Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Stuey Ungar, genio e dannazione
11 nov 2020
La storia scintillante e maledetta del tre volte campione del mondo di poker.
(articolo)
26 min
Dark mode
(ON)

Un cielo grigio ferro ammorbidisce l’impatto del sole del deserto. Opaca come se provenisse da dietro un vetro di vapore, la luce filtra attraverso alcune nuvole che dalla costa del Pacifico arrivano a spegnersi nell’entroterra bollente, oltre le pareti esterne dell’Oasis Motel di Las Vegas. Come altri alberghi di quart’ordine, l’Oasis si trova nel Naked City, uno dei quartieri maledetti della città, dove il ventre molle dell’America non può fare a meno di mettersi in vetrina, pieno di prostitute e gigolò con le facce smunte che girovagano tra appartamenti diroccati e crack-house infestate dai fantasmi di una vita rovinata.

Una cameriera entra per rifare la stanza numero 16, ignara del fatto che quello che sta per scoprire è uno spettacolo aberrante. Le tapparelle sono chiuse e l’aria odora di bile, sul pavimento ci sono chiazze di vomito e tutti i lenzuoli sono accartocciati poco oltre il letto disfatto; sulla televisione scorrono le immagini di un film porno. Avvolto tra le increspature di una coperta, il corpo ormai invisibile di Stuey Ungar giace immobile, la bocca semiaperta a spalancare una voragine di nero profondo come l’inferno, le mani che hanno smesso di tremare.

L’immagine è inquietante ma riflette anche un candore, una purezza, che stona col quadro generale della realtà, la stessa che dice che all’età di 45 anni, dopo una vita irripetibile, il cuore dell’unico uomo in grado di laurearsi campione del mondo di poker per tre volte si è fermato. Stuey Ungar è morto. Ma nessuno tra quelli che lo conoscevano veramente riesce ad abbattersi o provare tristezza; al contrario, l’aria è irradiata da una sorta di euforia. Stuey si è liberato, da se stesso e dai suoi fantasmi, dal male peggiore che un uomo possa provare, quello di vivere, e può finalmente mettersi comodo e lasciare che siano gli altri a incollare il suo ricordo nelle pagine della memoria.

The Kid

La stanza numero 16 non è poi tanto diversa da quelle degli appartamenti del Lower East Side della New York dei primi anni ’50. È la New York delle mean streets, controllata con il pugno di ferro dalle Cinque Famiglie, dove il racket delle scommesse sportive gira veloce in ogni bar di Manhattan. La città vive ore placide ma è volenterosa di dare un’opportunità a coloro che sanno farsi trovare al posto giusto nel momento giusto. È il caso di Isidore Ungar, un ebreo ungherese fuggito dall’Europa prima che la situazione sfuggisse definitivamente di mano e che sul finire della decade precedente ha aperto un bar-ristorante, il Fox’s Corner, proprio all’angolo tra la Seconda e la Settima Strada, nel cuore dell’East Village.

Isidore, per tutti “Ido”, non sa né leggere né scrivere, ma possiede un carisma magnetico che lo ha reso un imprenditore di successo. Gli affari al Fox’s Corner vanno così bene da permettergli di mandare la famiglia per tutta l’estate sulle Catskills, la zona degli Appalachi dove le famiglie ebree newyorkesi amano trascorrere i mesi più caldi dell’anno. Lui resta in città, gestisce il business e si diverte nei locali notturni dell’Upper East Side. Lì, una sera dell’agosto del 1951, conosce una ballerina biondissima e tutta pepe di nome Fay Altman. Se ne innamora perdutamente, la sposa l’anno seguente, dopo un divorzio faticoso dalla prima moglie. Daranno alla luce due figli: una bambina, Judy, nata pochi mesi dopo il matrimonio, e il tanto sognato maschio, che viene al mondo l’8 settembre 1953 con il nome di Stuey Errol Ungar.

Fin da piccolissimo Ido lo porta a tutte le partite delle squadre di New York e gli permette di tirare tardi dentro al bar a prendere le scommesse delle persone che vengono a giocare. Il piccolo Stuey impara a riconoscere un cavallo vincente prima ancora di sapersi legare le scarpe e ogni giorno dopo scuola (con la quale già alle elementari ha un rapporto discontinuo) si mette seduto dietro al bancone a bere litri di Coca-Cola e imparare i trucchi del mestiere. Ido lo lascia fare, ma a una condizione: non deve giocare.

Stuey accetta ma soltanto perché è consapevole di potersi rifare d’estate, quando, come da tradizione, gli Ungar (nel senso di Fay, Judy e Stuey) partono per il Borscht Belt, il ghetto borghesemente adibito a residenza estiva sulle Catskills. Lì il gioco d’azzardo zampilla come acqua di fiume. Si gioca a tutto: bridge, canasta, bingo, poker; gli italiani si sono portati dietro la ziganet (o zecchinetta) mentre le famiglie dell’est Europa aggiungono l’amato klaberjass; il più amato di tutti però è il gin rummy, la versione americana del nostro ramino, praticato religiosamente anche dalla signora Ungar ogni giorno dopo pranzo.

Il piccolo Stuey siede dietro di lei e osserva. È come Mozart con la musica: prima ancora di aver capito le regole legge il gioco come una sinfonia, intuendo ogni volta quando sua madre (a suo dire, una giocatrice modesta) compie un errore o scarta una carta che potrebbe far comodo a qualcun altro. Possiede una memoria eidetica, soprattutto quando si tratta di numeri (non a caso l’unica materia che gli interessa a scuola è la matematica) che gli permette di ricordarsi l’ordine esatto di due mazzi da 52 carte anche a distanza di ore.

Con la pelle pallidissima, le spalle strette incastonate sopra un tronco rachitico, l’espressione infantile contornata di una mascella leggermente scimmiesca come quella di Zira de Il pianeta delle scimmie, una volta rientrato in città il nome di Stuey inizia a circolare. Tutti lo chiamano The Kid, il “ragazzino”, e quel soprannome gli resterà addosso per sempre come una gomma perfettamente modellata sulla sua natura ossuta e dinoccolata.

La nascita del mito

La prima svolta della sua vita arriva nel 1967, dopo che Ido viene stroncato da un infarto fulminante. Stuey deve ancora compiere quattordici anni e ora non c’è più nessuno capace di opporsi tra lui e quel mondo dove tutto sembra venirgli facile. Appena un anno più tardi sua madre viene colpita da un ictus che la costringe a letto per il resto dei suoi giorni; sua sorella Judy, affranta e abbandonata, cade nel vortice senza via di scampo dell’eroina.

Privato del cuscinetto famigliare, Stuey inizia a bazzicare ogni angolo della città dove si accettano scommesse. Dai bar del Battery Park ai sotterranei di Harlem, dagli scantinati della chiesa nel distretto italiano ai “goulash joints” fino ai club più rinomati come il Mayfair Bridge Club: tutti conoscono The Kid, soprattutto dopo che una sera, in un club sulla Nona, Ungar chiede e ottiene di poter sfidare Art Rubello, un giocatore affiliato alla famiglia Genovese. La partita dura meno di un’ora, tanto basta a Stuey per vincere tre partite su tre. Sul volto di Rubello si accende un sorriso che si mescola all’ennesima sigaretta, ma quando arriva a chiedergli la rivincita Stuey prende i soldi e scappa via nello stupore dei presenti, sostenendo che in realtà la vincita gli serviva per scommettere su un cavallo secondo lui imbattibile alla Roosevelt Raceway e di non avere altro tempo da perdere.

Il giorno dopo il loro incontro Rubello alza il telefono e chiama Victor Romano, un sessantenne fumatore incallito che dopo aver trascorso quasi vent’anni tra Sing-Sing e Attica è diventato uno dei membri più rispettati dell’organizzazione criminale dei Genovese. Su consiglio di Rubello, Romano conosce Stuey e ne resta subito impressionato.

All’esterno i due non hanno niente in comune: Ungar è un ragazzino basso e magro che parla con la stessa farfugliante velocità con la quale vive; Romano è alto ed elegante, ha una pronuncia impeccabile e uno spiccato senso per gli affari. Ma nel profondo, laggiù dove le persone sensibili si riconoscono tra loro, i due legano subito, accomunati dalla stessa ossessione per la memoria – per Stuey sono le carte e i numeri, per Victor invece la dedizione wittgensteiniana per le parole. Negli anni trascorsi in carcere ha memorizzato ogni definizione presente sul dizionario. Romano lo prende sotto la sua ala protettrice; gli procura qualsiasi cosa di cui abbia bisogno (soldi, vestiti, macchine) e lo protegge quando si mette nei guai, cosa che succede spesso, sia con gli altri giocatori, che mal sopportano la sua natura irascibile e aggressiva, sia con i bookie di mezza città, con i quali è costantemente indebitato.

Dopo aver battuto chiunque all’interno dei Cinque Distretti, Romano inizia a farlo viaggiare per il paese, organizzando sfide contro i migliori giocatori di Chicago, Boston e Miami. Vorrebbe che il ragazzo passasse sei mesi in Florida in cerca di nuovi sfidanti; ma Stuey si annoia, e ogni sera telefona per chiedere di poter tornare a casa. A New York non c’è nessuno da cui tornare, nessuna famiglia da riabbracciare, ma a lui non interessa, così come non gli interessa girare per il paese o andare in spiaggia; neanche le donne sembrano interessargli più di tanto – e questo nonostante frequenti i migliori parlor e night club della città e conosca a memoria il nome di ogni ragazza che cammina sulla Deuce.

Uno scorcio della Quarantaduesima Strada di Manhattan (nota anche con il nome di Deuce) negli anni ‘70.

Quando finalmente rientra a New York, Romano gli organizza una partita contro niente meno che Harry Stein. Siamo nel 1970 ed è considerato il migliore del mondo di gin rummy. Nel tentativo di imprimere un'aura ancora più epica all’incontro la partita si gioca in una stanza privata del Pennsylvania Hotel, sulla Settima Avenue, con il leggendario profilo del Madison Square Garden che rapisce l’occhio fuori dalla finestra. La prima mano viene servita poco dopo mezzanotte: Ungar e Stein giocano un totale di 81 incontri, e per 81 volte Stuey batte il proprio avversario. È un umiliazione. Sebbene non ci sia prova definitiva, la leggenda vuole che Stein, dopo quella notte, non abbia mai più giocato a carte in vita sua.

La metamorfosi

Stuey invece sta per compiere diciotto anni. Come ogni ragazzo americano della sua età il 1971 farebbe rima con Vietnam, ma bastano una telefonata e una mazzetta alle persone giuste da parte di Romano per escluderlo dal servizio di leva per motivi di salute. Il giorno del suo compleanno il governo, invece della lettera di arruolamento, gli recapita l’ultima parte dell’eredità lasciatagli dal padre: quattordicimila dollari che Stuey brucia alle corse nel giro di due giorni.

La grande novità della sua vita si chiama Madeline Wheeler, una cameriera diciannovenne che come lui è orfana di padre e che ha avuto un figlio, Richie, da una relazione precedente. Stuey non è il migliore dei fidanzati – Madeline gli deve insegnare tutto, perfino a baciare! – ma per la prima volta in vita sua sembra intenzionato a impegnarsi in qualcosa; soprattutto sviluppa una simpatia incontrollabile per il piccolo Richie. Questo ovviamente non significa rinunciare al gioco o alle carte: Romano gli ha promesso che come regalo per i suoi ventuno anni lo spedirà a Las Vegas e il dicembre del 1974, un mese esatto dopo aver spento le candeline, Stuey Ungar varca la soglia del lussuoso Caesar Palace dopo aver lasciato i bagagli a un fattorino vestito come un antico romano.

L’impatto è equiparabile a quello di mettere un alcolista al centro di una distilleria. Ungar non è accompagnato da Romano, il cui cuore fa i capricci, ma da Philly Tartaglia (un altro associato della famiglia Genovese), il quale gli consegna trentamila dollari in contanti come regalo di benvenuto. Meno di un’ora dopo non ci saranno più.

L’arrivo a Las Vegas, tratto dal film High Roller, uscito nel 2003 con Michael Imperioli (nella foto) nella parte di Stuey. Non capolavoro ad essere sinceri.

Ubriaco di luci, di colori e di gioco, completamente sovrastato da una seduzione totale, per la prima volta nella sua vita Ungar sente di essere a “casa”. Tartaglia lo introduce a ogni high roller della città, da “Amarillo” Preston a Jimmy Black, da Billy Walters al geniale Danny Robinson, e Stuey si trova talmente a proprio agio che quando sarà tempo di tornare a New York, a differenza delle volte precedenti, si sente depresso. Nella Grande Mela tutti lo accolgono a braccia aperte, ma tutta la dirompente sensazione di potere che aveva provato nel deserto è svanita del tutto. Oltretutto la città è ormai irriconoscibile e sull’orlo della bancarotta, sembra una Gotham City in putrefazione, e gli sforzi dell’amministrazione Lindsey e del leggendario Serpico di dare un taglio alla corruzione e ripulire downtown sembrano aver lasciato il posto a un nichilismo dilagante.

Depresso e annoiato, Stuey scappa verso la California, diventando presenza fissa al Santa Anita Racetrack di Arcadia cercando però di non dare troppo nell’occhio. Qualcuno sussurra che sia stato costretto a scappare per colpa dei debiti, diventati talmente grandi che neanche Romano riesce più a proteggerlo. Una teoria che diventa realtà nel 1979, quando Stuey vince tre tornei ufficiali di gin rummy (i primi della sua carriera) in cinque mesi, ma lascia che a riscuotere il montepremi sia qualcun altro al posto suo, e non qualcuno di insignificante ma niente meno che Anthony Spilotro, il terrificante alfiere della Chicago Outfit degli anni ’70 interpretato magistralmente da Joe Pesci in Casino di Martin Scorsese.

Saldato il debito, Ungar si trasferisce in pianta stabile a Las Vegas insieme a Madeline e il piccolo Richie. Per un po’ gioca a fare il padre di famiglia e passa le serate a casa a guardare la televisione e giocare con il figlio; ma è un’esperienza da poco. Il richiamo dell’azione è troppo forte, soprattutto perché, dopo aver conquistato la consapevolezza da parte di tutti di essere il miglior giocatore di gin rummy di tutti i tempi, Stuey ha iniziato a dedicarsi al poker con un obiettivo chiaro in testa: diventare il più forte di tutti.

Sulla cima del mondo in back-to-back

Nonostante gli anni ’80 siano già visibili all’orizzonte, Las Vegas è ancora una città da Far West, piena di petrolieri, wiseguys e cowboys con lo Stetson ben fissato sulla testa. Il fascino della Strip, la via principale della città, acquista brillantezza ogni giorno, ma il cuore nevralgico dell’azione per i veri giocatori continua a essere il Glitter Gulch sulla Freemont. È un blocco di quattro isolati votato esclusivamente al gioco d’azzardo, ci sono più banchi dei pegni che in tutta l’area metropolitana di Londra; torreggiano il Golden Nuggets e l’Horseshoe Club della famiglia Binion, storica casa delle World Series di poker anche nel 1980, l’anno in cui, per la prima volta, partecipa anche Stuey Ungar.

Con 27 anni ancora da compiere Stuey è di gran lunga il più giovane tra gli ottanta concorrenti, ma dal modo in cui gioca sembra già un maestro. La sua sprezzante volontà di spingersi sempre al limite, di considerare i soldi come un semplice strumento alla pari della racchetta per un tennista o la spada per uno schermidore, gli permettono di modellare uno stile sfrontato ed efficace soprattutto nel prendere un grande vantaggio nelle prime fasi della partita, per poi alternare gli esuberanti rilanci a quesiti più sottili.

Al termine della prima giornata di gare, Stuey è consapevole di aver giocato talmente bene da essere già sicuro. Rientra nella propria stanza e telefono a Romano: «Victor, scusa il disturbo, volevo soltanto dirti che sto per diventare campione del mondo».

La padronanza con cui gioca il resto del torneo è quella di chi sa di non poter sbagliare. La sfida finale è contro Johnny Moss e Doyle Brunson, due leggende texane che nei primi dieci anni di competizioni ufficiali si sono spartiti cinque titoli mondiali. All’ultima mano, quella decisiva, un semplice 3 gli è sufficiente per incastrare la scala bassa che lo incorona campione. Le luci di tutta la sala sono puntate su di lui. Stuey sorride timidamente, i capelli bizzosi che gli coprono parte della fronte. Il presentatore gli mette davanti il microfono aspettandosi l’ennesima balbettante arringa sarcastica e offensiva nei confronti dei suoi avversari, ma una volta finita l’enfasi del momento, una volta giocata l’ultima mano, Stuey torna nel guscio insensibile che lo protegge dalla vita reale. Ha appena vinto 365 mila dollari. L’intervistatore gli chiede cosa farà con tutti quei soldi e Stuey, guardandolo come se la sua voce provenisse da dentro una caverna, appoggia le labbra sul microfono e con un filo di voce risponde soltanto: “Li rigiocherò”.

Un sorridente Stuey Ungar seduto in mezzo a Doyle Brunson (sinistra) e Jack Binion dopo la vittoria delle World Series del 1980. Un aneddoto interessante: per poter incassare il montepremi c’era bisogno che il campione fornisse le proprie coordinate bancarie, o quantomeno il numero della previdenza sociale. Stuey non aveva mai avuto nessuna delle cose in vita sua e fu costretto a correre in banca per aprire il primo conto della sua vita.

Quella sera stessa Stuey, Madeline, Romano e Tartaglia – arrivati in città giusto in tempo per vederlo incoronato campione – escono a festeggiare al Villa D’Este, un ristorante italiano sulla Strip. Il volto del campione ha ripreso colore, è contento di condividere il successo con tre persone a lui più vicine. Una sensazione che viene stroncata dall’infarto che improvvisamente colpisce Romano, uccidendolo prima ancora dell’arrivo dei paramedici.

Per l’ennesima volta, nel momento in cui la vita sembrava aver preso una piega di dolcezza, qualcosa va storto. La morte di Romano lo segnerà profondamente, per mesi scompare dalla scena pubblica senza lasciare tracce. Riappare solo sul finire dell’aprile dell’anno seguente, presentandosi ai tavoli dell’Horseshoe Club con l’intenzione di difendere il titolo. Benny Binion, il padrone di casa, un omaccione del sud con una vistosa pancia rotonda e un’espressione gioviale, crede talmente poco nel “ragazzino” da inserirlo nel tabellone con una quota di 25-1. Un errore che Stuey capitalizza con un disprezzo glaciale, spazzando via ogni avversario che si trova davanti fino al tavolo finale, dove Perry Green, un pellicciaio originario dell’Alaska, si arrende alla coppia di donne che incorona Stuey Ungar ancora una volta campione del mondo.

Esattamente come un anno prima Stuey sorride alle telecamere timido; ma stavolta c’è qualcosa di diverso nei suoi occhi, l’ombra del disgusto verso quello che lo circonda. L’intervistatore, sarcasticamente, gli pone la stessa domanda dell’anno prima sul ricco montepremi, ma stavolta Stuey risponde senza guardarlo: «Li perderò».

Oblio

I successivi quindici anni della sua vita saranno una lotta a perdere contro se stesso. L’ultima immagine delle World Series del 1981, quella di un Ungar stanco, la pelle del volto traslucida e stirata come quella di un cadavere, diventa perfetta per descrivere il suo lento ma inesorabile disgregamento emotivo. Il sangue che gli scorre nelle vene non è più quello di un alligatore, come gli aveva detto una volta Moss, facendogli il più alto complimento che un pokerista possa ricevere, piuttosto quello di un uomo che riesce a scendere a patti con la propria sofferenza.

L’anno successivo alla doppietta mondiale appare al Merv Griffin’s Afternoon Show, un noto programma televisivo di quel periodo, e sposa Madeline nonostante una lunga serie di scappatelle (e gravidanze interrotte) con altre donne; e nel novembre dello stesso anno diventa padre per la prima e unica volta nella sua vita. Ma neanche l’amore per sua figlia Stephanie riesce a invertire una rotta che sembra ormai segnata.

Il suo problema con il gioco peggiora ogni giorno che passa, ma non è niente in confronto al resto. È risaputo che i giocatori, a quel tempo, facessero uso di stupefacenti per restare svegli per giorni a giocare ai tavoli, un’usanza che lo stesso Stuey non disdegna, soprattutto in una città come Las Vegas dove l’unica neve possibile è quella venduta in polvere. Si sente solo, inizia a sniffare cocaina tutti i giorni, sempre di più. Diventa famoso per le sue “giratine” nei bagni di ogni casinò della città. Il suo rapporto con la droga si intensifica dopo il divorzio con Madeline (luglio 1986) e diventa insostenibile dopo che Richie, il figlio diciottenne che fin dal primo giorno aveva amato incondizionatamente e che aveva deciso di adottare, si toglie la vita impiccandosi in un garage del Hilton Casino.

I conflitti interni devastano l’animo fragile di un Ungar ormai incapace di fermare la giostra del proprio destino. Passa giornate intere davanti alla televisione a sniffare cocaina oppure a fumarla, sotto forma di crack, dopo essersi distrutto la membrana che separa le due narici. Con l’aspetto di un mostro informe – sarà costretto a rifarsi anche tutti i denti, marci per colpa della poca igiene e del crack – le sue apparizioni ai tavoli diventano sempre più sporadiche. È vero che nel 1984 vince il suo terzo braccialetto d’oro grazie a un torneo giocato in modalità 7-Stud, ed è vero che nel 1989 piazza un colpo grosso aggiudicandosi l’intero montepremi (1.8 milioni di dollari) del Pix Six al Santa Anita Racetrack; ma la morte di Romano e di Richie hanno cambiato tutto, hanno spento il suo entusiasmo, la sua voglia di di correre libero.

Una foto delle World Series del 1981, scattata da Ulvis Alberts per l’album “Poker Face” quando ancora il “ragazzino” era al centro del suo universo.

Gli anni ’90 sopraggiungono portandosi dietro una fievole speranza. Nell’aria si respira un clima diverso, l’orizzonte sembra più alto; la stessa Las Vegas sembra vivere un simbolico cambio della guardia dopo aver dato l’addio a Benny Binion il giorno di Natale del 1989 e salutato in pompa magna l’apertura del nuovissimo Mirage. Perfino Stuey sembra essere contagiato dalla nuova energia, tanto che per la prima volta in quattro anni decide di iscriversi alle World Series.

Non possedendo i diecimila dollari necessari per l’iscrizione viene spalleggiato dall’amico e giocatore Billy Baxter, che accetta di fargli da sponsor in cambio di una fetta del montepremi finale in caso di vittoria. E l’investimento di Baxter sembra di quelli destinati a fare la storia perché per 48 ore Stuey torna ad essere l’assassino di ghiaccio dei tempi migliori. Dopo essere diventato chipleader al termine della seconda giornata di gare con un tris di dieci, Ungar torna in camera sua, al Golden Nuggets (dall’altra parte della strada) sicuro di vincere.

La mattina seguente Billy Baxter è il primo a entrare nella sala adibita per l’occasione dell’Horseshoe club. Uno dopo l’altro, quindici dei sedici partecipanti rimasti in gara entrano, sfoggiando un sorriso sicuro e sedendosi al proprio posto. L’unico assente è Stuey.

Incredulo e preso da una rabbia furibonda, Baxter si precipita fuori dal locale, attraversa la strada e scala a piedi i quattro piani dell’hotel del Golden Nuggets fino ad arrivare davanti alla stanza 314 dove alloggia il campione. Riuscirà ad entrare soltanto mezz’ora più tardi, appena in tempo per salvare la vita a uno Stuey Ungar disteso sul pavimento con la faccia immersa in un misto di vomito e sangue. Viene portato d’urgenza all’Universal Medical Center, dall’altro lato della città, dove resterà in prognosi per oltre una settimana.

Chiunque conosca Stuey non può fare a meno di credere che quel gesto plastico, quella overdose, sia davvero l’inizio della fine. Stuey sorride com’è solito fare in questi casi e promette di non farlo più, ma nei tre anni successivi verrà ricoverato altre due volte. Questo non gli impedisce, nel 1991, di rifilare un clamoroso smacco all’iraniano Mansour Matloubi, laureatosi campione proprio mentre Ungar veniva portato via in barella. Quella partita, oltre a segnare la fine della carriera della meteora persiana, verrà ricordata per sempre come La partita del Call del secolo, dove Stuey ruba un piatto con un rilancio divenuto leggenda.

La capacità di Ungar di sapere leggere i tell, i segni rivelatori che “scoprono” i comportamenti dei giocatori (soprattutto quando bluffano), è un’altra delle straordinarie doti della sua intelligenza trasversale. Per essere un uomo incapace di sostenere una conversazione, che non ha mai fatto una lavatrice o la spesa in tutta la sua vita, totalmente disinteressato a qualsiasi cosa che non sia l’adrenalina del gioco, Stuey possiede una sensibilità unica nel leggere le persone. Per lui non si tratta solo di essere come il Gambler di Kenny Rogers (“Devi sapere quando prendere, quando passare, quando alzarti dal tavolo e quando correre”), ma di mescolare psicologia e astuzia, lasciandosi guidare dallo spirito di sopravvivenza. Il poker è una sorta di darwinismo sociale: il più adatto sopravvive, gli altri soccombono; e Stuey è fenomenale nel riconoscere le trappole, nel fiutare la preda, nell’intuire le mosse di chi gli siede davanti semplicemente affidandosi ai piccoli segni o tic.

Rounders invece è un film sul poker fatto molto bene, ve lo consiglio.

Il ruggito

La partita contro Matloubi sarà l’ultimo evento ufficiale al quale parteciperà per quasi sei anni. Dopo la definitiva separazione da Madeline, Ungar vende la villa in stile tudor in Coventry Street e si trasferisce a Los Angeles, dove gioca al nuovo Bicycle Club e dorme sul divano dell’amico e giocatore Mike Salem. Nel 1995 fugge ancora, stavolta in Texas, a El Paso, dove spera di trovare rifugio nella tenuta dell’amico Brunson. “Texas Dolly” gli dice di fermarsi tutto il tempo di cui ha bisogno, ma Stuey fugge ancora tornando a Las Vegas l’anno successivo, dove fa la sponda tra le crack-house – dove ormai è una presenza fissa – e i motel a basso costo situati a nord della città.

Agli inizi del 1997 trova una sistemazione stabile a casa dell’amico Don McNamee, un petroliere originario dell’Alaska che ha avuto un ruolo chiave nell’espansione nazione dei Teamster, il famoso sindacato guidato da Jimmy Hoffa. Stuey vuole darsi una ripulita, quantomeno provarci. Nella sua testa c’è soltanto una cosa, un pensiero fisso. Tornare. Riprovarci. Mancano meno di due mesi alle World Series del 1997 e per quanto possa essere abbattuto e sconfitto, da qualche parte, in fondo all’anima, un bagliore di fuoco gli rischiara la vista dandogli speranza. La strada per riuscirci, però, è tutta in salita.

Stuey Ungar alle World Series del 1997.

Per prima cosa deve trovare i diecimila dollari per l’iscrizione. Non ha più un centesimo. Quanto sono lontani i giorni in cui il suo conto spese era sulle spalle della malavita di New York; ora invece deve raccomandarsi a chiunque conosca, chiunque conservi un ricordo quantomeno agrodolce della persona che era. Sfruttando la carità di chi è cresciuto nel suo mito, Stuey riesce a mettere insieme mille dollari, la cifra minima necessaria per accedere all’ultimo torneo satellite disponibile. In qualche modo riesce a mandare giù l’umiliazione di ritrovarsi seduto al tavolo con degli insignificanti sconosciuti venuti da tutta la nazione, e questo gli basta per aggiudicarsi il tavolo e vincere l’eliminatoria. Con l’ultima tessera disponibile, la numero 312 su 312 partecipanti, Stuey Ungar accede alle World Series.

Se c’è una cosa che ha imparato nel corso della sua carriera è che deve partire forte per crearsi lo spazio di manovra per il suo stile “kamikaze” – come lo ribattezza l’amico e giocatore Jack Strauss. Il primo giorno è sempre il più difficile per lui, a maggior ragione questa volta, visto che ha promesso a sua figlia Stephanie, della quale tiene una foto nella tasca della camicia, di darci un taglio con la cocaina.

Stuey suda attraverso una pelle che sembra di carta velina, contrae la mascella e più di una volta chiede se può avere un bicchiere d’acqua. Ma alla fine della prima giornata è settimo in classifica e qualcosa dentro di lui sembra sbloccarsi. Il secondo giorno mostra la scioltezza dei vecchi tempi e martella gli avversari a suon di rilanci e battute sprezzanti, salendo fino al secondo posto assoluto. In città non si parla d’altro: The Kid è tornato! La notte tra la seconda e la terza giornata, l’ultima, quella decisiva, Stuey non riesce a dormire. La mattina seguente è uno dei primi ad arrivare. Tutti, tra i presenti, sono consapevoli che sta per scriversi una delle pagine più indelebili della storia del poker.

Stuey indossa camicia grigia che gli sta larghissima, i capelli a scodella iniziano a mostrare qualche vezzo bianco e porta degli occhiali con i vetri di un colore blu elettrico che gli danno un’aria da rockstar – dopo il torneo confesserà di averli indossati soltanto per non far notare la strana forma del naso, completamente distrutto dalla droga. Non suda più. È calmo, serafico, consapevole. Il giornalista Gabe Kaplan lo intervista in una pausa tra una mano e l’altra e lui, sorridente, mostra la foto di Stephanie alla telecamera: “Lo faccio per lei”.

Probabilmente l’ultima foto della sua vita che lo ritrae sorridente.

La mano decisiva arriva contro John Strzemp, un lungagnone olandese con un futuro da dirigente di casinò. Ancora una volta, come nel 1980, basta una scala bassa per portarsi a casa la vittoria. Stuey Ungar è campione del mondo per la terza volta. L’unico a riuscirci (Johnny Moss, che come Stuey vanta tre titoli, vinse le prime World Series mai disputate, nel 1970, per acclamazione popolare e non sul panno verde) nonché l’unico a farlo disputando appena dieci edizioni in totale, due record che sussistono ancora oggi e che appaiono destinati a restare imbattuti ancora a lungo. Jack Binion gli consegna il premio finale (1 milioni di dollari in contanti) e davanti al microfono di Kaplan lo stesso Stuey dichiara di aver imparato la lezione, di voler pensare a sua figlia e investire quei soldi nel suo futuro. Quella sera, l’Horseshoe club dà una festa in onore del vincitore, ma Stuey esce da una porta sul retro dopo appena mezz’ora e svanisce nella notte tiepida senza lasciare traccia.

The Immortal Kid

Il Sun e il ReviewJournal, i due giornali più importanti della città, aprono con la notizia del suo successo. Il New Yorker e il Los Angeles Times lo chiamano per scrivere una storia su di lui. Nessuno però sa dove si trovi. Qualcuno sostiene che se la stia spassando con una nuova fiamma (una certa Kim) ma la realtà è che, ancora una volta, non appena la tenda rossa ha chiuso il sipario del concerto adrenalinico che è la competizione, le tenebre che albergano nel suo cuore sono tornate a mangiarsi tutto. Qualcuno lo vede girare senza meta e senza espressione per le strade della città, oppure starsene in disparte a osservare i tavoli nei piccoli casinò del centro, a dimostrazione di quanto aveva ragione quel vecchio saggio che sostiene che ogni storia d’amore, alla fine, sia anche una storia di fantasmi.

Per l’ennesima volta ricompare a poche settimane dall’edizione delle World Series, intenzionato a difendere il titolo. L’amico Baxter accetta di pagargli ancora la quota d’iscrizione in onore dei vecchi tempi – del milione di dollari vinto l’anno prima non è rimasto più niente – ma la sera prima dell’inizio della competizione Stuey annuncia il ritiro e sparisce nuovamente. Tra il luglio e l’ottobre successivo viene arrestato tre volte, tutte e tre perché trovato in possesso di una pipetta per fumare il crack, nonché senza documenti. Lui prova a tirarsi fuori dai guai chiedendo al poliziotto “Ma tu lo sai chi sono io?” ma il vuoto assente degli occhi di quest’ultimo vale più di ogni risposta negativa. È finita. Stavolta è davvero finita.

L’11 novembre, undici giorni prima di essere ritrovato morto nella stanza numero 16 dell’Oasis, Stuey Ungar entra dalla porta d’ingresso del Bellagio, il nuovissimo ed esclusivo casinò costruito dal magnate Steve Wynn. Gioca un po’ all’amato Texas Hold’em e poi esce, prendendo un’uscita secondaria, senza parlare con nessuno, salutato dalle famose fontane ritmate situate proprio fuori dall’immensa struttura.

Due giorni dopo la sua morte pochi intimi, tra cui Strauss, Brunson, Baxter e Reese, pagheranno per il funerale di un uomo che, varcando l’ultima porta della sua vita, non aveva lasciato niente dietro di sé se non 800 dollari in contanti e un po’ di tenerezza. Stuey è stato “freak”, un genio, un criminale, un milionario; un incrocio tra Bobby Fischer e Peter Pan ma con le carte da gioco al posto di scacchi e sogni. Non ha mai pesato più di cinquanta chili in tutta la sua vita e non ha mai avuto un lavoro; ha amato pochissimo e lo ha fatto male. Iperattivo, sfrontato, fragile: quando parlava le sue parole uscivano più veloci dei suoi pensieri; quando camminava, correva. Oggi riposa nel cimitero pubblico di Las Vegas, accanto a una pietra pallida. Ha vinto tutto quello che si poteva vincere ma non ha mai posseduto davvero neanche la propria felicità.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura