds", ma la sua carriera è finita sostanzialmente in quella partita.
Belli e perdenti
Bill Shankly, l’uomo che ha forgiato l’identità vincente del Liverpool, amava ripetere: «Se sei il primo, sei primo. Se sei il secondo non sei niente». È ironico, quindi, che nel nuovo millennio la squadra comincia a essere chiamata “Looserpool”. Shankly è stato la dimostrazione vivente di quanto radicalmente una singola persona possa modificare la storia di un club: prima del suo arrivo il Liverpool era da anni in seconda divisione, dopo il suo addio era diventata la squadra più vincente d’Inghilterra e una delle più temute d’Europa. Oggi lo ricordiamo per il gusto aforistico, ma il suo lavoro all’interno del club è stato meticoloso e ha riguardato quasi tutti gli aspetti: dal miglioramento dei bagni delle tribune alla rizollatura dei campi d’allenamento. Oltre, ovviamente, al lavoro sulla testa dei giocatori. David Peace racconta la straordinaria epica lavorativa di Shankly in «Red or Dead», la costruzione di una grande squadra per lui era un lavoro di fatica da svolgere con cura in ogni singolo dettaglio, come coltivare un bell’orto o rimettere in piedi una casa diroccata.
C’è un aneddoto, raccontato nel libro, particolarmente significativo. È uno dei primi colloqui tra Shankly e la dirigenza del Liverpool e riguarda i possibili nuovi acquisti. Shankly chiede Denis Law, e si vede rispondere che costa troppo, che è un giocatore da Spurs o da Arsenal. Allora Shankly gli risponde che questo è il loro problema, e non è un problema di soldi ma di ambizione. Come se Shankly vedesse dietro i fattori più materiali e visibili che governano una squadra di calcio, anche quelli invisibili. Era l’unico a vedere che il successo era scritto nel destino del Liverpool, e il suo lavoro è stato convincere tutti gli altri che fosse così.
Anche dopo il suo addio non si è tornati più indietro: il Liverpool era sul suo trespolo e continuava a vincere titoli come se fosse l’unica cosa che potesse davvero fare. Tutto questo fino al 1990. Da quel momento tutto l’apparato di simboli che esprimeva la grandezza del Liverpool si è via via ridotto a puro ornamento. Il cartello “This is Anfield”, le folate di calore della Kop, “You’ll Never Walk Alone”, la maglia rossa, gli aforismi di Bill Shankly.
L’immenso fascino del Liverpool contribuiva, in qualche modo, a creare l’immagine di una squadra incapace di vincere nel cinico calcio contemporaneo. I successi in Europa con Benitez sono stati importanti, e hanno distinto il Liverpool dalle squadre davvero perdenti, ma al contempo i Reds hanno perso lo status di squadra egemone che erano stati per diversi decenni della propria storia. Per il Liverpool, insomma, vincere è tornato a essere difficile.
Forse non tutti ricordano che quando è arrivato al Liverpool, Jurgen Klopp era considerato un mezzo perdente: aveva vinto due campionati, certo, ma poi aveva cominciato ad accomodarsi dietro il Bayern; aveva raggiunto due secondi posti e si era fermato tre volte in finale, una di Champions e due di Coppa di Germania. La sua storia di allenatore romantico, così fissato con Febbre a 90° (che racconta proprio della stagione di Hillsborough) da aver plasmato uno stile di gioco che potesse sprigionare quella carica emotiva, era perfetto per il Liverpool. Il suo biografo Raphael Honigstein racconta che è stato il fascino letterario dei Reds ad averlo convinto a rifiutare il Manchester United in precedenza, e a non aver neanche considerato uno spostamento in Baviera nell’establishment del Bayern.
Arrivato nel Merseyside, Klopp e il Liverpool hanno continuato a coltivare insieme la loro epica di romantici perdenti, in modi persino clamorosi. Dopo la finale persa contro il Siviglia nell’Europa League del 2016 Barney Ronay sul Guardian difendeva Klopp dalle accuse di essere un “perdente seriale”. Più tardi Klopp confesserà che in quei giorni aveva paura di essere licenziato.
Due anni dopo, Klopp perderà un’altra finale di Champions League, contro il Real Madrid: di nuovo una rivale più accreditata, arrivando da outsider. Per lui era la sesta finale persa in cinque anni. Dopo la semifinale vinta contro la Roma il tecnico aveva avvertito i suoi giocatori: «Nessuno ricorda i perdenti». Dopo aver perso parlerà con l’amarezza di chi è già passato per troppe delusioni: «Quando perdi non sei il secondo migliore, sei il peggiore». Ma dirà anche che: «Perdere è un’esperienza molto interessante. Non è certo qualcosa che desideri, ma è come una forte medicina. Se la assumi può farti bene».
Poi è arrivato il campionato 2018/19, la migliore stagione di una squadra che non ha alzato il titolo. Una sorta di capolavoro di incompiutezza: la squadra di Klopp metterà insieme 97 punti, mai nessuna ne ha totalizzati tanti senza poi vincere il titolo, in nessuno dei maggiori cinque campionati europei. Anche in questo caso il Liverpool può vantare un momento iconico, che da solo rappresenta un piccolo trompe l’oeil della loro sconfitta.
City e Liverpool vanno a un ritmo forsennato e quando si incontrano all’Etihad, il 4 gennaio, la sfida sembra già decisiva. Sullo 0-0 Sadio Mané riceve una palla oltre la difesa ed è solo davanti a Ederson; colpisce di piatto e prende il palo interno. Sarebbe un’azione di per sé sfortunata, ma quello che succede dopo è ancora oggi difficilmente credibile.
La palla torna verso il dischetto, Stones ed Ederson ci arrivano da due parti opposte, e quando il difensore prova a spazzare prende in pieno il portiere; la palla a quel punto si impenna in una strana traiettoria che sta per finire in porta, ma Stones si butta in scivolata anticipando Salah e salvando sulla riga di porta. Quasi oltre la linea di porta, ma ancora dentro. Tutta la dinamica dell’azione è irreale: è un momento comico che si è quasi generato da solo, e a cui si è opposto il rigetto primordiale verso il gol di un difensore come Stones. Ha salvato la palla colpendola di controbalzo, in estensione, schivando persino l’arrivo di Salah. La palla aveva superato la linea per il 95% della propria superficie.
Quei tre centimetri nella memoria collettiva sono esattamente la distanza che hanno separato il Liverpool dalla prima vittoria di Premier League, anche più dell’unico punto di distanza dal City che leggeremo in classifica a fine stagione.
La sconfitta può davvero entrare sotto pelle a una squadra, costituire la sua identità profonda? Entrare nella testa dei giocatori e degli allenatori che si susseguono e modificare i loro risultati sportivi? Oppure dovremmo davvero credere all’esistenza di un destino perfido che in questi anni si è accanito sul Liverpool, non solo togliendogli i titoli ma mettendoglieli in mano per poi sfilarglieli all’improvviso?
La festa in uno stadio vuoto
È difficile oggi immaginare che quell’azione non sia ancora nella testa dei giocatori del Liverpool. Magari erano riusciti a scacciarla dopo la vittoria in Champions League dello scorso anno; e anche dopo l’autoritario cammino in Premier che gli ha permesso di lasciare appena 5 punti dopo 29 partite giocate: 27 vittorie, un pareggio, un’unica sconfitta.
Dopo lo scorso anno, e dopo i 97 punti, era opinione diffusa che il Liverpool fosse “una squadra da Champions”. Cioè una squadra formidabile nel doppio confronto, in grado di generare una tempesta perfetta sul campo di Anfield, ma troppo poco solida per il campionato. Ma proprio con la vittoria in Champions League, Klopp aveva cominciato a invertire la narrazione perdente sua e del Liverpool, e per completare l’opera ha bisogno di vincere definitivamente la Premier League. Ossessione e maledizione dei "Reds" negli ultimi trent’anni.
Il Liverpool ha iniziato l’anno puntando esplicitamente sulla Premier League, ma il modo in cui ha dominato la stagione non ha niente di scontato. Si pensava anche che la vittoria in Champions e il cammino della stagione precedente rischiavano di togliere motivazioni al Liverpool, che invece è diventato una macchina: ha cominciato a vincere le partite senza apparente sforzo, come fanno le grandi squadre da campionato, raggiungendo raramente i vertici di brillantezza dello scorso anno ma amministrando i momenti in maniera sorniona, creando un contesto in cui la vittoria diventa il traguardo inevitabile.
Forse il più grande merito di Klopp è stato quello di essere stato davvero fedele alle sue parole: h davvero assorbito la sconfitta come una forte medicina. In questi giorni l'allenatore sembra comprensibilmente nervoso. Ha difeso i traguardi della sua squadra: ha detto che annullare la stagione sarebbe ingiusto, considerando che si è giocato il 76% delle partite e sono stati in testa dalla seconda giornata. Ha anche detto che accetterebbe se non si tornasse a giocare, e così ha fatto Mané. Nel frattempo in Inghilterra tutti sembrano voler sottolineare l’assurdità dell’eventuale vittoria del Liverpool: «Sarà strano per il Liverpool alzare il trofeo», ha commentato Harry Kane; Gary Neville è stato ancora più esplicito: «Negli annali ci sarà sempre un asterisco accanto a questo titolo, una piccola nota “Il Liverpool ha vinto il campionato ma…”».
Oggi sembra probabile che la Premier League riprenda a metà o a fine giugno e anche se non dovesse il titolo dovrebbe comunque essere assegnato al Liverpool. Ma quale sarà il suo vero valore, come la ricorderemo questa Premier League? Sarebbe più grottesco festeggiare la vittoria di un campionato dopo trent'anni, in uno stadio vuoto, con intorno un paese ancora in piena emergenza sanitaria, oppure direttamente a casa, in seguito alla fredda circolare di un’assemblea federale?
Una situazione paradossale, che sembra essere un altro modo con cui la maledizione della Premier continua ad affliggere il Liverpool. I tifosi in questi mesi hanno potuto continuare a sentire il titolo vicino ma, invece di pregustare la felicità e il sollievo, il concetto stesso di vittoria si è scolorito, ha perso di significato. Proprio oggi che l’inseguimento trentennale pare finalmente concluso, nessuno sembra aver voglia di festeggiare.