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Cosa significa il successo dell'Atalanta per il futuro del calcio italiano
02 gen 2025
Una storia che sembra rispondere a una domanda complessa: come hanno fatto le squadre italiane a rimanere competitive in Europa?
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14 min
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IMAGO / NurPhoto
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Il 2024 del calcio italiano ci ha offerto due situazioni inattese: la storica vittoria dell'Europa League da parte dell’Atalanta, e l’ottenimento dei cinque posti nella nuova Champions League, grazie al secondo posto stagionale nel ranking UEFA per club. Entrambe, se analizziamo il successo dell’Atalanta per le vicende più ampie che rappresenta, sembrano andare in controtendenza rispetto a una visione declinista del nostro calcio, preponderante fino a pochi anni fa (e forse preponderante ancora oggi).

C’è da dire che parliamo di un fenomeno effettivamente recente. C’è stata una prima fase, databile dalla metà degli anni 2000 fino più o meno alla pandemia, in cui la globalizzazione del calcio europeo è effettivamente coincisa con un profondo e progressivo arretramento della competitività internazionale dei nostri club. Senza avventurarci nell’esame di dati comparativi ormai troppo noti su fatturati e titoli vinti, un riassunto eloquente di questi processi lo si può trovare nell’opera dell’influente economista americano Steven Mandis. Autore nel 2016 di un libro magistrale per accuratezza e completezza d’informazioni sulla trasformazione manageriale del Real Madrid (il club che più di tutti ha guidato la globalizzazione calcistica appena citata), Mandis qualche anno più tardi ha dedicato il suo secondo libro a tema calcistico al declino sportivo ed economico della Serie A, passata in pochi anni da essere campionato dei sogni a malato d’Europa.

La vittoria dell’Atalanta e i cinque posti in Champions League (che potrebbero essere riconfermati anche nella prossima stagione) sembrano invece indicare una nuova tendenza, già manifestata da altri risultati nel periodo post-pandemico. Forse sarebbe affrettato e comunque fuori fuoco parlare di rinascita o resurrezione internazionale del calcio italiano di club, perché non sono mutati i fattori sistemici del declino. Il gap economico della Serie A rispetto soprattutto alla Premier League, ma anche ad altri campionati come la Liga, non si è ridotto negli ultimi anni, anzi. Il movimento italiano soffre ormai un ritardo cronico per quanto riguarda la costruzione di stadi di proprietà, che nell’alta Toscana (regione-faro della cultura calcistica italiana) diventa parossistico, nella perfetta contiguità tra resti archeologici di tribune di anfiteatri di età romana e tribune di attuali impianti di gioco di campionati professionistici (se nella stessa giornata vi capiterà di andare al parco archeologico di Luni e poi allo stadio di Carrara, distanti tra loro pochi chilometri, potrete averne una conferma tangibile).

La partita che recentemente ci ha fatto chiedere se il gap tra l'Atalanta e le grandi d'Europa fosse così ampio.

Non è l’unica ragione del ritardo competitivo della Serie A ma sicuramente il più evidente. Anche il gap nella qualità della governance calcistica tra l’Italia e i principali competitor europei resta molto profondo. Come sa bene chi se ne occupa, il sistema-calcio italiano nei suoi assetti istituzionali vive allo stesso tempo di fratture tra le sue parti, individualismi esasperati e consensi consociativi in molti casi retti da patti di volta in volta aggiustabili, fattori che impediscono riforme profonde, pianificazioni condivise, obiettivi trasparenti, definiti e misurabili.

La capacità di sfruttare leve globali per aumentare la visibilità internazionale del principale campionato italiano, poi, è minima. Certo, c’è stato negli ultimi anni un lavoro di marketing apprezzabile della Serie A per la sua penetrazione nel mercato americano, ma parliamo di risultati non eclatanti. Lo possiamo vedere per esempio in Africa, il vero continente della passione calcistica di questo secolo tanto quanto il Sudamerica lo è stato dello scorso, per numerose ragioni di carattere culturale e demografico. La Serie A degli ultimi anni ha visto come protagonisti assoluti due dei calciatori africani più forti dell’ultimo decennio, Osimhen e ora Lookman, idoli del Paese più popoloso e con i maggiori tassi di crescita economica del continente africano, cioè la Nigeria, senza però che queste vicende sportive abbiano in alcun modo significato l’approfondimento delle relazioni sportive, culturali, commerciali e diplomatiche con quel paese e altri del continente, come invece fa da anni con successo la Premier League.

Uno dei manager che negli ultimi vent’anni più ha influito nel governo delle strategie di confezionamento televisivo della Serie A, Andrea Zappia, da poco più di un anno ha lasciato Sky Italia per guidare Showmax, società sudafricana di streaming che sta portando la Premier League sui telefonini di milioni di africani, a prezzi modici e sfruttando capitale finanziario e tecnologico di un colosso come Comcast. Quest’ultima ha già portato la Premier sugli schermi americani dieci anni fa, con grande successo. Perché adesso non c’è la Serie A in questi processi? Non è un problema solo imputabile al nostro sistema-calcio. Può formare leader adeguati a questi obiettivi di ampia portata un Paese che investe poco nelle università in generale, figuriamoci nei dipartimenti di studi africanistici e/o di studi sportivi, che guarda spaventato al continente africano al più come fonte di minacce migratorie? Non sorprende dunque che non vi siano tracce calcistiche di rilievo nel cosiddetto Piano Mattei, cioè il "progetto strategico di diplomazia, cooperazione allo sviluppo e investimento dell'Italia" in Africa.

Nonostante l’incapacità dell’Italia, in tutti i settori, di farsi sistema, l’Atalanta – come anche l’Inter - ci fa però intravedere una nuova fase della globalizzazione calcistica, in cui il calcio italiano di club sta manifestando segni vitali per niente scontati. L’idea che mi sono fatto è che vi sia un concatenarsi di fattori a cui non sempre viene dedicata la necessaria attenzione.

In primo luogo al momento non sembrano ancora emersi talenti in grado di piegare con la loro presenza la storia del calcio, come successo nel passato recente con Messi e Cristiano Ronaldo. Una situazione che, insieme all’evoluzione stessa del gioco, al cambiamento degli standard atletici e a un approfondimento delle conoscenze tattiche reso possibile anche dalla disponibilità di dati sofisticati, agisce molto più che in passato da potente fattore livellante. Il differenziale di ricchezza odierno tra i principali club stranieri e quelli italiani, rapportato al calcio di dieci o vent’anni fa, avrebbe comportato un divario sportivo sicuramente maggiore a favore dei primi, per la possibilità di accaparrarsi molto più talento. E questo credo perché, a fare realmente la differenza, sembra essere ormai più la capacità di individuare ed estrarre più valore a parità di risorse, che il valore in sé.

In un calcio con meno fuoriclasse, i fattori gestionali, compresi quelli tecnici, contano invece di più. Da questo punto di vista l’Italia sembra avere un vantaggio competitivo da spendere in termini globali, elaborando e trasmettendo cultura calcistica come pochi altri movimenti al mondo. Il Centro Tecnico di Coverciano nel periodo estivo dei corsi UEFA A e UEFA Pro è assimilabile in questo senso alle botteghe artigiane fiorentine medievali o alle scuole artistiche veneziane rinascimentali: un luogo dove si lavora per apprendimento condiviso e imitazione, ci si confronta costantemente sui procedimenti e sulle tecniche, e questo discorrere accompagna tutta la giornata e in potenza tutta la vita professionale delle persone coinvolte, creando effetti tangibili sulla qualità dei manufatti ottenuti. Non è un caso che i corsi a Coverciano siano anche il luogo di formazione degli staff tecnici, in una tribù corporativa che poi condivide conoscenza attraverso la circolazione dei suoi membri, anche estera, e l’apprendimento costante generato, proprio come accade nelle comunità scientifiche. Le competenze non riguardano solo gli allenatori, ma anche altri profili tecnici e dirigenziali, permettendo all’Italia di rimanere competitiva in quella che io chiamo “trasformazione calcistica dei semilavorati”.

Lasciatemi spiegare. Nella produzione industriale la trasformazione dei semilavorati è tradizionalmente un elemento di specializzazione per tante piccole e medie imprese italiane. Una base materiale preconfezionata, sia essa di metallo o legno, viene trasformata attraverso torniture e tagli meccanici in pezzi qualitativamente eccellenti che serviranno poi al montaggio finale del prodotto, spesso assemblato altrove (pensiamo alle tante aziende della filiera dell’automotive che lavorano per grandi marchi esteri). Un ruolo intermedio in cui agiscono competenze sedimentate, qualità artigianale, studio dei dettagli, saperi orgogliosamente tramandati nel tempo, ma in cui c’è anche spazio per l’innovazione. Per condurre questo lavoro basta l’unità-impresa, nel nostro caso l’unità-club, anche senza coordinamento di sistema o aiuto delle istituzioni, che come abbiamo detto in Italia sono merce rara, non solo nel calcio.

Ma cosa c’entra in questo discorso l’Atalanta? Bergamo è oggi il luogo dove più si possono notare questi rispecchiamenti non solo metaforici tra calcio e mondo delle imprese manifatturiere. Sta accadendo all’Atalanta quello che è accaduto a molte aziende italiane che, attraverso le capacità di cui sopra, sono riuscite a crescere reggendo in maniera egregia la concorrenza nel quindicennio di crisi mondiali. L’Atalanta, attraverso il lavoro nel proprio settore giovanile, ha da sempre una vocazione riconosciuta nella trasformazione di semilavorati calcistici, molti dei quali provenienti dal proprio territorio. A questa specializzazione nell’ultimo decennio, con l’avvento di Gian Piero Gasperini, ha aggiunto quella sui semilavorati stranieri, potendo contare via via su materiali di partenza qualitativamente superiori, in parallelo con la crescita dei ricavi del club alimentata dalle continue cessioni, in una logica di economia circolare.

Atalanta e Inter che questa sera si sfideranno a Riyad nella prima semifinale di Supercoppa incarnano sotto tanti aspetti questo ruolo. Entrambi i club possono esibire delle gemme di questa azione trasformativa e migliorativa del semilavorato calcistico, Lookman e Thuram su tutti (e l’elenco sarebbe molto più ampio). Una crescita su cui ha inciso la cultura calcistica italiana, incarnata dall’insieme delle persone che operano su scala quotidiana in questo lavoro di trasformazione, non solo gli allenatori o i direttori sportivi (perché fa parte della trasformazione del semilavorato anche la scelta del materiale su cui poi andare a intervenire), ma anche le tante persone che compongono gli staff tecnici e dirigenziali.

È un aspetto importante da sottolineare questo, per non ridurre tutto al genio di un singolo, specie nel caso di Gian Piero Gasperini, che sicuramente è una figura centrale nella storia dell’Atalanta e del calcio italiano contemporaneo, ma che va letta e inquadrata all’interno di una dimensione collettiva e collaborativa di questo lavoro trasformativo. Può aiutarci in questo esercizio un recente libro di Ian Graham, fisico teorico laureato a Cambridge che ha ricoperto dal 2012 al 2023 il ruolo di responsabile dell’area ricerche del Liverpool, dedicato al racconto interno dei segreti statistici delle numerose vittorie recenti del club inglese. Nel libro Graham insiste a più riprese sulla centralità della dimensione collaborativa tra tutte le figure attivamente coinvolte nella direzione manageriale e tecnica del club. Una proprietà con una visione molto innovativa, il suo lavoro per elaborare modelli di comprensione statistica del calcio da applicare alle scelte di calciomercato, figure calcistiche tradizionali come il direttore sportivo e il responsabile dello scouting e infine, decisivo e unico, il lavoro sul campo di Klopp (e del suo staff), che degli acquisti effettuati si è sempre fidato. È stato il suo team ad aggiungere poi il lavoro trasformativo sul campo, perché nessuno dei grandi campioni del Liverpool attuale, da Salah a Van Dijk, era pienamente affermato al momento del suo arrivo.

Alla luce di tutto questo è chiaro che parlare di "Liverpool di Klopp" non è del tutto corretto, e lo stesso si può dire per l'espressione "Atalanta di Gasperini". Anche a Bergamo infatti c'è una proprietà americana che ha apportato capitali lasciando intatta la struttura organizzativa della famiglia Percassi; un classico direttore sportivo, Tony D'Amico, che ha raccolto la non facile eredità di Giovanni Sartori; e un direttore generale come Umberto Marino, centrale nel rifacimento dello stadio. È l'Atalanta che due anni fa ha strappato all'Inter il più autorevole dirigente del calcio giovanile italiano, Roberto Samaden, ma anche quella di Domenico Borelli, professore di educazione fisica nella sua Crotone e preparatore atletico della squadra ascesa in Serie A nel 2016, portato da Gasperini a Bergamo al momento del suo arrivo e vincitore negli ultimi anni di numerosi premi di categoria come miglior preparatore atletico della Serie A, una storia che descrive meglio di tutti la ricchezza territorialmente diffusa del know how calcistico italiano.

Ma non è l’elenco di nomi la cosa veramente decisiva, perché ogni club ha un organigramma, e i nomi non sono nemmeno tutti, perché in ogni organizzazione conta l’apporto di ogni singola figura, non certo solo dei capi. È il possesso di una cultura organizzativa stabile e condivisa il fattore decisivo nella crescita di status dell’Atalanta, in cui, come abbiamo già detto, è rilevante l’apporto del know how calcistico italiano. Qualcuno dice che quando se ne andrà Gasperini l’Atalanta tornerà al suo ruolo di provinciale. Ovviamente è difficile fare previsioni così a lungo raggio, ma di sicuro è una posizione che rischia di sottovalutare la forza delle culture organizzative. Lo stiamo vedendo proprio a Liverpool, dove Arne Slot sembra poter portare l'eredità di Klopp a un altro livello, ma anche nella stessa Inter, in cui la filosofia gestionale marottiana, da sempre improntata alla coralità e alla stabilità, ha gestito in maniera positiva il post-Conte e il disinvestimento forzato della precedente proprietà cinese.

Il punto è come l'Atalanta, ma anche altri club italiani, siano riusciti miracolosamente a reggere la competizione internazionale. Per dire, il PSG ultra-finanziato dalla geopolitica energetica qatarina e che agli inizi degli anni Dieci si è prodotto in una spoliazione dei talenti calcistici della Serie A paragonabile per certi versi a quelle dei tesori artistici nelle guerre napoleoniche oggi non ha un vantaggio competitivo così incolmabile rispetto ai più importanti club italiani, e solo fino a pochi anni fa questo fatto sarebbe sembrato impossibile.

Non lo è se pensiamo a quanto appena detto. Bayern e Real hanno rispettivamente raggiunto e superato il miliardo di fatturato, cifre quattro volte più grandi e dunque sideralmente più alte di quelle dell’Atalanta, ma in campo la differenza è molto più sottile di quella che c’è nel fatturato. In quel miliardo ci sono ovviamente molti più posti di lavoro e meglio retribuiti, un impatto sull’economia molto diverso, strutture incomparabilmente migliori, strumentazioni scientifiche diverse, ma sul campo non c’è questa differenza abissale. Questo dipende anche dal fatto che la crescita incrementale non è costante, e salire di livello è sempre più costoso mano a mano che si è più in alto, ma di sicuro conta anche il fatto che i club italiani, in qualche modo, siano riusciti a trovare il modo per rimanere competitivi.

Insomma, l’impressione è che nella trasformazione del semilavorato, le competenze artigianali italiane facciano la differenza. Assomiglia più a una strategia di sopravvivenza che a una reale strategia di sviluppo, è vero, ma è comunque qualcosa di meglio del declino analizzato da Mandis dello scorso decennio. Magari questo non permetterà ai nostri club di vincere costantemente la Champions, salvo casi episodici, ma è un fatto che il calcio italiano sia globalmente molto più competitivo del passato recente, e con molti più club. Non è un fatto scontato, in un Paese sottoposto da trent’anni a declino economico, industriale, demografico, formativo, civile, e quindi, di conseguenza, calcistico. E non è un caso che Milan e Roma, i due club strategicamente più lontani in questi anni dal ricorso alle competenze del “made in Italy calcistico”, percepite come superate dai moderni criteri americani di organizzazione e razionalizzazione manageriale applicati allo sport, stiano faticando nei risultati, pur perseguendo un’identica strategia trasformativa del semilavorato. Non è nuovamente casuale che la Roma si sia ora affidata – per disperazione - a uno dei più noti esponenti della tradizione artigianale italiana nel calcio, Claudio Ranieri.

C’è infine un nuovo cambiamento in corso. Abbiamo già detto che la Serie A non riesce ad aggredire i nuovi mercati globali della passione calcistica, e che non abbiamo come sistema Paese la capacità di mettere in campo una guida della globalizzazione come accaduto al calcio inglese e a quello spagnolo. C'è da dire però che questo lavoro di penetrazione globale lo stanno facendo per noi FIFA e UEFA, nello sviluppo commerciale dei nuovi format. I club italiani che hanno fatto il lavoro già detto sui semilavorati, e che grazie a questo sono diventati più competitivi, si trovano oggi a essere beneficiari netti della globalizzazione costruita dalle istituzioni calcistiche sovranazionali. Si tratta di una grande differenza con la crisi degli anni Dieci, quando l’Italia disponeva solo di due posti diretti per la Champions League.

Questa disponibilità di maggiori risorse fa sì che alcuni dei calciatori trasformati e valorizzati poi restino, se non sempre magari più stagioni di quanto sarebbero restati in precedenza, perché ci sono le risorse per remunerarli adeguatamente, impedendo alla Serie A di trasformarsi in una lega di passaggio pura. Un altro effetto collaterale che non ci aspettavamo, e che ha reso il campionato italiano più resistente alla competizione europea di quanto forse ci saremmo immaginati qualche anno fa.

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