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Le storie che ricorderemo di Euro 2024
19 lug 2024
19 lug 2024
Per alcuni un torneo noioso, ma comunque ricco di spunti.
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IMAGO / SOPA Images
(foto) IMAGO / SOPA Images
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Vuole l’adagio che Euro 2024 - a parte forse semifinali e finale - sia stato uno dei più noiosi di sempre: opaco, narcotico, a tratti inguardabile. È una valutazione che non sorprende, in quanto inquinata dalle amnesie e/o da uno dei bias più classici studiati dalla psicologia sociale, quello della “prospettiva rosea”, secondo il quale il presente è sempre deludente e il passato spesso comparativamente migliore.

Dunque, Euro 2024 palloso: ma, di grazia, rispetto a quali altre edizioni? Per limitarci al Millennio in corso: forse rispetto a Portogallo 2004, dominato e vinto dalla Grecia di Otto Rehhagel (in finale contro il Paese ospitante) con un calcio mortificante, arcaico ma inesorabile, simile a una Vergine di Norimberga stretta sui corpi straziati delle altre squadre? O rispetto a Francia 2016, il cui “gioco medio” non è certo sfavillante - a parte poche, parziali eccezioni, come l’affilata Italia contiana - e che vede nel gran finale la “vendetta” lusitana a perfetto calco del 2004, cioè col Portogallo che batte a sua volta la Nazionale del Paese ospitante sotto la regia di “Buster Keaton” Fernando Santos, successore proprio di Rehhagel alla Grecia e a sua volta maestro della mortificazione e del martirio difensivo? O, ancora, rispetto a Euro 2020, dove le squadre più brillanti - la Germania, vedi il 4-1 al Portogallo; o la Spagna ridisegnata da Luis Enrique- non arrivano alla finale, e in cui l’Italia di Mancini trionfa - con pieno merito, sia chiaro, illuminata anche dal transito trascinante e toccante di Luca Vialli - più per resistenza titanica che per il gioco, convincente e seducente solo in certi match o in certe sequenze?

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Forse, le due sole edizioni superiori a Euro 2024 sono quelle di Austria-Svizzera 2008, con diverse squadre intriganti, tra cui la Russia di Guus Hiddink (la meravigliosa ”matrioska meccanica”, come la definì Luca Valdiserri) e la Spagna dell’anziano maieuta Luis Aragonés, antefatto di quella in stile-Barça (cioè in stile-Pep) degli anni a venire; e di Polonia-Ucraina 2012, in cui scintillano l’Italia dei “bresciani” (Prandelli, Pirlo e Balotelli) e del "Lucignolo" Cassano, e la stessa Spagna-Barça all’ultima lectio magistralis (lo 0-4 che ci appioppa in finale) di una parabola senza pari.

Del resto, com’è più o meno noto, gli Europei - come i Mondiali, con Qatar 2022 che fa storia a sé - scontano su tutto due condizionamenti basici: giocatori che arrivano sulle ginocchia, dopo stagioni interminabili e usuranti, in cui oggettivamente “si gioca troppo” (in Inghilterra più che altrove); e un lavoro sui principii e i movimenti, individuali e collettivi, fatalmente carente o approssimato, da “lavori in corso”, in un contesto che premia le squadre in cui siano possibili travasi massicci da un club dominante o Paesi con sistemi di gioco collaudati da lungo tempo, magari condivisi con i vari under e gli juniores (su tutti la Spagna, su cui si tornerà).

Da questo punto di vista, Euro 2024 non è stato migliore né peggiore di tanti altri: ha avuto le sue sacche fisiologiche di impallamento e narcosi, ben compendiate, ad esempio, proprio dall’Inghilterra (e dalla Francia) fino alle semifinali. Ma a un occhio non superficiale ha offerto anche tante storie e sottostorie intriganti, inediti risvolti politico-ideologici e psicosociali, varianti e dettagli tecnici e tattici tutt’altro che scontati.


Prima storia: il feuilleton di Kylian Mbappé

In tanti hanno avuto gioco facile - specie da destra - a sintetizzare l’Europeo di uno dei top player più attesi, Kylian Mbappé, come un torneo dall’incidenza tecnica inversamente proporzionale a quella politica: il girondino o il giacobino anti-Le Pen (per qualcuno addirittura “Le President”, anche per i suoi buoni rapporti diretti con Macron) avrebbe oscurato il fuoriclasse. Per quanto sbrigativa, la descrizione non è allucinata, ma vale forse la pena approfondire.

I "Bleus" hanno piantato il loro quartier generale a Paderborn, Nord Renania-Westfalia (per la precisione, nel circondario, a Bad Lippspringe). Conosciuta e apprezzata per il suo verde bucolico, che ne fa “la città delle duecento sorgenti”, Paderborn è quasi gemellata con la Francia, sia perché fondata da Carlo Magno sia perché il suo monumento-chiave, il duomo romanico-gotico, ha l’interno copiato da quello di Poiters, uno dei più belli di Francia. Non solo. Nel caso di Mbappé, c’è un richiamo ulteriore: il meraviglioso portale, detto “del Paradiso”, in cui, ai lati della Madonna col Bambino, si stagliano simmetriche le staue lignee dei Santi Liborio e Kilian (Kylian francesizzato, Chiliano). Il primo è il patrono della città, il secondo - che qui ci interessa - un vescovo-martire irlandese che finisce massacrato a colpi di spada per aver denunciato il matrimonio “incestuoso” tra il margravio Gosberto e Galiana, già moglie del “cognato” (con lei, pare, nel ruolo di committente).A posteriori, per il giocatore, un “battesimo”: una sorta di nemesi annunciata per aver “pisciato fuori dal vaso” con le sue pretese engagé.

In realtà, com'è noto, non erano pretese (il risultato delle urne è stato per molti versi sorprendente) e Kylian non è stato il solo a schierarsi. Con lui, ci sono stati Marcus Thuram (uno dei figli di Lilian, autore di un libro-manifesto come Il pensiero bianco), il terzino Jules Koundè e Dembélé. A contrappunto, "Grizou", insolitamente insofferente, forse presagendo tensioni nocive nel gruppo e nell’ambiente; e, più prevedibilmente, il doroteo Deschamps, ligio a depoliticizzare: «Alla fine, saremo giudicati per quello che faremo sul campo» (discorso che sembra echeggiare In fila per tre di Bennato). Non un‘uscita così felice, quella del CT, dato che questa Francia da Avaro di Molière - che arriva alla semifinale senza subire e segnare un vero gol su azione - verrà ricordata tra le più stitiche e micragnose, non solo nella sua (troppo?) lunga gestione.

Certo, non si possono fare paragoni con gesti e/o proteste del passato, remoto o recente: il pugno in alto, guantato a nero, dei velocisti del Black Power, Tommy Smith e John Carlos a Mexico ’68; o l’inginocchiamento dell’ex quarterback Colin Kaepernick durante l’inno di un match di football, nell’agosto 2016, sorto a emblema di Black Lives Matter. Eppure, quelle esternazioni (emesse in due tranches, la seconda prima del ballottaggio) sono comunque, nel contesto contemporaneo, un’eccezione: non ne risultano di simili, per dire, in ambito inglese (pro-Tory o Whig che sia), col Paese in procinto di votare negli stessi giorni della Francia. E sono comunque di peso non inferiore all’esultanza pro-LGBTQ di Goretzka contro i tifosi ungheresi a Inghilterra 2020, dopo che quelli avevano fischiato Neuer per aver indossato la fascia da capitano in cromie arcobaleno. In più, se Mbappé non è proprio un emblema di proletarismo ribelle (il padre camerunese Wilfried è stato dirigente calcistico; la madre algerina Fayza giocatrice di pallamano), è pur sempre cresciuto nella banlieu di Bondy, a tutt’oggi modello di integrazione, come ricorda, campeggiante su un palazzone della zona, proprio il murales di Kylian e del “bambino sognante”. In definitiva, il suo richiamo mirato a parole così poltically correct (“tolleranza”, “rispetto”, “accettazione della diversità”) si carica di una credibilità ad altri interdetta.

Ma come in un feuilleton di Dumas padre che si rispetti - e Euro 2024, per Mbappé, per molti aspetti lo è - le venature politiche si disperdono lungo la suspense della trama. Che per lui coincide alla fine, soprattutto col crash col difensore austriaco Kevin Danso, e con le relative conseguenze: frattura del setto nasale e ricorso obbligato a una maschera iconica quanto limitante, che immette il giocatore lungo una teoria di maschere nazionali: la “maschera di ferro” dei figli gemelli di Luigi XIII, nella parte più allucinata e geniale del Visconte di Bragellone (vedere il capolavoro di James Whale più dell’ordinario film con Di Caprio); quella di certe performance del ladro-gentiluomo Arséne Lupin; quella del Fantasma dell’opera di Gastone Leroux (che copre il volto da teschio sfigurato di Erik, contrappasso per la sua voce sublime); quella di Belfagor, il fantasma-killer del Louvre…

Saltata l’Olanda, Mbappé gioca mascherato per tre partite (Polonia, Belgio, Portogallo), inibito individualmente dalla protesi almeno quanto la squadra già non lo sia dalle strategie sottrattive e punitive di Deschamps. Se ne libera per la semifinale con la Spagna, e nei primi minuti sembra liberarsi, con la maschera, anche della maligna forza di gravità che l’ha compresso per tutto il torneo: la sua sagoma da gargoyle sembra finalmente staccarsi dalla pietra di Notre-Dame per andare ad addomesticare l’apertura di un compagno a sinistra, cavandone poi una palla carezzata a dosaggio molecolare per la testa di Kolo Muani, che impatta tra Laporte e Cucurella. Ma è un’accensione illusoria: fallito il possibile 2-2 a cinque minuti dalla fine (accelerazione degna della sua fama su palla filante di Barcola, dribbling su Vivian ma poi palla in curva), la gargoyle torna a congelarsi sulla facciata di Notre-Dame, in attesa di trasfigurarsi in altri sembianti per l’imminente esperienza madrilena.


Snodi e domande: calcio, politica e parabole dei fuoriclasse

Alla fine, il feuilleton di Mbappè è utile per avvicinare due aspetti di Euro 2024. Il primo è proprio quello di una nuova pervasività della politica. Che ha un versante leggero e uno più greve. Quello leggero è esemplificato, di nuovo, dalla Francia: alludiamo alle proteste vibranti della ONG tedesca ambientalista Bund contro il volo notturno (privato) dei "Bleus" da Düsseldorf a Paderborn (170 chilometri, una mezz’oretta) dopo il match col Belgio. Una violazione, a tutti gli effetti, del divieto in vigore in Germania sui voli notturni, di matrice “ecologica”. Poco importa che la stessa violazione sia attribuibile alla Nazionale tedesca, per il rientro al ritiro bavarese dopo la vittoria sulla Danimarca. Per la Francia, qui la morale (ludica) è semplice: chi di politically correct ferisce (così, per i più, i citati endorsement), deve esser disposto a perirne.

Il versante più greve riguarda invece l’estensione al calcio del diffuso rebound nazionalista: quella puntiforme fioritura di “democrazie illiberali” come forma di rigetto della globalizzazione e della “crisi dell’ordine occidentale”, di cui l’attacco russo all’Ucraina è solo il marker macroscopico. Anche nel calcio, cioè, tornano regressive intolleranze identitarie: vedi due sequenze tra loro diverse ma accostabili come quella dell’albanese Daku, che nell'immediato post-partita con la Croazia, ad Amburgo, impugna un megafono per aizzare i propri tifosi a cori contro serbi e macedoni (due turni di squalifica); e di Merih Demiral che, dopo la grande prova contro l’Austria (doppietta su palla inattiva), fa il saluto delle “dita a muso di lupo”, un simbolo che si lega alla cultura nazionale turca, ma di cui si è appropriato anche il sanguinario movimento destrorso-nazionalista e xenofobo cui apparteneva anche Ağca, l’attentatore di Wojtyla (anche per Demiral, due turni). In apparenza si tratta di casi isolati ma sono in realtà sintomi di una malattia culturale, prima che politica, da cui il calcio e lo sport tutto non possono astrarsi.

Il secondo aspetto linkato al feuilleton di Mbappé è quello dei diversi fuoriclasse attesi che hanno floppato. Il primo è proprio lui: infortuni e maschera a parte, Mbappé è sembrato proseguire, a Euro 2024, sulla falsariga della stagione al PSG, dove - col concorso di colpa o meno di Luis Enrique - ha disputato una stagione come sempre ineccepibile nei numeri- in Ligue 1 e in Europa - ma con passaggi a vuoto nelle fasi calde di Champions (vedi l'uscita col BVB, dove peraltro il PSG ha scontato oggettivamente una buona dose di sfortuna, o almeno anche quella). Nell’insieme, ci si domanda dove si sia smarrito il meraviglioso X-Man, l’uomo-levriero dalle effrazioni spazio-temporali alla velocità di Bolt, che tagliava il campo come l’All Blacks Jonah Lomu (quello di Francia-Argentina 4-3 a Russia 2018, per intenderci). Col possesso di Luis Enrique potrebbe essere più difficile ma con il calcio di ripartenza di Deschamps? Mbappé ha 25 anni, non 40, è nel pieno della maturità: molte risposte sulla sua evoluzione (o involuzione) arriveranno da Madrid, dove, secondo alcuni, potrà rifarsi degli anni sprecati nel deserto “non allenante” e psico-agonisticamente inerte della Ligue 1.

Risposte che si intrecceranno con quelle riguardanti l’altra delle delusioni principali, ovvero Jude Bellingham, su cui sarebbe ora di impostare un discorso severo se non spietato, da “il re è nudo”.

A livello di rendimento bruto, il suo Euro 2024- in un’Inghilterra non certo meno ipnotica della Francia di Deschamps - sembra infatti inattaccabile. I suoi due gol (quello iniziale, dirompemte, con la Serbia; e la rovesciata plastica nel finale degli ottavi quasi persi con la Slovacchia) e il suo illuminante assist a Palmer per l’1-1 in finale con la Spagna, riassumono come "i Tre Leoni" siano dipesi radicalmente da lui. Il punto, però, anche qui, è un altro.

Bellingham è un giocatore sfacciatamente “caro agli dei”, con doni atletico-tecnici e morfologico-estetici fuori dal comune: una grazia che arride a pochissimi, da Kakà a ZZ (tra i suoi parziali doppelgänger). A lungo, il suo brand inconfondibile - come versione 4 o 5.0 del tuttocampista box-to-box - è sembrato incarnare il famoso adagio di Mohammed Alì: «Vola come una farfalla, pungi come un’ape». In particolare, colpiva proprio una sorta di “effetto-farfalla” (quell’effetto, scoperto dal matematico Edward Lorenz, secondo cui “un battito d’ali di farfalla in Brasile può provocare un tornado in Texas”); cioè, fuor di metafora, giocate risolutive come certe uscite in serpentina, basse o medio-basse, tali da incanalare l’azione dei compagni, spesso o quasi sempre, al gol.

Quel Bellingham polivalente e ubiquo - che emerge al Birmingham e si affina al BVB - tocca l’acme prima in Nazionale al Mondiale in Qatar (vedi report dettagliato del FIFA Training Centre) e poi nel primo, mostruoso periodo al Real, dove - inquadrato da Ancelotti come primo sostituto di Benzema - implementa nelle sue qualità da centrocampista polivalente anche capacità realizzative per lui inedite e inaudite (il pungiglione d’ape), tanto da far evocare al decano della stampa madrilena, Alfredo Relaño, il più impegnativo dei paragoni, quello cioè con un altro, più illustre Alfredo, l’onnipresente Di Stefano. Invece - spartiacque forse il derby perso 2-4 ai supplementari negli ottavi di Copa del Rey, 18 gennaio, l’ultima partita in quella “versione”, con un assist felpato a Joselu come perfetto doppio di quello di Mbappè per Muani - Bellingham slitta via via verso una dimensione-CR7 (cioè l'ultimo CR7), più avanzato, più statico, molto meno associativo, ossessionato dal pungiglione (cioè dal gol) e dimentico della farfalla. Forse avranno inciso gli infortuni, tra cui uno alla clavicola ancora in attesa di operazione; di certo, ha inciso un suo progressivo rimbullimento, come mostrano l’aggressività moralistica su Greenwood e un generale, malcelato mix di insofferenza e vittimismo, su cui l’ha cazziato anche il “compagno” Carvajal in finale. Fatto sta che da quel momento, al Real, Bellingham si limita a qualche giocata isolata, solo di rado decisiva. Vedi i due assist all’amico Vini jr. in due partite giocate dal Real in modo dimesso (eufemismo, e ci sarebbe da aprire dibattito sull’aura da immunità parlamentare che protegge il pur bravissimo Ancelotti): l’ottavo interno col Lipsia, giocato sull’orlo della pañolada; e la finale col BVB (quasi un’ora di passività totale).

Anche qui, come per Mbappé e sovrapposto a Mbappé: rivedremo più il Jude tuttocampista e uomo-farfalla? Potremmo rivederlo, forse, proprio per un suo riarretramento, con Mbappé là davanti, nella convivenza-rebus coi brasiliani reduci da una malinconica, autodistruttiva Copa America (Rodrygo, Vinicius stesso, il giovane Endrick)?

Il tutto nella cornice di una domanda più estrema: quanto fattori plurimi (le citate stagioni usuranti, l’eccesso di aspettative mediatiche, ovviamente la gestione e l’autogestione dei giocatori) rischiano di bruciare, accorciare o deviare, oggi, le parabole di certi fuoriclasse?


Seconda storia: l’implosione-alienazione dell’Italia

Gli articoli usciti dopo Italia-Spagna (uno 0-1 emulsionato, com'è noto, dalle infinite prodezze di Donnarumma) e dopo l’uscita inerte, amorfa contro la Svizzera, sono andati a formare in pochi giorni biblioteche come quella di Babele o della Cittadella di Game of Thrones. Per spiegare debacle e flop è stato srotolato un set di cause, tutte legittime quanto singolarmente carenti e/sfocate. Tra quelle contingenti: preparazione atletica deficitaria e convocazioni in genere discutibili. Tra quelle strutturali: ritardi nella cultura dell’integrazione e italiani sacrificati agli stranieri in Serie A. In mezzo, tra contingenti e strutturali: l’esitazione nel “rischiare” i giovani talenti per “non bruciarli” (in primo luogo Camarda, ma anche - in un range che va dai nati 2003 al 2008 - i vari Baldanzi, Pafundi, Liberali).

Tra gli stereotipi attivati con riflesso pavloviano, colpisce quello del deficit atletico, su cui si è martellato a dispetto dei dati. Gli azzurri hanno infatti corso meno dell’avversario in due match, proprio quelli con la Spagna (differenziale minimo: 112,7 chilometri contro 113,1) e con la Svizzera (108,1 chilometri contro 119), dove però ha inciso - soprattutto da un certo punto in poi del match, cioè dopo il secondo gol elvetico - una resa agonistica ai limiti del crollo. Negli altri due, però, hanno corso di più: con l’Albania 116 contro 115; con la Croazia 123,4 contro 121. Il punto è che, come ripete spesso Pep, il dato della corsa, della distanza coperta, non va sottovalutato ma nemmeno assolutizzato: la Spagna - che le ha vinte tutte e sette - a volte ha prevalso (come con la Francia: 110,3 chilometri contro 107,3) ma spesso è stata sotto: sia con l’Inghilterra in finale, sia- soprattutto - con la Germania ai quarti (addirittura 145,9 chilometri contro 151,3, inclusivi ovviamente dei supplementari). A contare, dovrebbe essere acquisito, sono piuttosto la qualità della corsa e la sua relazione con lo spazio, i compagni e gli avversari (vedi il rapporto possesso-riaggressione): tutti aspetti su cui torneremo - insieme ai “tempi di reazione” giustamente enfatizzati da Spalletti, anche lui invece fuori strada con l’insistenza sulla “poca gamba” - nella terza storia, quella sul dominio della Spagna e sull’identità delle squadre.

Forse troppo poco, invece, si è parlato del versante psicologico-relazionale del crash. In diversi suoi pezzi, Emanuele Atturo, ha analizzato il gap generazionale tra il CT e la squadra, e la sua progressiva autocombustione, coincisa con l’implosione del team. Qui ci limitiamo ad aggiungere qualche tessera, più che altro per le implicazioni a livello di sistema-calcio.

Avvolto nella sua curiosa divisa d’ordinanza, per certi versi simile a un’anacronistica “giacca da camera” (Armani si é non a caso ispirato alla divisa “fascista” del 1928), Spalletti e il suo coetaneo Dominichini (due 65enni) a un certo punto sembravano Mastro Geppetto e Mastro Ciliegia, incapaci di comprendere le ragioni di Pinocchio, e ancora meno di Lucignolo. Dei maestri - per quanto sapienti, e Spalletti al Napoli è stato un grande allenatore di studio e d’avanguardia - connotati da un atteggiamento paternalistico e moralistico, drammaticamente offstage, in collisione/alterità rispetto ai loro discenti. Sintesi plastica; lo spot DOP-IGP, con un Spalletti (pur nell’ironia) come “controllore” gerarchico-didattico. Inutile girarci intorno: per quanto mosso da nobili intenzioni, il divieto alla PlayStation è sintesi concreta e simbolica di un fallimento pedagogico prima che tecnico-tattico. E questo per almeno un paio di buoni motivi. Da un lato, tonnellate di studi dimostrano come l’esercizio neuropsicologico alla Play “addestri” ovvero trasmetta o consolidi schemi cognitivi e cinestetici a ogni livello, dai piloti di volo ai calciatori stessi (Messi è solo il caso più eclatante). Dall’altro, è un divieto che ricorda per certi versi quello recente sull’uso degli smartphone nella scuola dell’obbligo (da Spalletti solo “limitati”).

Forse, l’unico divieto possibile sullo smartphone può essere quello alla guida, specie se sostenuto da consistenti sanzioni; per tutto il resto, siamo nella patafisica. Nel senso che siamo tutti addicted, con differenze soggettive di grado ma non di sostanza: si tratti di addiction biochimica o bio-informatica, da droghe, alcol, gioco, porno, hi-tech… Quello che Spalletti ha definito “cazzeggio”, lo si voglia o meno, è ormai parte costitutiva e costante - a volte esplicita, a volte latente - della nostra identità neuropsicologica. Davvero qualcuno crede possibile disattivare a comando parti di quell’identità, plasmata da una tessitura tecnica, economica e (psico)sociale così invadente?

È un mix di ipocrisia, velleità e goffaggine che si può vedere attivo a un altro livello. A un certo punto, nella partita con la Svizzera, la passività e l’inerzia dei nostri - che induce via via rabbia e pietas insieme, ma a ben guardare più pietas che rabbia - viene sintetizzata da un Donnarumma scorato fin quasi alla resa, forse alle lacrime: il suo labiale (alla grossa) si rivolge ai compagni con parole come: «E vabbè… ma allora torniamo a casa». Davanti a quell’impasse, non potendo ricorrere all’accusa di patriottismo/nazionalismo sabotato (tutti, dal CT agli oriundi, hanno cantato l’Inno di Mameli a squarciagola), in tanti hanno seguito vecchie strade fascio-demagogiche ancora più grevi, ben riassunte dal solito Briatore: invettive umilianti (per chi le urla) come “con quello che guadagnano…a calci in culo bisogna prenderli”, e via col repertorio di rancidumi retorici.

Zoomata nella zoomata: il volto di Nicolò Fagioli. Nella fattispecie, Spalletti ha fatto bene a convocarlo e a impiegarlo, in quanto non ha accompagnato il tutto con la parabola del “figliol prodigo”, adducendo invece ragioni puramente tecniche. Purtroppo, anche in questo caso, un nobile intento è naufragato. Infligge una stretta al cuore guardarlo proprio nella partita con la Svizzera: nei primi venti minuti, Fagioli - talento cristallino come pochi - si prodiga e crea gioco, anche alcuni filtranti degni del miglior Kevin De Bruyne, di quelli che il fiammingo, in questo Europeo, ha profuso con la sola Romania; poi, man mano che gli azzurri intorno a lui si svuotano di energia e reattività - spaesati cognitivamente, come già con la Spagna, da un’inferiorità posizionale e sui tempi di gioco - finisce con lo sparare in automatico mesti lanci nel vuoto, simile al soldato che mena ancora fendenti nell’aria a battaglia conclusa, i morti sparsi al suolo.

Del resto, il suo volto non può non evocare un altro ambito (quello della squalifica per scommesse) in cui la citata ipocrisia diffusa vira al peggio.

Il quadro è come minimo ambivalente. È stato ovviamente giusto, sacrosanto, squalificare lui e gli altri “rei” di scommesse illegali (Tonali, ma anche Ivan Toney). Ma, ancora una volta, è impossibile ignorare il contesto. Oramai, in molti ambiti, l’invasività hi-tech di cui abbiamo accennato produce un’ibridazione irreversibile tra reale e virtuale, a volte con effetti da fiction alla Philip Dick; e ancora una volta, lo sport e il calcio in particolare non fanno eccezione. La partita sul campo, l’evento “biologico”, è forse ancora il principale stimolo sensoriale per il tifoso e l’appassionato di calcio (le due figure non sempre coincidono, anzi). Ma lo è per lo più come volàno, come pre-testo; intorno al quale - o meglio attraverso quell’evento, in un piano di realtà, appunto, contaminato, ibridato - scorrono il calciomercato permanente h24, il fantacalcio, il calcio-play di FIFA-EA, e naturalmente il tourbillon di piattaforme statali e private di scomesse. Se questo è lo scenario, non deve sorprendere, ad esempio, che La Gazzetta dello Sport (l’online più del cartaceo) all’indomani dell’uscita dell’Italia con la Svizzera, abbia dovuto gregarizzare brutalmente un Europeo che non interessava più a nessuno o quasi, enfatizzando invece proprio i movimenti di mercato, specie di quello juventino; perché juventina, sembra, è l’utenza prevalente del giornale.

Se questo è il contesto - il quadro, non la cornice - è più facile capire, senza assolverli, come Fagioli, Tonali e molti altri - i tanti calciatori/scommettitori sommersi - siano “caduti in tentazione” o anche solo “andati in confusione”. E ci vadano tutt’ora.

Snodi e domande (2): calcio tra apatia...

È probabile, quasi certo, che l’Italia sia caduta in quell’apatia psicoagonstica - oltre che per le citate discrasie tra CT e squadra - per motivi soprattutto calcistici: per la soggezione a squadre come Spagna o Svizzera che (a gradi diversi) si sono rivelate a un livello di elaborazione molto più elevato del loro progetto - della loro “visione” - rispetto al nostro. La Nazionale azzurra poteva reggere sfide meno impegnative, come Albania e Croazia, in cui non ha patito forme di spaesamento cognitivo prima che tecnico. Ma il termine “apatia”, dall’ombrello semantico molto esteso, può sollecitare, anche nel calcio, focus proiettivi su altri aspetti in evoluzione, sul periodo breve o medio-lungo.

Nell’aprile dell’anno scorso, usciva su The Athletic un pezzo per certi versi spartiacque, rimosso (non a caso) molto, troppo in fretta, in cui si analizzavano motivazioni e modi con cui diversi calciatori, noti e meno noti, esternavano quasi con un senso di liberazione il “distacco” da quella che consideravano una semplice professione da svolgere nel modo più ligio ed efficiente, lasciando ad altri colleghi termini come “vocazione”, “trasporto”, “pathos”. Questo non vuol dire che fossero tutti, in automatico, agonisticamente inerti: basti citare, tra i più iconici, un Batistuta o un Gareth Bale. Ma alcune di queste uscite sono istruttive. Per esempio, il ricordo di David Batty sul suo errore fatale nei rigori di Inghilterra-Argentina, ottavi Mondiali ’98: «Negli spogliatoi l’unica cosa che aveva importanza, per me, era tornare a casa dai miei bambini». O la chiusa lapidaria di Bobby Zamora, erculea punta di origini caraibiche, attivo in mezza Premier di inizio secolo: «Alcuni giocatori ne sono ossessionati, ed è giusto così, ma forse non dovremmo essere troppo sorpresi quando qualcuno non ha la stessa passione». Sono prospettive o declinazioni del proprio “lavoro” che sembrano diffondersi maggiormente man mano che si sale dai boomer e dalla generazione X alle Y e Z, come ha rivelato Riyad Mahrez in un’intervista a Canal Plus dello stesso periodo del pezzo di The Athletic, riferendosi ad anonimi compagni del City che «non guardano partite di altre squadre», e nemmeno «si informano dei risultati».

Questo paesaggio controintuitivo su evoluzione-inclinazione degli “attori” registra del resto variazioni speculari nella platea degli “spettatori”, su cui fa luce un lungo, approfondito articolo-inchiesta di Arianna Ravelli sul Corriere della Sera (sempre 2023), che peraltro abbraccia, oltre al calcio, diverse altre discipline (tennis, basket, Formula 1, football americano). I dati più impressionanti, almeno d’impatto, sono quelli sulla progressiva secessione: secondo uno studio ECA (Associazione Europea per il Calcio) esteso a sette Paesi (Italia esclusa), il 27% dei millennial intervistati (età tra i 24 e i 39) non prova “nessun interesse” per il calcio, e il 13% addirittura lo “odia”. Più sfumati- ma non per questo meno rilevanti - i dati su come lo “consuma” chi lo segue: il 32 % dei fruitori tra i 13 e i 24 anni guarda solo big match e spesso per un singolo top player; e oltre metà di tutti gli intervistati non lo guarda “per tifare”, ma “per divertirsi” o “socializzare”, quasi sempre con due schermi aperti, quello del match e quello dello smartphone, su cui commentare e cercare statistiche “in tempo reale” (abitudine, questa, che ormai abbiamo quasi tutti).

Chi ha analizzato meglio di chiunque altro una simile “mutazione” è stato il CEO del Liverpool, Peter Moore, in una lunga intervista al El Paìs. Fuoco delle considerazioni, la necessità per l’ambiente-calcio di collaborare coi competitor, di rendere virtuosa la commistione tra biologia e informatica che abbiamo descritto sopra: cioè, in concreto, creare ponti tra le due dimensioni come le nuove riprese - inquadrature dei match, in grado di moltiplicare i “punti di vista” a 360 gradi imitando proprio FIFA-EA, in una sorta di retro-feedback. Cercare un’alleanza con la virtualità piuttosto che contrastarla, e infatti secondo Moore l’unica strategia realistica (può sembrare un ossimoro), anche perché molti teenager vengono a conoscere i calciatori “biologici” proprio attraverso i giochi; e nel caso del basket (vedi NBA2K) persino quelli del passato. È presto per lanciarsi in prognosi, su un terreno in cui, come sempre, si scontrano e si scontreranno tecno-apocalittici e tecno-entusiasti. Intanto, però, il calcio è ancora pervaso di pathos e Euro 2024 ne è una controprova eclatante.

…e pathos

Sono decine le icone affettivo-emotive del torneo, in diverse declinazioni per tipologie e intensità.

Espressive ed estreme, nell’estasi e nel down, da ricordare come certe teste scolpite dal folle artista Messerchmidt, originario della Foresta Nera come (quasi) tutti i grandi allenatori tedeschi: tra i più memorabili, il volto metamorfico, quasi “ebefrenico” di Xavi Simmons, che transita dal patema cosmico, con tratti di disperazione supplice (l’attesa che il VAR sentenzi dopo il suo gol con la Polonia) al turgore statuario con cui officia il gol (buono) con l’Inghilterra; e naturalmente il viso esplosivo-implosivo di CR7 dopo il rigore parato da Oblak, un oceano di lacrime isteriche trattenute e poi trascorrenti, vai a sapere quanto per ferita all’orgoglio patrio e quanto al propio ego senza confini (impossibile discernere), a configurare una delle icone più grottesche, in senso etimologico, della storia del calcio.

Ci sono tante immagini-simbolo del dolore, della delusione, dello scacco. Tra le tante, quelle di Julian Nagelsmann, coach-cibernetico in overboard, ossessivo come pochi, che però ha sempre perimetrato l’incidenza della tattica a “non oltre il 30%” della performance, relegando il rimanente 70 alla gestione psicosciale, emozionale del gruppo. E questo forse perché ha solo 37 anni, ma allena già da 15- viene da una parabola spietata, segnata dal suicidio del padre Erwin (quando Julian è ventenne), un agente dei servizi segreti il cui messaggio di congedo da questa Terra non lascia dubbi sulla ferrea volontà del gesto. Come sorprendersi che dietro la scorza nietzschiana da inscalfibile “volontà di potenza” si celi un giovane uomo empatico e ricettivo? Come sorprendersi, cioè, della sua conferenza (dopo i quarti di finale con la Spagna) retta sino all’ultimo con disciplina e rigore, pur sull’orlo costante del magone? E soprattuto dell’abbraccio protettivo (calco di un altro abbraccio identico dopo una delusione col Bayern) a un abbattuto, affranto Musiala? Lì, a dirla tutta, sembra quasi un transfert: Musiala ha più o meno l’età di Julian al tempo in cui perse suo padre, e Julian sembra voler essere per Musiala un giovane padre adottivo…

Ci sono - varianti della categoria precedente - vere e proprie sequenze di lutto: impossibile non pensare ai giocatori dell’Inghilterra che crollano sull’erba dell’Olympiastadion o impietriscono. Mentre la Spagna lascia scorrere i suoi abbracci ovunque, in un’estasi disseminata (persino De La Fuente, col suo testone quasi a crasi fisiognomica tra Sacchi e gli occhietti febbrili e felici di Messi) colpisce il down di due presenze, tra le più attese e/o carismatiche. Una, in panchina, ha il volto di Phil Foden: un volto senza tempo, o da tempo di Meazza e Sindelar, che qui si declina in quello malinconico-dark di uno dei ragazzi-prodigio della timburtoniana scuola di Miss Peregrine. L’altra, va da sé, è il capitano Harry Kane, che dopo il crollo composto, quasi statuario (il capo chino, i due palmi a coprire il volto) riesce a presentarsi ai microfoni, col suo palmarés eternamente vuoto come lo è l’inferno secondo certi teologi: e lì - lui che poche ore prima aveva motivato l’approdo a una nuova finale con la «resilienza» dei "Tre Leoni" dopo la sconfitta interna con l’Italia a Euro 2020 - esterna la ferita di una caduta «extremely painful», segnata da un dolore «che durerà per molto tempo» (stessa espressione usata da Sinner dopo la sconfitta con Alcaraz agli US Open 2022); e lo fa da guerriero stanco, disilluso ma non ancora arreso. Ammirevole e struggente.

Ma ci sono anche - all’opposto di un diagramma da montagne russe - immagini e sequenze di euforia-entusiamo. Tra queste, l’intera avventura georgiana, con le feste di massa nelle piazze - Tbilisi in testa - dal momento della qualificazione al rientro post-torneo, il “popolo” sciamante punteggiato dalle magliette di K’varatskhelia. Per certi versi, l’avventura georgiana ha portato nell’Europeo un’effrazione di alterità antropologica simile a quella islandese nel 2016; un’alterità, s’intende, non folkloristico-macchiettistica, ma un vero arricchimento etno-culturale. Anche sui georgiani “calciatori-danzatori” sono stati scritti comparti di biblioteche (come qui su Ultimo Uomo il pezzo di Daniele Manusia): ma non potrebbe essere diversamente, se da lì viene - innesco di una “scuola” che avrebbe prodotto decine di grandi ballerine e ballerini - uno dei padri fondatori del transito dalla danza classica a quella moderna, il leggendario George (Giorgi) Balanchine, attivo tra il balletto stesso, il musical e il circo: tutte dimensioni ben presenti nell’effrazione calcistica georgiana, in cui il “minimo rigore” imbastito dal veterano Willy Sagnol veniva costantemente franto dalla vocazione anarco-artistica dei suoi giocatori. La sintesi è la doppia interazione iberica: il capolavoro del loro torneo (il 2-0 al Portogallo) e l’1-4 con l’inavvicinabile Spagna, in cui comunque non perdono mai la loro propensione alla giocata-break e persino all’abnorme (un tentato gol “alla Maradona” di K’vara, ve lo ricorderete).

Acme del pathos: le parabole di Lamine Yamal e Nico Williams

Probabilmente, però, la sintesi - facile ma inevitabile - del pathos di Euro 2024 è l’irruzione dei due meravigliosi gemini sulle ali della "Roja"; il bambino (mancino) Yamal a destra, il suo doppio Nico Williams junior (ambidestro) a sinistra. Dioscuri, oltretutto, accomunati in partenza da omologie anatomo-morfologiche (Lamine 183 centimetri per 66 chili; Nico 181 centimetri per 68 chili) e presto, chissà, dalla casacca blaugrana.

Di Yamal s’è detto tutto alla nausea: il paese nativo (Esplugues de Llobregat) a pochi chilometri dal Camp Nou; i genitori africani, tra Maghreb e sub Sahara (Mounir Nasraoui, marocchino; Shella Ebana, equatoguineiana), poi separati; l’approdo precoce alla Masia; la passione divorante per l’animazione giapponese (Gintama). E giustamente, hanno girato le bellissime foto dell'iniziativa UNICEF del 2007 in cui Yamal bebé viene tenuto a battesimo da un Messi ventenne lungochiomato: immagini oggettivamente da fiaba o racconto epico, a immortalare una sorta di predestinazione.

Merita forse un rapido focus, a integrazione, il momento della “vendetta” contro Rabiot, reo di aver provocato il ragazzo il giorno prima di Spagna-Francia, complici anche i media che hanno decontestualizzato le sue parole facendole apparire più aggressive di quanto in realtà non fossero: «Se Lamine vuol giocare la finale, dovrà fare molte più cose di quelle che ha fatto finora». Parole che echeggiano quelle di Nagelsmann qualche giorno addietro, prima di Spagna-Germania: «La mia attenzione è meno su Yamal e più su Jamal [Musiala]… Vedremo come reagirà quando le cose si faranno difficili». Con la Germania, Yamal servirà l’assist geniale a Dani Olmo per l’1-0; con la Francia, segnerà il gol - già leggendario- dell’1-1, invertendo l’inerzia negativa di una partita che la Francia sta vampirizzando. Il tratto interessante è il suo atteggiamento verso Rabiot e la Francia stesssa, in due fasi. Prima, un silenzio totale, vergato solo da una sibillina sentenza su Instagram: “Move in silence, only speak when it’s time to say checkmate” (“Muoviti in silenzio, parla solo quando è il momento di dire scacco matto). Dopo, a semifinale superata - e facendo pesare il suo contributo - Lamine erompe in un allegro, irridente «Habla, habla, habla» sparato alla telecamera (testo integrale, rivolto a Rabiot : «Io in finale, tu parla, parla, parla…»).

La parabola di Nico Williams e della sua famiglia, invece, è nello stesso tempo tragica e comune; nel senso che è una parabola esemplare, quasi archetipica, rispetto a quelle di milioni di migranti subsahaiani: con un happy ending, però, che non arride a molte migliaia di quei milioni.

I genitori (il padre Felix e la madre Maria, al tempo già gravida del fratello maggiore di otto anni di Nico, Iñaki) lasciano il Ghana nel ’94, attraversando Burkina Faso, Mali e Algeria in condizioni drammatiche: temperatura tra 40 e 50°, molti “compagni di viaggio” seppelliti in itinere. Arrivati in Marocco, rischiano l’arresto come clandestini; riusciranno a evitare l’espulsione spacciandosi per sfollati della guerra civile liberiana, ottenendo così l’asilo politico e il successivo “stallo” nell’enclave di Melilla, la Rusadir romana, una sorta di porto franco (leggi parcheggio, con tanto di muro in stile “confine Messico-USA”) per migranti verso la Spagna. Lì, la svolta: un prete cattolico di Bilbao, Iñaki Bardones (la carnagione lattea e grandi occhiali) li incrocia alla stazione, con Maria al settimo mese di gravidanza: grazie anche all’aiuto di un legale, riuscirà a sistemarli prima a Bilbao (città nativa di Iñaki), poi in uno dei rioni popolari di Pamplona (città nativa di Nico). È quasi pletorico precisare come il nome del primogenito sia un omaggio a padre Bardones, che infatti battezzerà il bambino. Da quel momento, pur in una situazione ancora instabile, le tappe saranno più ordinarie: i genitori che mantengono la famiglia con lavori d’occasione; il padre per un periodo a Londra, già nel calcio, ma come addetto ai tornelli di Stamford Bridge; infine l’apprendistato dei fratelli (molto uniti ancora oggi) tra Navarra e Paesi Baschi, fino al professionismo (con Nico debitore a mentori come David Gordo e Gaizka Garitano quanto Lamine lo è a Xavi Hernández) e al ricongiungersi di tutta la famiglia.

Due sketch di rilievo. Il primo è il ricordo, evocato di recente proprio da Nico, di una vacanza di famiglia a Dubai, con tanto di escursione nel deserto, durante la quale Maria si sente male, associando a quel posto la traumatica esperienza da campo di concentramento del Sahara (Felix, per inciso, fatica ancora oggi a camminare per i postumi delle gravi ustioni alle piante dei piedi). Il secondo, è un dettaglio poco conosciuto, da Sliding Doors: al momento della partenza, in Ghana, e per tutto il viaggio, Felix e Maria hanno in testa, come destinazione finale, l’Inghilterra. Siamo, ovviamente, nei mondi paralleli: ma se avessero tenuto fede a quel proposito, forse la finale di Euro 2024 avrebbe preso un altro corso; e Nico Williams avrebbe festeggiato abbracciato a un raggiante Harry Kane.

Terza storia: il dominio della Spagna

Una desintegratión aterradora”: per una volta l’enfasi di Marca - quando si mettono, non inferiore alla nostra, anzi - suona aderente a quanto visto sull’avveniristico prato retrattile dell’Auf Schalke Arena di Gelsenkirchen, la sera del 20 giugno, in occasione di Italia-Spagna. Di più. Se non risonasse carica di echi kitsch, quasi osceni, sarebbe facile trovare la miglior metafora per rendere il senso di chiusura-claustrazione (di soffocamento panico) provato dagli azzurri quella sera: basterebbe sostenere che il tunnel d’ingresso dell’Auf Schalke- dal 2014 mimetico della roccia delle antiche miniere su cui è sorto lo stadio - è proseguito per noi fino al campo, impedendoci, per 90 minuti e oltre, ogni fenditura di luce. Gli echi kitsch e osceni - a parte quelli intrinseci nell’iniziativa stessa, con quell’artificiale “effetto roccia” - sono ovvii: nelle miniere sottostanti all’Arena molti nostri connazionali ci hanno lavorato davvero; e in generale, il contesto minerario evoca per noi tragedie come quella del 1956 a Marcinelle, in Belgio (262 morti, 136 dei quali italiani).

Resta però quel senso di soffocamento panico, di impotenza dinamica e tecnico-tattica, con la Spagna “incubo” e l’Italia succube come non era mai successo prima a un Europeo: non nelle semifinali del 2021, quando siamo passati ai rigori dopo 120’ di ossimorica passività attiva, dominati ma non umiliati; e nemmeno nella citata finale di Kiev 2012, massacrati 0-4 ma con diverse attenuanti di peso, tra cui la stanchezza e il poco recupero, il fatto stesso di essere approdati a una finale e l’aver davanti, di fatto, il Barça quantistico di Pep (che anche senza Messi non era male). E questo a tacere dell’intermezzo del 2016, quando l’Italia contiana aveva al contrario braccato e sfiatato quella stessa Spagna ai titoli di coda.

Come si produca, quella sera, una simile soggezione-impotenza, l’ha spiegato Fabio Barcellona. Pur presentando una versione del suo gioco posizionale più basica di altre, almeno in apparenza (vedi le sovrapposizioni di fascia “canoniche”, Carvajal-Lamine e Cucurella-Nico), la Roja attua infatti alla perfezione le due fasi di quel canone: il “dominio del possesso” e, a palla persa, “una transizione offensiva basata su una riaggressione feroce e efficientissima”. Nel possesso-fraseggio, in particolare, la squadra dispone ancora una volta di tanti calciatori (pressochè tutti, portiere incluso) in grado di rendere illeggibili-indecifrabili le loro giocate individuali e collettive: e questo attraverso “una serie interminabile di controlli orientati, micro-conduzioni per muovere gli avversari, passaggi precisi dalla forza corretta”, che tramuta “i vantaggi numerici in costante superiorità posizionale”.

Qualche aggiunta e qualche chiosa. Le due fasi - anche qui, secondo il canone, pur incessantemente variato e reinterpretato - sono eseguite a una tale prossimità da essere indistinguibili e compenetrate, trama e ordito di un tessuto: il possesso fatto con una rete posizionale corretta predispone intrinsecamente alla riconquista della palla, nel caso la si perda; e la stessa predisposizione intrinseca (a una ripartenza o a un fraseggio pericolosi, più o meno essenziali, più o meno elaborati o creativi) connota a rovescio una riaggressione-riconquista nei tempi e modi corretti. In più, in tutto questo- cioè in tutte e due le fasi- contano, oltre alla posizione, l’adeguata declinazione posturale, decisiva sia nel passaggio e nella ricezione della palla, sia nel predisporsi a un intercetto e/o a una marcatura. Con minuscoli dettagli: i passaggi, quando possibile, vengono fatti sul piede forte del compagno (magari col proprio piede forte), per favorire il controllo orientato o un semplice stop.

La sintesi di questo “sistema” è un giocare insieme “strutturato e aperto”, altamente organizzato e altamente plastico: l’avversario - in questo caso l’Italia - fatica a leggere le giocate individuali e collettive perché i giocatori della "Roja" le nascondono, talvolta le “sospendono”, accelerando o rallentando (così come i giocatori si avvicinano o si sgranano) contestualmente, pronti a modulare e aggiustare le dinamiche secondo il (i) feedback dell’avversario stesso (se sta alto o basso, se pressa e come, eccetera).

Ora, per giustificare la soggezione azzurra davanti a quel sistema, Spalletti a fine partita dà spiegazioni solo in parte centrate e soddisfacenti. Riconduce le nostre “letture ritardate” (i nostri “problemi nella velocità delle scelte”) a un differenza di “freschezza” ovvero di condizione atletica, forse di brillantezza neuromuscolare, arrivando a una sua puntuale sintesi: «Se non hai la stessa gamba degli altri non puoi fare scelte con la stessa velocità. Se sei compassato di fronte a un avversario di qualità come loro poi perdi qualsiasi possibilità di reazione. Al di là delle qualità tecniche di Williams e Yamal, sopra la media, in generale sono differenti i tempi di reazione» (il corsivo serve a memorizzare un concetto-chiave su cui si tornerà tra poco). Nell’insieme, il discorso regge: una migliore condizione aletica e una maggiore brillantezza neuromuscolare avrebbero senz’altro potuto contrastare meglio il sistema-Spagna. Ma dato che la Spagna ha battuto chiunque (squadre di possesso e aggressione-riaggressione come la Germania; squadre di fisicità e ripartenza come la Francia), forse il quid sta anche altrove. In primo luogo, nel fatto che in quel sistema risulta difficile, se non impossibile, scorporare e isolare le componenti tattiche (posizionali), tecniche (il modo con cui si conduce o passa la palla) e psicoagonistiche (il coraggio e la fiducia, l’autostima in se stessi e nei compagni che quel sistema induce). Lo riassume bene, in quella sera, un dato sempre sintomatico: quello dei dribbling tentati e riusciti: Italia 2/5 (40%); Spagna 13/29 (45%). Lasciamo stare le percentuali, in questo caso fuorvianti, e concentriamoci sui dribbling tentati, la vera discriminante “cognitiva” prima che tecnica. Ricordando, inoltre, come in un sistema posizionale anche un dribbling sbagliato in certe zone del campo e coi compagni disposti correttamente, possa tradursi in una riconquista vantaggiosa. Un dato in coerenza, peraltro, con quello degli attacchi tentati (60 a 29).

E le sue origini

Forse può essere utile, per penetrare a fondo nelle differenze filosofico-cognitive del sistema-Spagna rispetto ad altri (ripetiamo: prima che atletiche, tecniche, tattiche) un breve flashback che ci porti a a mezzo secolo fa.

Siamo verso la la metà degli anni Settanta (per la precisione nel 1974), ovviamente a Barcellona. Allenatore della prima squadra è il “generale” olandese Rinus Michels, inventore del totaal voetbal, cioè il calcio totale, nel primo grande Ajax. Preceduto, a Barcellona, dall’operato seminale dell’inglese Vic Buckingham - a sua volta già allenatore dell'Ajax e in quella veste nientemeno che scopritore e mentore dello stesso Cruijff - Michels è arrivato nel 1971 insieme al giocatore-icona, impiantando in Catalogna i principi-chiave del totaal voetbal e in larga parte del “gioco posizionale”, che ne è consustanziale. Fin qui, tutto più o meno noto. Meno noto, invece, è che in quell’anno - dopo un apprendistato come allenatore al Racing Santander e al Langreo - approda al Barça, come “coordinatore generale delle giovanili”, il cantabrico Laureano Ruiz, oggi un brillante savant 86enne.

Per conoscere l’impatto decisivo di Ruiz sulla storia del Barça, e della "Roja", c’è un libretto dimenticato di Marti Perarnau, l’ex atleta e giornalista sportivo amico intimo di Guardiola, noto proprio per i libri decisivi su Pep e per una titanica storia del calcio nel primo Novecento.

Il libretto (Senda de campeones, “Il cammino dei campioni”) risale nel suo report proprio al 1974, quando Ruiz, installandosi a Barcellona, introduce di fatto molti dei principi e delle pratiche che andranno a costituire cinque anni dopo - unitamente a quelli del totaal voetbal e del gioco posizionale di Michels e Cruijff - il cardine metodologico-didattico della Masia, la struttura formativa della cantera Barça, a lungo emblematizzata dal fiabesco edificio-base del 1702.

Invenzione-brand della pedagogia di Ruiz sono i cosiddetti rondo, i torelli di palleggio-intercettazione che ancora contraddistinguono - al Camp Nou come in ogni stadio d’Europa che ospiti i blaugrana - il caratteristico riscaldamento del Barça. Nel rondo, ovvero “il torello secondo Ruiz”, ogni tratto può aiutare a capire ogni Barça a venire e ogni "Roja", compresa qualla attuale: l’addestramento generale alla tecnica, il controllo-passaggio a uno-due tocchi, la stessa correttezza posturale per ricezione e passaggio. Ma colpiscono soprattutto due snodi. Il primo è l’enfasi posta da Ruiz stesso proprio sui “tempi di reazione” citati da Spalletti: sul fatto che il giocatore e la squadra debbano costruire la tecnica anche in funzione di una sorta di “inafferrabilità” del possesso-fraseggio (più tardi, con Pep- come ricorderà Xavi- questo approccio si tradurrà addirittura in un giocare sul pressing altrui, attraendolo per aggirarlo e disarticolare l’avversario). Il secondo snodo - deduttivo - è che in quei rondo non si dà distinzione, separazione, tra palleggio e intercetto; il che, naturalmente, è altamente allenante proprio sulla prossimità delle due fasi.

Ma c’è di più. Ponendo come asse cardinale della sua pedagogia “l’intelligenza nell’interpretazione delle situazioni” - l’antefatto, cioè, della disposizione ad auscultare il feedback dell’avversario ed a adattarvisi - Ruiz propone una serie di metafore molto intriganti ed esplicative. Una è quella che paragona, nel bambino, l’apprendimento della tecnica calcistica a quello della parola o meglio del linguaggio: come c’è un’acquisizione progressiva della coordinazione fonetica, così ci dovrà essere - sostiene Ruiz- un’acquisizione progressiva della coordinazione motoria; nella fattispecie, di una relazione corpo-piede-palla in cui il corpo non conta meno del piede, anzi (vedi la postura). Un’altra metafora è quella - in generale usurata, ma che qui si affaccia con una purezza immacolata e inedita - della rete di passaggi come ragnatela, già qui intesa come possesso che prevenga la ripartenza avversaria, o almeno la incanali lungo traiettorie le meno pericolose possibile. In effetti, a ben guardare, la ragnatela- in quanto secrezione serica a un tempo molto robusta ed estremamente elastica- è un’analogia perfetta per il sistema “strutturato e aperto” della Roja. E volendo, c’è una metafora nella metafora: i ragni, com'è noto, sono quasi ciechi, e decifrano gli “eventi” della tela (la presenza di prede o compagni) dalle vibrazioni della stessa; senza arrivare a tanto, è però indubbio che nella compenetrazione tra gioco posizionale e tecnica appresa dai rondo una squadra arrivi quasi a “sentirsi” prima che a vedersi, automatizzando una sorta di intelligenza collettiva implicita, inconscia, più profonda di quella deliberata, e anche più protettiva, perché inscrive nella dimensione implicita (inconscia) anche la sicurezza e l’autostima, la predisposizione ad affrontare l’unfamiliar.

C’è però un’ultima sfocatura, in questa storia. L’accoppiata Michels-Cruijff e la pedagogia canterana di Laureano Ruiz hanno rivoluzionato il Barça, non la "Roja". Perché quest’ultima cominci a vincere e a diventare dominante (prima c’è solo la vittoria interna del 1964, torneo formattato dal franchismo) bisogna aspettare che il seme produca i suoi frutti in Catalogna e poi cominci a travasarli in Nazionale: solo allora- cioè di fatto col Barça di Pep - la Spagna fa il filotto Euro 2008- Mondiale 2010- Euro 2012, in panchina prima Aragonés e poi Del Bosque. Sembrerebbe, in definitiva, l’ennesima conferma del pattern consolidato sulla tipologia di Nazionale vincente (o dominante) in quanto espressione del club egemone in quel Paese in una data fase, anche per fioritura di più talenti generazionali: l’Ajax/Olanda, la Dinamo Kiev/URSS, la Juve/Italia e così via. La Spagna che ha appena vinto e dominato “con un gioco da club”, invece, è squadra composita.

Stando all’undici titolare della finale, ha un solo giocatore del Barça (Yamal) e uno solo del Real Madrid (Carvajal), cioè dei club in teoria dominanti in Liga: mentre ne ha due del Bilbao (Unai Simon e Nico Williams), uno della Real Sociedad (Le Normand) e uno dell’Atletico Madrid (Morata), cui si aggiungono gli “stranieri” Rodri e Laporte (City), Cucurella (Chelsea), Fabian Ruiz (PSG) e Dani Olmo (Lipsia); e lo stesso sfrangiamento, alla grossa, vale per il resto del roster. Come si è potuto vincere e giocare così bene, quindi, con questo vestito d’Arlecchino? La risposta immediata è co-fattoriale: alcuni di quei giocatori conoscono gioco posizionale e rondo meglio di chiunque (Rodri e Laporte al City di Pep); altri sono allenati da chi dal Barça è passato (il Bilbao della “formichina” Valverde); e in generale, molti di quei giocatori sono conosciuti a memoria dal CT De La Fuente, che li ha allenati nelle Under.

Ma forse si può abbozzare una riposta più profonda, ancora una volta distesa lungo la memoria storica. In Spagna, la filosofia del possesso e i princìpi relativi (e poi del possesso-pressing), non è stata un’esclusiva del Barça. L’hanno teorizzata e praticata altri coach, autoctoni e stranieri, in periodi e luoghi diversi: Frederick Pentland e lo stesso Aragonés a Madrid sponda Atletico; Javier Irureta a La Coruna; Bielsa (almeno in parte) a Bilbao; e va aggiunto che il gioco “metastorico” del Real - l’associarsi naturale dei grandi giocatori, anche se i suoi roster sono pieni di stranieri - li predispone comunque al possesso. Nella parabola del calcio spagnolo, il Barça “olandese” ha fatto da attrattore-catalizzatore di una predisposizione antropologico-culturale latente, laddove una predisposizione simile in altri Paesi non ha goduto di quell’attrattore-catalizzatore (Portogallo), o, al contrario, un possibile attrattore-catalizzatore non ha avuto l’appoggio di quella predisposizione (il sacchismo in Italia). Tant’è che in Spagna, nell’ultimo mezzo secolo il modello-Barça ha diffuso per contagio diverse filosofie e visioni simili; e nelle ultime generazioni, va da sé, l’incidenza di Pep è stata pervasiva. Non è certo un caso che oggi, ad esempio, coach come Michel del Girona o tanti nella nutrita “officina” basca, e in parte cantabrica o asturiana pratichino un possesso-pressing seducente e efficace: su tutti, la Real Sociedad di Alguacil.

Snodi e domande (3): il DNA di una squadra

È un paesaggio che sembra scoraggiare una volta per tutte il ricorso alla metafora porosa (e scientificamente scorretta) del DNA per connotare l’identità di una squadra, si tratti di club o Nazionale. Anche se non è certo questa l’occasione per affrontare un tema così controverso: per impostare la discussione si rimanda, semmai, al libro agile e divertente di Bruno Barba (Ma quale DNA?, Battaglia editore, 2023).

Ci si limiterà ad alcune constatazioni basiche, premettendo che l’identità - coerente nel tempo - di una squadra può essere intesa in senso “politico” (magari in contrapposizione a un’altra, nella stessa città o altrove) come tecnico-tattico, o magari in ibridazione tra i due sensi. Di norma, però, la discriminante è proprio la filosofia di gioco (che qualche volta degenera in ideologia), anche come sintesi tra gli altri livelli identitari. E qui bastano pochi esempi a livello di club per mescolare le carte. Tornando alla Spagna e all’Atletico: di quale “DNA” parliamo se ai citati Pentland e Aragonés, fautori del possesso e dell’eleganza, si sono alternati su quella panchina il machista Zamora (che ritiene il calcio di Pentland “effeminato” e ne predica uno basato - letterale - sui “cojones”) o il ruvido, temperamental-pragmatico Diego Simeone, col suo “calcio totale difensivo” (salvo qualche recente correzione)? E se ci spostiamo all’Italia e al Milan, a quale “DNA” rossonero ci riferiamo: al “catenaccio” di Rocco, alla radicale rivoluzione sacchiana o al pragmatismo sincretistico di Capello?

Certo, i contesti culturali o le stesse tifoserie possono condizionare i board delle società fino a pretendere una coerenza (un brand) che si avvicini pericolosamente all’idea di “eredità” e quindi di DNA: non vedremo mai un calcio di difesa-contropiede al Barça o all’Arsenal, e difficilmente ne vedremo uno iperoffensivo e/o sperimentale all’Inter o alla Juve, dove quella concezione è sempre stata rigettata come l’organo di un trapianto infelice. Eppure, niente è eterno: il gioco sottilmente innovativo di Inzaghi (in quanto vincente, s’intende) sta seducendo, quasi turbando, l’ambiente interista; e la sfida di Thiago Motta alla Juve, potrebbe, chissà, esercitare una rottura storica…

Nemmeno servono a dirimere la matassa, del resto, le tautologie democristiane secondo cui ormai le progressive contaminazioni tra filosofie, sistemi e principii avrebbero confuso i confini al punto da dissolvere identità tattiche connotate. Ovvio, le contaminazioni-ibridazioni sono costitutive e fanno evolvere il gioco. Però, no: il calcio - come la politica - non è la notte di Schelling secondo Hegel, in cui “tutte le vacche sono nere”: ci sono mille modi di usare il possesso, il pressing o la costruzione bassa: offensivi o conservativi, spettacolari o castranti. Ed è proprio quello che ci ha ricordato la radiosa, a tratti orgasmica Spagna di De La Fuente coi suoi meravigliosi gemini. Se qualcuno, tra qualche anno o decennio, la rimpiangerà con emozione e nostalgia, travolto dal bias della “prospettiva rosea” (pardon: roja); beh, per una volta, non si tratterà di un bias.

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