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La grande storia d'amore tra i portieri e i cappellini
22 mar 2021
Passano gli anni, ma per i portieri c'è un solo modo per proteggersi dai raggi del sole.
(articolo)
10 min
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Nel calcio il rapporto tra i portieri e i cappellini è anomalo: viene dato per scontato, eppure è quasi scomparso. Merito (o colpa) degli stadi coperti, che hanno ridotto la finestra di esposizione al sole delle aree di rigore, ormai solo raramente disturbate dai raggi durante le partite. Nonostante sia (quasi) sparito è un accessorio che si è cementificato nella memoria collettiva come compagno inseparabile degli estremi difensori in quelle domeniche pomeriggio con il sole che bagna il campo con la sua luce.

Nel Regolamento il cappellino è citato in maniera esplicita: “È consentito l’uso di equipaggiamento protettivo non pericoloso […] come pure cappellini per i portieri”. Inoltre rispetto a altri accessori che possono indossare i calciatori, sono immuni da limitazioni. Un portiere può mettere un cappellino di colore diverso dalla maglia, ma anche un copricapo buffo, volendo, o con scritte tipo saluti alla mamma o battute sceme (anche se l'arbitro magari potrebbe non prenderla benissimo). Insomma i portieri sono abbastanza liberi quando si tratta di cappellini e la loro progressiva scomparsa è da ricercare nella moda o nell’architettura o – forse – nei cambiamenti climatici a cui stiamo andando incontro. C’è solo un episodio di ribellione al cappellino, quando, ormai 10 anni fa, l’arbitro Cognigni di Fermo impedì al portiere Marinsalda di subentrare con un cappellino per proteggersi dal sole, nel pareggio per 3-3 in Prima Categoria contro l’Helvia Recina, scatenando la furia del presidente della Samb, Montecassino Franco Ortenzi. Chissà, forse il cappello era uno di quelli dove infilare le lattine, con una cannuccia che scende direttamente in bocca.

I favolosi anni ‘90

Il cappellino ha fatto la sua fortuna sui campi da calcio soprattutto negli anni ’90. Stava sulle teste di molti numeri 1 con una certa dose di stile, grazie anche alle splendide divise caleidoscopiche che impreziosirono l’estetica degli estremi difensori nel primo decennio veramente globale del calcio. Guardate ad esempio Gianluca Pagliuca che sinergia perfetta con il suo berretto blu e la divisa che sembra uscita dalla fantasia di Salvador Dalì.

Nel nostro campionato fece una certa presa nell’immaginario, soprattutto come strumento salva vita dei portieri di provincia, come se il destino li avesse costretti a una vita di parate contro sole. Chi lo usava volentieri era Massimo Taibi, uno che infatti non riuscì mai a smarcarsi da questa etichetta nonostante le esperienze al Milan e al Manchester United. Taibi unì il cappellino al gusto per maglie larghe e pantaloni lunghi, una combinazione che lo faceva sembrare ancora più imponente dei suoi 190 centimetri per 82 chili.

Walter Zenga lo vestiva con l’immortale scritta Pirelli, addirittura al contrario, come un qualsiasi 15enne fissato con MTV. Dopotutto erano gli anni di Jovanotti, che nella copertina del suo primo album Jovanotti for President lo porta addirittura girato su un lato.

Il berretto con visiera fece proseliti anche al Mondiale del 1994, nel mio immaginario personale il Mondiale più assolato della storia – e quindi il paradiso dei cappellini. Qui il copricapo protegge lo svedese Thomas Ravelli dal sole e dall’incipiente stempiatura, nella partita contro il Camerun a Pasadena.

C’era anche Oliver Kahn, all’epoca solo terzo portiere tedesco, con uno swag in-de-scri-vi-bi-le. Il portiere tedesco lungo tutta la sua carriera ha usato spesso il capellino, a dimostrazione di come non fosse uno strumento da portieri di Serie B, ma un vero e proprio salvavita nelle giornate meteorologicamente magnifiche per tutti, tranne per chi doveva parare tiri in un tripudio di luce.

L’ultimo vero integralista del cappellino in Serie A è stato probabilmente Armando Pantanelli, un anno da terzo all’Inter, poi soprattutto Cagliari e Catania, dove ha giocato l’unica sua stagione in massima serie: 37 partite, di cui una mezza dozzina passate sorprendentemente al quarto posto in classifica. Ancora oggi, dispensa consigli ai più giovani colleghi che si ostinano a parare nel pomeriggio di Melfi a capo scoperto.

Ma il cappellino non è solo un’eccellenza italiana, anzi. Prendete l’onesto Jens Martin Knudsen, carrellista presso un imballaggio ittico, ma soprattutto una carriera divisa tra squadre semiprofessioniste di Islanda, Scozia e Fær Øer, la nazione di cui difenderà i pali sin dalla sua prima partita ufficiale sotto l’egida UEFA, nel 1988. A distinguerlo un berretto bianchissimo con un pon pon in cima (a proposito dell’“essere conformi all’aspetto professionale dell’equipaggiamento del calciatore” di cui si parla nel regolamento alla voce accessori), confezionato a mano dalla madre. Quel ciuffetto di peli entrò negli incubi degli austriaci, sconfitti per 1-0 nelle qualificazioni agli Europei del 1992 nella prima vittoria della storia delle Fær Øer. Partita e cappellino che è possibile gustarsi per quasi un paio di ore su YouTube, in cui Knudsen beneficia anche di una solida prestazione difensiva dei suoi. Se poi effettivamente quel cappello poteva proteggerlo, come lui fermamente sosteneva, dalle conseguenze di un trauma cranico patito a 14 anni, non saremo noi a deciderlo.

Steve Morton/Getty Images

W. Genzo

Se la versione sfoggiata da Knudsen perdeva la sua dimensione anti-sole diventando quasi un mero vezzo estetico, è il portiere con berretto e visiera – il cappellino da baseball per intenderci - quello a cui siamo affezionati. E se lo siamo, è per merito di un cartone animato. Alla base della popolarità del cappellino ci sono infatti le gesta di Genzo Wakabayashi, in Italia più noto come Benji Price, il portiere protagonista del manga e dell’anime che dal 1994 hanno modellato l’immaginario calcistico dei giovani ben oltre i confini del Giappone. L’inseparabile cappellino con visiera non è solo un talismano, ma anche una specie di carta d’identità visto che la scritta che si vede sulla visiera nelle prime stagioni è, forse non ci avevamo mai fatto caso non sapendolo, il nome e l’iniziale del cognome, una specie di logo antelitteram oggi usato da molti sportivi. Ma il cappellino di Benji non è solo un cappellino: alla bisogna si trasforma anche ultima arma contro le bombe da fuori degli avversari.

Può il cappellino aver contribuito a deviare la palla sulla traversa? Forse sì (Colonna sonora del video insolita e apprezzata)

Pur non avendo dati a difendere questa tesi, è probabilmente anche grazie a Benji che il ruolo del portiere è così legato a un copricapo, pur se effettivamente sempre più in disuso.

Newsboy cap

Ma il cappello che Benji ha reso uno oggetto da portiere ha in realtà un predecessore. Una volta infatti i portieri usavano il newsboy cap, copricapo tornato in auge grazie alla serie Peaky Blinders molto simile alla coppola. Dai toni grigi perfetti per la televisione in bianco e nero, erano in diversi i portieri a usare questo cappello da gentiluomini, soprattutto nel calcio inglese. Nato nel 1860, il berretto da baseball ce ne mise per sfondare anche in Europa e probabilmente il newsboy cap sembrava più appropriato per passare 90 minuti a difendere una porta con i pali squadrati in legno. Il picco fu probabilmente il Mondiale svedese del 1958, dove fu sfoggiato regolarmente da due dei migliori portieri della competizione.

Uno era Harry Gregg, portiere del Manchester United e dell’Irlanda del Nord capace di superare un girone con Germania, Cecoslovacchia e Argentina, prima di arrendersi alla Francia ai quarti. Per le sue prestazioni, Gregg venne anche eletto come miglior portiere del torneo, anche se l’affetto nei suoi confronti deriva in parte da un giorno di pochi mesi prima, quando, dopo lo schianto dell’aereo che stava portando lo United a casa da Monaco di Baviera, aiutò molte persone a uscire salve dalla carcassa del velivolo in fiamme.

Il secondo era niente di meno che Lev Yashin, considerato da molti il miglior portiere della storia, che l’8 giugno 1958 lo scagliò contro l’arbitro Rudolf Kreitlein reo di aver fischiato un rigore per l’Inghilterra sul 2-1 per l’URSS a cinque minuti dalla fine, dopo averlo quasi placcato (non aveva tutti i torti, diciamo). Non è facile stabilire se è stato più Yashin a fare le fortune del newsboy cap o il contrario, visto come incorniciava perfettamente il profilo austero del portiere russo, ma l’unione tra i due è così iconica che nella settimana dei 90 anni dalla sua nascita, alcuni portieri della Superlega russa (tra cui Anton Shunin, suo erede alla Dinamo Mosca, e Mikhail Kerzhakov dello Zenit San Pietroburgo) l’hanno onorato uscendo dal tunnel degli spogliatoi proprio con il tipico newsboy cap addosso (corredato per Shunin dall’ipnotica divisa nera con la D bianca a campeggiare sul petto). Un vero peccato che nessuno abbia deciso di tenere il cappello in capo anche durante la partita.

Suggestivo.

Il copricapo di Yashin è talmente iconico da aver travalicato diversi confini: innanzitutto quello tra reale e digitale, visto che su Redditc’è una discussione in cui diversi utenti si lamentano perché su FIFA alcune versioni del portiere sono rappresentate a testa scoperta. Ma il rapporto tra Yashin e il cappello non si ferma al campo (virtuale): quello del russo è anche il nome di un marchio di cappelli alla pescatora attiva in Centroamerica. Alla richiesta di spiegazioni sul perché una piccola impresa portoricana abbia deciso di prendere il nome di un grandissimo portiere sovietico morto più di 20 anni prima per la sua linea di cappelli da spiaggia non abbiamo ricevuto risposta, ma insomma anche solo la notizia è indicativa di quanto il portiere russo sia passato alla storia – anche – per il suo cappello.

Il cappello di Yashin divenne anche il cappello di Robert Mensah, straordinario portiere Ghanese degli anni ’60. “Un grande uomo con grandi mani e un grande cuore […] non ci sarà più un altro ‘Yashin’ Mensah”: così raccontano le cronache locali nei giorni successivi al suo assassinio. Mensah si era guadagnato il soprannome di Yashin proprio per il berretto che portava in testa. Era talmente forte che gli avversari più volte avevano provato a strapparglielo dalla testa e gettarlo a terra: pensavano usasse il cappello come amuleto portafortuna, che attraverso lo juju (un insieme di riti e scaramanzie indistinguibile agli occhi occidentali) impedisse al pallone di entrare in porta. E Mensah si divertiva a innervosirli, ad esempio appoggiandosi al palo per leggere il giornale quando l’azione si sviluppava nell’altra metà del campo.

Ancora oggi, Robert Mensah è considerato uno dei più grandi portieri ghanesi della storia. A lui è intitolato lo stadio dei Mysterious Dwarfs, i Nani Misteriosi, la squadra con cui ha esordito nel campionato locale. Morì a 31 anni, in una lite fuori da un bar, e le sue esequie attirarono migliaia di gente comune e ragazzini che avevano marinato la scuola.

Resistenza

Negli anni il cappellino ha tagliato fuori dal campo il newsboy cap, ma ha anche tramortito la sparuta resistenza dei portieri con la visiera, quelli sì introvabili oggi (ma chi può dire cosa ci potrà riservare il futuro). Rimasto l’unico accessorio per proteggere i portieri dal sole, resiste imperterrito nell’armadietto di un portiere, pronto a essere tirato fuori in quelle due partite l’anno in cui un raggio di sole filtra nell’area di rigore, come se fosse nel tempio egizio di Abu Simbel.

Ed è quindi un bene averlo, per non fare la figura di Felix Wiedwald, portiere del Leeds, costretto nella sfida contro il Barnsley a chiedere in prestito un cappellino da sole a un tifoso allo stadio. Stesso bisogno capitato pure a Joe Hart ai tempi del West Ham, in una sfida di FA Cup contro lo Shrewsbury. Gli Hammers avevano un cappellino in dotazione, ma la settimana prima era stato preso in prestito da Aaron Cresswell, che aveva i capelli fuori posto – giuro. Hart si è trovato così a dover chiedere Jack, suo tifoso che per fortuna gli stava alle spalle. Per chi se lo stesse chiedendo: l’ha restituito.

Ma i cultori del cappellino esistono ancora, e sono tra noi. Italia, uno dei più affezionati è Samir Handanovic, che sceglie sempre quello con il biscione in fronte. «È morbido e comodo» dice, e questo è senz’altro importante. Un altro a usarlo in Serie A è Gollini, forse anche per la particolare esposizione al sole dello stadio dell’Atalanta nelle partite alle 15. Nella sfida contro la Lazio del 31 gennaio (il sole basso invernale è da sempre un ottimo alleato del berretto) si è presentato in campo con un cappellino in testa – ma qualche maligno suppone che il sole abbia comunque giocato la sua parte nel gol di Marusic su tiro da fuori con il piede debole. Una volta cambiato campo, però, Reina (peraltro autore di una grande prestazione in fase di impostazione, apparentemente vedendoci benissimo) non ha ricambiato la cortesia, restando tranquillamente a capo scoperto. Evidentemente, e forse ormai l’abbiamo imparato, il cappellino non è da tutti.

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