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Su Messi evitiamo la retorica
12 ago 2021
12 ago 2021
Il trasferimento ha riesumato la vicenda Superlega.
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La purezza non esiste, ragazzi, toglietevi ogni illusione, la vita è una merda

Roberto Bolano, I Detective Selvaggi

Partiamo da un presupposto. Quasi a nessuno piace vedere Lionel Messi con la maglia del Paris Saint Germain. Probabilmente neanche a Messi piace guardarsi sulle prime pagine dei giornali francesi –«Ici c’est Messi» ha titolato L’Equipe – lo immagino che distoglie lo sguardo come un vampiro di fronte al crocifisso. Certo in quelle foto sorride, ma che altro poteva fare in fondo, mica è stato rapito. Messi sorride come una persona finalmente matura ma anche rotta per sempre al proprio interno, sradicata due volte, immensamente e disperatamente libera, un essere umano in carne e ossa insomma con tutte le contraddizioni del caso. 

Non giudico Messi, anche se non mi piace la scelta che ha fatto. Il fatto, però, è che ad eccezione dei tifosi del PSG – neanche tutti, considerando che una parte di loro contesta la proprietà qatariota dal principio – e tolte alcune persone che probabilmente starebbero nelle dita di due mani, tra cui ovviamente Nasser Al-Khelaïfi, a nessuno può piacere questo passaggio epocale. Voglio dire, il più forte giocatore di sempre, o comunque uno dei pochi che può entrare in una discussione sul tema, usato come un trofeo vivente per decorare le strade di Doha, simulacro del potere e della vanità di una famiglia sovrana del golfo persico.

Al tempo stesso sento il dovere di mettere in chiaro un paio di cose, rispetto al discorso comune che, soprattutto in Italia, stiamo facendo in questi giorni.

1. «In effetti, vedi, il calcio non è del popolo»

Se pensavate che i calciatori fossero mossi dai fili del romanticismo, e i club europei più facoltosi avessero a cuore il “bene comune” del sistema tutto, be’ dovete ricredervi. Non gliene potrebbe fregar di meno del romanticismo o della tenuta del sistema. Certo, non dovreste scoprirlo adesso, in fondo non è nulla di diverso da quello che qualche decennio fa facevano i presidenti italiani. Non sarebbe giusto protestare adesso perché al posto di un imprenditore brianzolo, mettiamo, o marchigiano, romagnolo, provenzale, catalano, madrileno, cresciuto sotto i bombardamenti a Berlino, o Londra, o quello che volete voi, non sarebbe giusto protestare perché oggi, dicevo, al loro posto ci sono i nuovi ricchi, gli emiri, gli oligarchi. Sarebbe, come dire, doppiamente ingenuo. Quello che provano a fare in fin dei conti è quello che si è sempre fatto con il calcio: infilarci dentro più soldi possibile, come fosse un materasso, fino a vincere trofei, o fino a che il materasso esploda.

Ovviamente non esisteva una singola persona che pensasse, prima che io scrivessi queste righe, che il calcio è, o sia mai stato, del popolo. Quella del calcio del popolo è una battuta estrapolata dal discorso con cui Ceferin ha chiamato alle armi i tifosi dopo l’annuncio della Superlega. Tifosi che, in effetti, sono scesi in strada per protestare contro la Superlega, anche se non avevano creduto a mezza parola del discorso di Ceferin. Quella del calcio del popolo, cioè, è un artificio retorico maldestro che ha fatto tutto il giro ed è entrato nella retorica di chi la Superlega voleva sostenerla. Quindi chi scrive “ecco il calcio del popolo”, sotto ogni foto disponibile di Messi su Instagram e Twitter e Facebook, non sta parlando a nessuno. Perché nessuno – davvero nessuno – aveva creduto alle parole di Ceferin.

Non so se c’è davvero bisogno di specificarlo, ma si può essere contrari all’idea di una lega circoscritta a un numero fisso di club, senza promozioni e retrocessioni, con lo scopo di dividersi eventuali entrate di sponsor e tv (che sarebbero in ogni caso da verificare) e accentrare tutti i migliori giocatori, e al tempo stesso non approvare la gestione della Uefa durante il periodo di presidenza di Ceferin, che però non essendo il proprietario della Uefa, nel 2023 dovrà passare le redini a qualcun altro. Messo in chiaro questo, andiamo avanti.




2. Ecco come si sentono i tifosi delle squadre “normali”

Leo Messi è arrivato a Parigi dopo Donnarumma, Wijnaldum, Hakimi. Dopo che il Manchester City (di proprietà di un’altra famiglia sovrana del golfo persico) ha acquistato Jack Grealish per un centinaio di milioni di sterline. Poco prima che Lukaku passi ufficialmente al Chelsea per una cifra analoga. Con Harry Kane sul piede di guerra e Pogba in scadenza. In un contesto di deregolamentazione del Financial Fair Play in cui le tre o quattro squadre con più soldi possono tranquillamente inflazionare gli stipendi dei giocatori migliori togliendoli di fatto dal mercato.

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È comprensibile che ci sia delusione, specie da parte dei tifosi dell’Inter che dopo aver vinto lo Scudetto hanno perso i due giocatori più di valore in rosa. Ma fermo restando che questo genere di squilibri fa parte del calcio da quando il primo giocatore è passato da una squadra a un’altra con più soldi, a inizio novecento o fine ottocento probabilmente, va detto soprattutto che sarebbe rimasto anche in un’ipotetica Superlega (la povertà è un concetto relativo), in cui per giunta era previsto una sorta di Financial Fair Play. Il paradosso, anzi, è che si invochi la Superlega indignandosi per un’eventualità – quella di un calciatore con una storia di lealtà in un club, che lo lascia per andare in uno che gli paghi uno stipendio insensato – che la Superlega stessa avrebbe reso semplicemente istituzionale. Non ci sarebbe stato giocatore che quei dodici, o nove, o tre club, non avrebbero potuto convincere a sorridere per le foto il giorno della presentazione, magari dopo aver pianto nella conferenza di addio.

Anzi, diciamo che per molti club, e molti tifosi, è già così, è sempre stato così. Per moltissimi appassionati l’idea di veder uscire un giocatore eccezionale dal proprio vivaio, o di veder migliorare un giocatore al punto da diventare appetibile sul mercato, si accompagna con la consapevolezza che prima o poi dovranno vederlo con una maglia diversa. È solo questione di quale maglia e quando. Sono poche, anzi, le squadre emerse dalla mediocrità per vivere cicli più o meno lunghi di vittorie e successo economico, e quasi tutte prima o poi hanno dovuto fare i conti con un ritorno alla normalità. Per l’Inter e il Barcellona – sono solo due esempi – dover vendere o non potersi permettere uno stipendio da trenta e più milioni l’anno, è una parentesi di tipo opposto, un po’ di normalità in una storia di successi e ricchezza che qualsiasi tifoso non può neanche sognare per la propria squadre. Anche questo è esattamente quello che si diceva ad aprile, quando all’anatema “il calcio sta morendo” si rispondeva “e perché invece non provate a ridimensionarvi?”. Perché fa male, ecco perché.




3. Quella di PSG e City non è una Superlega mascherata

È difficile sostenere che in Ligue 1 ci possa essere competizione con questo PSG, ma in fondo era difficile sostenerlo anche lo scorso anno, ma non hanno vinto né il campionato né la Supercoppa, questa pochi giorni fa, contro un “normalissimo” Lille. Così come non è detto che il PSG vinca la Champions League quest’anno, o che la vinca il City di Guardiola nonostante si sia rafforzato con Grealish. Il bello di non avere una Superlega è proprio questo. È ovvio che le squadre con più soldi hanno maggiori possibilità dell’Atalanta, per dire, ma non hanno niente di garantito in partenza. Provate a immaginare cosa succederà se, si fa sempre dire, il Paris Saint-Germain dovesse uscire proprio contro una squadra come l’Atalanta. Al tempo stesso, è già meno improbabile che l’Atalanta batta o arrivi sopra in campionato a ciascuna delle tre “super squadre” italiane, per questo in ogni caso quella attuale è un’ingiustizia inferiore.

Ma non è neanche questo il punto principale. Quando lo scorso anno sono arrivate in semifinale quattro squadre potenzialmente parte della Superlega qualcuno ha detto che, di fatto, è come se ci fosse già. In realtà è interessante notare che siano arrivate in finale le due squadre che per prime sono uscite dal progetto, che sono anche quelle che meno avevano bisogno di farne parte. La narrativa secondo cui Ceferin abbia convinto con la sua retorica i tifosi e i dirigenti di alcune squadre è semplicemente falsa. E copre la vera questione di fondo al fallimento della stessa Superlega: che sta, appunto, nella differenza di motivazioni tra i club partecipanti. Ed è paradossale che si torni a parlare di Superlega quando i trasferimenti di Messi, Lukaku, Hakimi, Donnarumma (e chissà quanti altri in futuro) dovrebbero riportare in superficie proprio questo aspetto della cosa.

Ovvero: è esattamente per evitare situazioni del genere , almeno nel breve periodo, che il Barcellona era – lo è ancora, anzi, e il caso Messi è legato a doppio filo alla questione – disperatamente interessato alla realizzazione di una lega chiusa, e per cui l’Inter aveva aderito volentieri. Ed è proprio perché non avevano un vero bisogno della Superlega che Chelsea e City si sono tirate indietro appena sentito puzza di bruciato, e che il PSG non ha aderito dal principio.

Capisco che per alcuni tifosi mantenere la competitività della loro squadra, o contrastare altre squadre a loro antipatiche per qualche ragione (magari anche giusta), è una questione fondamentale, ma la Superlega proponeva un sacrificio di quasi tutti gli altri club in nome di tale competitività tra l’élite. Una svalutazione del valore di tutte le altre competizioni, lo spogliamento possibile, quasi certo, di tutte le rose dai propri giocatori migliori, per conservare in buona salute, almeno per un po’, tre squadre in Italia, tre in Spagna, sei in Inghilterra, e un paio di fortunate che avrebbero trovato il biglietto di invito in una tavoletta di cioccolato.

Oltretutto non c’è niente di episodico, o di dato per diritto divino, nel successo della Premier, in cui i presidenti ricchi (almeno una buona parte) sono arrivati attratti da un prodotto che era già considerato come il migliore, dopo un’evoluzione di quasi trent’anni che ha toccato le infrastrutture, gli staff e le dirigenze di praticamente tutte le squadre. Ma il calcio inglese non è solo quello delle big six o della Premier League, poggia su una piramide solida, profonda, che arriva alla Sunday League e ai campi di erba sempre bagnata con i chioschi che vendono birra a pochi metri dalla linea laterale. Se proprio si volesse seguire quell’esempio, senza considerare gli aspetti negativi (l’esclusione delle fasce di pubblico più povere, gli squilibri che anche loro si portano dietro), non si può non tenere conto di una cultura calcistica magari auto-riferita ma comunque trasversale e in cui alcuni valori non negoziabili, e lo dimostrano i tifosi scesi in strada a protestare, magari proprio quei tifosi che non possono permettersi un abbonamento.




4. Il campo non mente

Non sto cercando di dire che quindi è tutto normale, non c’è niente da vedere, circolare. Anzi, il trasferimento di Messi ha un sapore particolarmente amaro. Per carità, il PSG aveva già Neymar e Mbappé, e il lustro dei Mondiali del prossimo autunno, ma Messi è, per dirlo con poche parole, un pezzo di storia del calcio. La bolla che si sta creando, con degli stipendi fuori mercato tranne che per pochissimi club, è preoccupante, soprattutto considerando che sembra la sola risposta di cui è capace la Uefa al tentativo di Superlega (oltre al nuovo formato di Champions League che era già un forte compromesso). Insomma, ci stiamo comunque allontanando da un’idea di calcio davvero sostenibile ed equo.

In realtà in questo marasma di opinioni e retoriche opposte sembra esserci un punto in comune: si direbbe cioè che se siamo tutti d’accordo che questo genere di operazioni non sono quello che vogliamo. Ma allora, se davvero vogliamo un sistema più equilibrato (o etico, perché no, non è mica una parolaccia), potremmo iniziare a fare pressione tutti nella stessa direzione: verso una riforma, o una serie di riforme, che ridistribuiscano diversamente i ricavi di coppe e campionati, e che comprendano almeno alcune delle misure che equilibrano le leghe chiuse tipo Nba. Non è semplice, ma qualcosa di meglio di un Financial Fair Play si può fare per limitare investimenti troppo importanti da parte di proprietari che sono anche piccoli Stati interessati soprattutto al potere politico del calcio. Bisognerebbe smettere, però, di fare gli interessi delle nostre squadre del cuore e, se si tratta di una delle più ricche del campionato, essere disposti a rinunciare a qualche privilegio.

E poi resta il campo, dove non sappiamo come farà Pochettino a gestire i giocatori in rosa e se potrebbe anche venirne fuori una squadra sublime, di certo non le verrà perdonata la minima fragilità. Una squadra contro cui praticamente ogni avversaria, tolto appunto il City e magari il Chelsea, giocherà per difendere l’onore del calcio (quell’onore che in realtà non ha mai avuto), sostenuto da praticamente i tifosi di tutte le altre squadre (che per una volta possono sentirsi dalla parte del giusto). Se il PSG vincerà la tanto desiderata Champions League avrà fatto il minimo indispensabile. E sarà comunque troppo tardi, gli emiri l’avranno pagato troppo caro in ogni caso, quel pezzo di metallo. Cosa viene dopo non possiamo saperlo, ma la vanità degli sforzi di Nasser Al-Khelaïfi non è mai stata tanto evidente.




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