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La strada più lunga porta più in alto
03 apr 2018
La vittoria di Villanova nella Finale NCAA contro Michigan è la giusta conclusione di un percorso cominciato anni fa.
(articolo)
8 min
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Non poteva che finire così, con i confetti bianchi e azzurri a riempire il parquet dell’Alamo Dome di San Antonio. Troppo superiore Villanova, non soltanto a Michigan - incontrata e liquidata con apparente facilità nella gara che valeva titolo -, ma rispetto a ogni squadra che ha tentato di frapporsi tra i Wildcats e il loro secondo successo negli ultimi tre anni. I ragazzi del sempre inappuntabile coach Jay Wright hanno vinto le sei partite necessarie per tagliare le retine con 17,6 punti di margine di media, un dominio che non si vedeva dalla North Carolina del 2009.

Il trionfo di ‘Nova corona l’anno perfetto della città di Philadelphia, con gli Eagles che hanno alzato il Vince Lombardi Trophy della NFL e aspettando i 76ers per la prima volta ai playoff dopo sei anni di Process. Corona soprattutto l’incredibile lavoro di Jay Wright, che è riuscito a trasformare Villanova in una delle realtà più vincenti del college basket imponendo la sua visione di gioco costruita sulla condivisione del pallone e sul tiro perimetrale. Sono lontani i tempi nei quali i suoi quintetti con quattro guardie facevano alzare non poche sopracciglia: ora la sua squadra è il modello a cui tutte le altre guardano con invidia, forte delle 136 vittorie negli ultimi quattro anni. Nessuno prima aveva mai fatto così bene.

La partita

Nonostante non abbia dalla sua i favori del pronostico, Michigan parte subito forte sulle ali di Moe Wagner. Il lungo berlinese segna 11 punti nei primi nove minuti, spingendo il vantaggio dei Wolverines fino al +7. Ma è il più classico dei fuochi di paglia: basta infatti che ‘Nova dopo una partenza a singhiozzo trovi finalmente la misura dalla lunga distanza per rimettere immediatamente la gara in equilibrio. In un primo tempo durante il quale sia Jalen Brunson che Mikal Bridges faticano a trovare ritmo, ad accendere la luce ci pensa Donte DiVincenzo. Il “Michael Jordan del Delaware” esce dalla panchina e si inventa la gara della vita, spingendo Nova sopra di 10 all’intervallo a furia di triple. Con 18 punti sui 37 dei suoi, DiVincenzo lancia il parziale che di fatto spacca la partita in due.

Rientrati dagli spogliatoi, Michigan non riesce a trovare gli aggiustamenti cercati da John Beilein, anzi è subito Villanova ad allungare il parziale grazie al suo quintetto piccolo, letale quando riesce a spaziare il campo e sfruttare i vantaggi creati. Bridges comincia silenziosamente a imprimere il suo marchio sulla partita grazie le sue braccia lunghissime che inibiscono l’attacco avversario, ma è sempre Di Vincenzo a chiudere ogni tentativo di rimonta di Michigan. Con Brunson rallentato da problemi di falli (chiuderà con soli 9 punti e 4/13 dal campo), è “The Big Ragù” a entrare nuovamente in modalità supernova, infilando un paio di triple senza coscienza e strizzando l’occhio alla telecamera. I suoi 31 punti sono il massimo segnato da un giocatore uscendo dalla panchina e una cifra che non si vedeva da 30 anni in una gara per il titolo.

Tutto il Donte DiVincenzo di cui avete bisogno.

Dopo l’ennesima fiammata guidata dall’italo-americano, i Wolverines alzano definitivamente bandiera bianca. Per i ragazzi di John Beilein l’ultimo ad arrendersi è il senior Muhammad-Ali Abdur-Rahkman, mentre Wagner scompare letteralmente nella ripresa, mostrando tutti i suoi limiti nella difesa del ferro e nella tenuta mentale. Anche Charles Matthews dopo un torneo strepitoso stecca la partita dell’anno, perdendo il duello a distanza tra glue guys con Bridges. Quando DiVincenzo lancia il pallone in aria sul suono della sirena finale, il palcoscenico di San Antonio è tutto per i Wildcats: la guardia vince il Most Outstanding Player delle Finals mentre Jalen Brunson ha già fatto incetta di premi individuali nel corso della stagione, ed è quindi giusto che loro due insieme sollevino al cielo il Trofeo sotto lo sguardo soddisfatto di Jay Wright. È il secondo negli ultimi tre anni: Villanova è già una dinastia.

I vincitori

Per trovare le radici del dominio odierno di Villanova bisogna scavare a fondo fino alle Final Four del 2009. Jay Wright aveva appena riportato i Wildcats all’atto conclusivo dopo un quarto di secolo dall’impresa di Rollie Massimino contro la Georgetown di Patrick Ewing e sembrava pronto per rilanciare il basket di Philadephia. Invece, dopo quella fugace apparizione, Villanova ha solamente collezionato una lunga serie di eliminazioni durante il primo weekend nonostante partisse spesso e volentieri tra le favorite, guadagnandosi l’etichetta di “choker”. C’è voluta la tripla sulla sirena di Josh Jenkins per spazzare tutte le perplessità sui Wildcats e sul suo capo allenatore.

Ora Villanova è il miglior programma in America, e non è solamente una questione di titoli e vittorie. Wright lo ha costruito mattone per mattone, scegliendo quella che gli americani chiamano “The Right Way”. Rimanendo fedele alla sua filosofia di basket, in cui ciò che conta è il gruppo e le relazioni che si instaurano in esso, ha dato vita a un meccanismo perfetto nel quale la modernità va a braccetto con la tradizione. L’attenzione verso le spaziature e gli extra-pass è la stessa che viene rivolta alla formazione pedagogica dell’individuo. Molti dei giocatori nel roster hanno saltato un anno di eleggibilità, hanno effettuato quella che si chiama una redshirt season, seguendo e lavorando con la squadra senza però poter mettere piede in campo. È una pratica antica, quasi superata nella frenesia dell’epoca degli One & Done, alla quale però Jay Wright tiene molto. E i risultati gli danno ragione.

La formula di Villanova è semplice: si scelgono i giocatori che garantiscono la totale disponibilità ad abbracciare l’identità culturale del programma, fatta di sacrificio, altruismo e devozione alla vittoria collettiva. Conta il gruppo, conta il sistema. Nel 2011 Wright aveva in squadra cinque McDonald’s All-American: fu la peggiore stagione della sua carriera. Da allora ne ha allenato soltanto un altro, Jalen Brunson. Il figlio di Rick, stella di Temple University, quando è arrivato a Villanova poteva esigere il posto da titolare. Invece ha aspettato il proprio turno, studiando i vari Ryan Arcidiacono e Josh Hart ed ora è diventato il miglior giocatore della nazione. L’altro leader della squadra, Mikal Bridges, ha passato tutta la sua stagione da freshman in giacca e cravatta a scrivere gli scouting report delle squadre avversarie: sarà una scelta in Lottery nel prossimo Draft NBA. Quando loro lasceranno la squadra dopo i festeggiamenti del titolo, altri che li hanno osservati da vicino saranno pronti a prendere il loro posto.

Mikal Bridges è qualcosa di più di un 3&D.

Villanova dopo anni di aggiustamenti, di crolli e di ricostruzioni, è divenuta una comunità autosufficiente. L’architettura portante è quella che da decenni mantiene il college basket, nonostante gli scandali e le ipocrisie, si gioca per quello che c’è scritto davanti alla maglia. Le rifiniture sono invece in stile moderno: nei quintetti di Nova ogni giocatore può tirare dall’arco o penetrare fino al ferro, inseguendo una versatilità totale che strizza l’occhio al basket professionistico. In molti hanno paragonato questi Wildcats ai Golden State Warriors, come ormai si fa con qualsiasi squadra con ottime percentuali da tre punti, ipotizzando anche di vedere Jay Wright in un futuro prossimo su qualche panchina NBA. È un’ipotesi sicuramente suggestiva, ma sarà davvero difficile convincerlo ad abbandonare la casa che ha costruito con tale cura e devozione.

Foto di Ronald Martinez/Getty Images

I vinti

A dar retta a chi compila i sondaggi pre-stagionali, Michigan doveva finire in sesta posizione la Big10 in una stagione che non offriva molte aspettative ai Wolverines. La squadra di John Beilein ha invece vinto 33 partite, record dell’Università, difeso il titolo del torneo di Conference e inanellato 14 vittorie consecutive fino ad arrivare al Monday Night per il titolo. Una cavalcata folle, inaspettata, resa ancora più impronosticabile dal rocambolesco percorso che portava alle Final Four. Michigan ha incontrato nell’ordine una #14, una #6, una #7, una #9 e una #11, divenendo l’unica squadra da quando il tabellone si è allargato a 64 squadre ad arrivare fino in finale non incrociando neanche una seed sopra la quinta. Sicuramente sono stati fortunati e hanno saputo approfittare delle mancanze altrui, ma i Wolverines non hanno fatto altro che seguire alla lettera il famoso motto coniato da Jim Valvano durante la miracolosa corsa al titolo della sua NC State: “Survive and Advance”. Non importa se questa sia una mid-major, un’università dal sangue blu o una cenerentola al primo ballo: l’unica cosa che conta è battere la squadra che ti trovi di fronte e passare a quella successiva.

E Michigan ha abbracciato in pieno questa filosofia trovando sempre un modo per sopravvivere e avanzare. Con una preghiera sulla sirena, una grande prestazione difensiva o un’improvvisa esplosione balistica: in qualche modo è arrivata fino in fondo dove però non aveva le armi adatte per battagliare con Villanova. Così come Jay Wright, anche John Beilein ha ricostruito una cultura a Michigan dopo il vuoto pneumatico seguito agli scandali degli anni ‘90 ripartendo dal collettivo e valorizzando al massimo giocatori raccattati ai quattro angoli della terra. Matthews, il transfer da Kentucky; Wagner, il tedesco che non conosceva nessuno; Robinson, il giocatore di terza divisione; Abdur-Rahkman, a cui sono Michigan aveva offerto una borsa di studio: gli Wolverines hanno dimostrato come nel basket collegiale il risultato è ben più alto della somma delle parti.

Non è casuale che in finale si siano scontrati due dei migliori coaching staff della NCAA, animati dalle stessi concetti fondamentali e uniti da un forte rispetto reciproco. In una stagione funestata da scandali, intercettazioni e complotti sono arrivati in finale due programmi tra i più puliti d’America, dando un forte segnale di come si possa vincere anche senza trasformare la caccia ai fenomeni in uscita dall’high school in una lotta senza quartiere. A volte la strada più lunga porta più in alto.

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