Il sumo, com'è facile immaginare, non è uno sport di massa. I “praticanti”, se così possiamo dire, si aggirano intorno a una cifra che va tra le 600 e le 800 persone. E i professionisti veri e propri, quelli che guadagnano qualcosa in più di un rimborso spese, sono appena una cinquantina.
Contrariamente a quanto si possa pensare superficialmente questo non è dovuto a un limite minimo di peso, anche se stare intorno ai 150 kg aiuta. C'è invece un'altezza minima (173 centimetri) e le donne non possono partecipare. Ma la ragione principale per cui il sumo è un ambiente così elitario è la sua struttura iniziatica, così tipica della società tradizionale giapponese. Una struttura che ha al suo apice i cosiddetti yokozuna (solo 72 nell'intera storia dello sport, e appena tre in attività oggi), che sono considerati alla stregua di semidivinità shintoiste - alla faccia di chi lamenta una venerazione eccessiva per gli idoli dello sport occidentale. Forse è per questo che secondo gli appassionati giapponesi, il sumo non sarebbe nemmeno uno sport propriamente detto.
C’è da dire, però, che gli incontri di sumo registrano ascolti altissimi sulla televisione giapponese, le arene sono spesso piene coi biglietti venduti in largo anticipo, e i lottatori più forti sono personaggi nazionalpopolari. Lo scorso agosto, mentre la nazionale di basket giapponese si preparava ai Mondiali disputando un'amichevole contro la Germania, sono scesi in campo i lottatori Hakuho e Kakuryu, rigorosamente in abiti tradizionali, per deliziare la folla con un paio di tiri da tre punti, peraltro di pregevole fattura.
Se tira così, Kakuryu ha un posto di lavoro assicurato dopo il ritiro: chi lo sposta da sotto il canestro?
Nella recente ripresa di popolarità del sumo, in risposta a una crisi che il Giappone ha risolto anche rivolgendosi all'estero (ad esempio, traducendo per la prima volta il sito internet della federazione in inglese), ci sono le due facce di un paese avanzatissimo ma protettivo fino al limite dell'ossessività verso le proprie tradizioni, e che per questo motivo talvolta si dimentica di mostrarsi al mondo. Per molti osservatori occidentali, il lottatore di sumo si identifica con Honda della serie di videogiochi picchiaduro Street Fighter e con Ganryu di Tekken; poco più di un elemento folkloristico. In realtà il sumo è una disciplina tecnica, complessa, e ricca di una storia dove sport e cultura si confondono.
Storia e riti
L'idea di sumo “professionale” emerge nel 1600 quando i samurai vaganti, o quelli rimasti senza padrone dopo i fatti della Battaglia di Sekigahara, presero a cimentarsi in combattimenti di fronte al pubblico per procurarsi una fonte di guadagno. Lo shogunato di Ieyasu Tokugawa, il vincitore della battaglia, garantì due secoli di sostanziale pace e stabilità politica, ma il sistema feudale giapponese non riuscì ad adattarsi all'esplosione urbana e i samurai, ridotti in numero, abbandonarono le caste che non potevano più permettersi i loro servizi: alcuni inseguirono posizioni burocratiche, ma la maggior parte cercò fortuna nelle nuove realtà cittadine, C'è una connessione ininterrotta con l'anima marziale del paese dunque, quella incarnata dalla figura nobile del samurai, ma c'è un legame ancora più antico con la sfera religiosa. Il sumo, una parola che rimanda al verbo strattonare, spintonare, compariva nei rituali shintoisti, in parte prova di forza, in parte danza atta a simulare un combattimento tra l'uomo e il kami, una divinità. Si combatteva per ingraziarsi il favore degli dei e ottenere ricchi raccolti, e soprattutto si invitavano gli spettatori a versare offerte per la costruzione di ponti o la ristrutturazione dei templi.
L'elemento rituale è quello che ancora oggi costituisce l'essenza del sumo, nonché la ragione principale della sua popolarità in patria. Per quanto le grandi fedi monoteiste non abbiano mai attecchito in Giappone e la pratica religiosa sia una rarità (il 40% della popolazione non si riconosce in una religione organizzata), lo shintoismo – la religione politeista e animista nativa del Giappone - è sopravvissuto sotto forma di superstizioni nobilitate dalla memoria condivisa, un immaginario popolare che non si limita ai fotogrammi turistici dei templi ma che contempla tanti, piccoli rituali quotidiani.
Partiamo dai protagonisti. Il lottatore di sumo, detto genericamente sumotori, appena intraprende la professione viene definito rikishi, e da quel momento sarà obbligato a portare la capigliatura dei samurai, con la crocchia annodata sulla testa (chonmage), senza mai passare dal parrucchiere: i capelli verranno tagliati, con una sfarzosa cerimonia nel caso dei lottatori più noti, soltanto in seguito al ritiro. Proprio come fosse un attore o un personaggio del wrestling, il rikishi prende un nome d'arte, o shikona: la scelta deve rispettare un rigido elenco di nomi popolari (come il bellissimo Asashoryu, dragone blu) o generici riferimenti a divinità “naturali” (i nomi terminano spesso in -gawa, fiume, -yama, montagna, e così via). Per tutta la durata della carriera, il lottatore deve mostrarsi in pubblico solo con acconciatura e abiti tradizionali, in modo che la gente sappia che è un rikishi, e dovrà comportarsi con onore rispettando la morale dei guerrieri; la federazione è autorizzata a punire severamente ogni infrazione fino a forzare il ritiro.
Per gli yokozuna, poi, onori e obblighi sono ancora più elevati. Rappresentano l'assoluta eccellenza sportiva, ma incarnano anche lo spirito stesso del sumo e la loro condotta dovrà essere esemplare. Una volta promossi, si è yokozuna per la vita, perché è l'unica categoria da cui non si può retrocedere, ma è buona norma che lo yokozuna si ritiri appena le sue prestazioni cominciano a calare (in genere, se non riesce a vincere almeno 8 incontri su 15 in uno dei sei tornei annuali).
L'arbitro, chiamato gyoji, porta un ventaglio che è una reminiscenza di un'antica arma usata dai generali. Indossa vistosi abiti tradizionali e chiama i lottatori sul dohyo con fare teatrale: le sue urla sono un accompagnamento sonoro inconfondibile in un incontro di sumo. Anche gli arbitri sono divisi in ranghi, il cui prestigio si può evincere dai piedi: scalzi, nel caso dei principianti, con calzini e zoccoli per i più esperti.
Il gesto che nell'immaginario occidentale associamo più di ogni altro al sumo, quell'alzare le gambe quasi in verticale e poi appoggiare con forza i piedi a terra, con le mani sulle cosce, prima da un lato e poi dall'altro, si chiama invece shiko e può servire a distrarre e intimorire l'avversario, certo, ma la tradizione vuole che si esegua per allontanare dal campo di battaglia gli oni, gli spiriti maligni. Per lo stesso motivo si sparge il sale, a cui entrambi i lottatori possono attingere al proprio angolo. Ma il momento più spettacolare si celebra prima degli incontri, quando lo yokozuna si presenta nell'arena indossando la sua particolare cintura e accompagnato dal “portatore di spade” e dal “pulitore di rugiada”. Entrambi devono essere lottatori di alto rango, preferibilmente compagni di scuderia dello yokozuna. Il primo porta sul dohyo una vera spada, oggi sostituita da un modello in bambù, che sancisce la sovrapposizione tra lo yokozuna e il samurai. L'altro si occupa, simbolicamente, di aprirgli il cammino sventando eventuali attacchi nemici.
I makuuchi invece, cioè i membri della divisione principale, fanno un ingresso di gruppo suddivisi in due “ali”, destra e sinistra, che tuttavia non rappresentano squadre differenti. Si dispongono in cerchio sul ring ed eseguono una compassata danza rituale, vestiti per l'occasione con i kesho-mawashi, bellissimi grembiuli decorati. La vista di questo “muro” di uomini enormi placidamente disposti in cerchio è tra le più singolari e affascinanti che si possano ammirare in una manifestazione sportiva, così come la cerimonia di chiusura degli incontri, detta yumitori-shiki, in cui un lottatore si esibisce in una danza, stavolta solitaria, impugnando un arco di bambù: era uno dei premi conferiti ai vincitori nel Diciottesimo secolo, e il rito rappresenta la sobria esultanza dei vincitori.
Regole e tecnica
Le regole del sumo sono sorprendentemente semplici e più permissive di quanto non appaia. Il campo di battaglia si chiama dohyo, un ring in argilla sopraelevato e delimitato da una corda, il cui diametro è di appena 4 metri e 55 centimetri. L'incontro comincia quando i due atleti, uno di fronte all'altro al centro dell'anello, poggiano entrambe le mani sul terreno, e finisce quando una qualsiasi parte del corpo – tranne i piedi – di uno dei due lottatori tocca terra o quando il lottatore viene spinto o cade fuori dal cerchio.
I divieti sono quelli consueti degli sport di combattimento: niente dita negli occhi, non si tirano i capelli e non si tenta di svestire il rivale (anche perché, secondo una norma pruriginosa introdotta a inizio '900, se un lottatore perde il proprio perizoma – il mawashi – e si ritrova nudo, perde immediatamente il match) ma oltre a spinte, trattenute e proiezioni si possono usare anche mani e gomiti, con l'unica eccezione del pugno chiuso. Gli incontri durano in media pochi, intensi secondi, e in rari casi di stallo possono spingersi fino al minuto. Con due colossi chiusi in un campo così piccolo, è normale che basti un piccolo spostamento d'inerzia per far sì che uno dei due cada a terra.
La fase preparatoria, però, è spesso più esaltante dell'incontro stesso, grazie alla componente rituale che si mischia al gesto atletico. I lottatori possono temporeggiare prima di mettersi in posizione, fintare la partenza, rialzarsi, e nel frattempo praticare qualche shiko e spargere del sale; sono modi per trovare la concentrazione, ma anche per destabilizzare il ritmo dell'avversario.
Una rapida vittoria per ko, o tsukitaoshi.
Quando l'arbitro dà il via, i due rikishi si lanciano l'uno contro l'altro in un impatto potente, che nel silenzio del pubblico risuona come uno schiaffo. Molti lottatori mulinano le mani, tenendo il palmo aperto, sia per tenere l'avversario a distanza, sia per infastidirlo coi colpi. Se poi la “manata” è particolarmente ben assestata, capita che il rikishi avversario vada giù come se avesse incassato un gancio al mento, e l'incontro si chiuda per KO. Lo yokozuna Hakuho, il più forte e decorato lottatore di sumo in circolazione, è uno specialista di questo tipo di tattica, che alcuni però trovano poco onorevole.
Una perfetta proiezione uwatenage che trasforma la difesa in attacco.
Se entrambi resistono al primo impatto, l'incontro prosegue con un gioco di leve tra i due atleti che abbrancano i rispettivi mawashi e spingono tenendo il baricentro basso: in questi scambi si apprezza tutta la fisicità dei lottatori, dotati di grandi muscoli nelle gambe e nei glutei. Qui la tecnica fa la differenza, e non bisogna pensare al sumo come uno sport meramente “posizionale”, dove chi ha il peso maggiore vince. Non sempre l'atleta più pesante è avvantaggiato: un rikishi come il già citato Hakuho ha un fisico nella media per essere un lottatore di sumo (192 centimetri per 153 chili) ma è capace di dominare avversarsi più imponenti grazie a un'esecuzione impeccabile.
I concetti sono simili a quelli di altre arti marziali giapponesi. La tradizione prevede 48 mosse (kimarite) con cui vincere l'incontro, ma la federazione ne elenca 82. Si dividono in spinta (oshidashi), traino (utchari), proiezioni (ipponzeoi) e sollevamenti (tsuridashi). Si può fare leva sugli arti inferiori e sgambettare l'avversario, lo si può sbilanciare con un'agile schivata. Si possono effettuare proiezioni con varie leve e direzioni, che fanno pensare al judo. Si può persino, ma capita raramente, sollevare l'avversario di peso e depositarlo a terra o fuori dal cerchio. La tecnica gioca un ruolo importante anche nella fase difensiva. I rikishi più abili, ad esempio, sanno resistere coi talloni sopra la corda alla pressione del rivale, per poi ribaltarlo al momento opportuno.
La carriera dei lottatori
La carriera di un sumotori inizia in genere alle scuole medie, quando i giovani più promettenti vengono selezionati e invitati da un maestro (oyakata) per entrare a far parte della palestra (heya). Nella rigida schematizzazione del sumo, di palestre ce ne sono 47 in tutto il Giappone, e raramente subiscono grosse evoluzioni. Per dire, ha fatto notizia l'apertura di una palestra gestita da ex-lottatori mongoli nel 2017.
Nelle palestre la vita è comunitaria, una piccola società a sé stante, una vera e propria scuderia. Si vive in case relativamente piccole per ospitare dozzine di uomini massicci, ma si fa economia con gli spazi. Alla mattina, appena svegli, c'è l'allenamento quotidiano, il keiko, a cui segue il pranzo che è preparato dagli allievi più giovani. A questo proposito bisogna precisare che i rikishi non raggiungono 150, 180, persino 200 kg consumando liberamente junkfood, anzi, hanno un’alimentazione piuttosto controllata. Il chankonabe, la pietanza che mangiano ogni giorno, è infatti quanto di più salutare ci possa essere. Uno stufato di carne di pollo (si evitano animali che camminano su quattro zampe, perché nel linguaggio del sumo è metafora per la sconfitta), pesce e verdure, accompagnato da riso bianco.
Il punto è ovviamente la quantità. Per i capi della scuderia, far ingrassare gli atleti è una missione di primaria importanza e quelli con gli stomaci più capaci arrivano ad assumere 10mila calorie al giorno, mentre i più giovani e i meno dotati, nonostante gli incoraggiamenti, si fermano in genere a 6mila. Dopo il pranzo, i lottatori dormono tutti insieme, sui tatami, nella sala comune. Si ritiene che dormendo subito dopo il pasto il cibo si trasformi in massa più rapidamente. Come testimoniano gli allenamenti giornalieri, però, la massa muscolare è ancora più importante dei chilogrammi e sotto la patina di grasso si intravedono corpi robusti. C'è chi paragona i rikishi ai defensive lineman del football americano, sebbene meno mobili, ma la potenza espressa quando spingono con le gambe non dev'essere da meno. Una vita così estrema obbliga i lottatori a pagare una tassa quando avanzano con gli anni: l'aspettativa di vita media di un sumotori è infatti di 65 anni, circa 10 in meno della media nazionale. Comunque meglio dei giocatori di football della NFL, per restare nel paragone, che si fermano tra 53 e 59.
I rikishi si suddividono in dieci categorie, ma soltanto le prime cinque rientrano nei makuuchi, i professionisti con stipendi più corposi e match in diretta nazionale, fino al rango di ozeki che è condizione necessaria per salire a yokozuna. Promozioni e retrocessioni vengono decise dalla federazione sulla base dei risultati dei sei tornei annuali, non uno di più. Tre si tengono a Tokyo, nella Ryogoku Kokugikan, gli altri a Osaka, Nagoya e Fukuoka. Le regole di questi tornei sono relativamente semplici: durano due settimane, ogni lottatore è chiamato a disputare un incontro al giorno, e quello che avrà ottenuto il maggior numero di vittorie conquisterà il trofeo.
Gli idoli
Uno degli yokozuna più famoso in tempi recenti è Taiho. Morto nel 2013, Taiho resta probabilmente il lottatore più amato in patria. Raggiunse il rango di yokozuna a soli 21 anni e portò a casa 22 tornei, collezionando 45 vittorie consecutive tra 1968 e 1969 (pochi si sono avvicinati al record assoluto, 69, di Futabayama negli anni '30). Taiho è anche il primo volto ad aver esportato il sumo in occidente. L'apice della sua carriera coincide proprio con gli anni dei tumulti giovanili che cambiarono la società europea e toccarono, di riflesso, anche quella giapponese. La successiva apertura di prospettive globali portò l'occidente a interessarsi ad alcuni elementi della tradizione giapponese che fino a quel momento erano rimasti isolati, e al tempo stesso i rikishi iniziavano ad allargare il proprio raggio di popolarità, da ingessate figure semi-religiose a idoli della cultura pop, proprio in contemporanea all'apertura delle prospettive globali che seguì i fatti del '68.
Memorabile anche Chiyonofuji, attivo negli anni '80, capace di imporsi ai massimi livelli nonostante un peso di “soli” 120 kg grazie a uno stile carismatico e a una fortissima mano sinistra, che i commentatori chiamavano “la presa della morte”. Le sue imprese ispirarono anche un manga, Kinnikuman, ambientato nel mondo del sumo con un protagonista, Wolfman, che prendeva in prestito il soprannome di Chiyonofuji, lupo, dovuto al suo stile aggressivo e alle espressioni ferine. I suoi incontri raggiungevano il 65% di share in televisione, un record che probabilmente non sarà mai battuto, se consideriamo che l'incontro più atteso dell'ultimo yokozuna giapponese, Kisenosato, ha raccolto “solo” il 25%. “Un uomo piccolo che sconfigge un gigante”, dicevano i commentatori dell'epoca, “rappresenta l'emozione più grande del sumo; ci ricorda quando la nostra piccola nazione sconfisse la Russia nel 1905”. Negli anni che segnarono l'apice della popolarità del sumo in patria, Chiyonofuji ricevette 43 richieste per comparire in campagne pubblicitarie, ma ne accettò solo cinque.
Poi, dal 1993, un drastico cambio di rotta. Tra gli ultimi nove yokozuna ci sono infatti solo tre sono giapponesi mentre gli altri sei sono tutti stranieri. Nonostante la disciplina sia del tutto nipponica, infatti, non c'è nessuna regola che vieti a chi non è nato in Giappone di competere nei dieci ranghi del sumo, se trova una palestra che lo accompagni all'attività agonistica.
Il primo anello di congiunzione col mondo esterno è rappresentato dalle Hawaii; relativamente vicine all'estremo oriente, tanto che le isole sono meta abituale di gite scolastiche e aziendali, con un'attiva comunità nippo-americana. Il primo a compiere il salto fu Takamiyama, negli anni '80. Dopo una decorosa carriera in Giappone, Takamiyama torna a Honolulu dove recluta Chad Rowan, un promettente cestista di 203 centimetri. Lo porta con sé in Giappone, dove prenderà il nome di Akebono (letteralmente “nuova alba”), e lo trasforma in uno dei yokozuna più incredibili di sempre. È un momento cardine nella storia del sumo. Akebono è lo yokozuna più alto e pesante di sempre, con 233 kg. Vederlo muoversi sul dohyo è semplicemente spettacolare, e le sue battaglie coi rivali giapponesi Takanohana e Wakanohana richiamano per la prima volta l'attenzione delle tv internazionali. Dopo il ritiro si dedicherà a kickboxing, arti marziali miste e pro wrestling, tra cui una memorabile (decidete voi se in senso positivo o negativo) sfida a Wrestlemania contro Big Show. La sua eredità sarà raccolta da Musashimaru, hawaiiano anche lui, più basso di Akebono ma – incredibile a dirsi – ancora più pesante.
Akebono e Musashimaru, i due giganti hawaiiani uno contro l'altro.
Poi arrivano i mongoli, che iniziano a praticare sumo nella capitale Ulan Bator. È un'invasione, se rapportata alle cifre bassissime dei praticanti del sumo, e soprattutto un’evoluzione brusca dell’intero movimento, data l’aggressività che contraddistingue i rikishi mongoli. Nel giro di 14 anni Asashoryu, Hakuho, Harumafuji e Kakuryu raggiungono il grado di yokozuna, e molti altri gravitano nelle categorie inferiori.
Hakuho, in particolare, si sta affermando come il rikishi più forte di sempre: 42 tornei vinti, record assoluto, e una carriera eccezionalmente longeva – come conferma il dominio all'ultimo torneo di marzo, con 15 incontri vinti e zero sconfitte. Ma non a tutti i giapponesi, che hanno un problema storico ad assimilare gli stranieri, piacciono i modi degli yokozuna mongoli, a loro dire poco rispettosi della sacra etica dello sport. Asashoryu, che è mancino, accettava ad esempio i premi e stringeva le mani con la sinistra, una pratica poco felice perché la tradizione predilige l'uso della destra: a inizio incontro va offerta all'avversario col palmo rivolto verso l'alto, per mostrare che non si impugnano armi.
Hakuho è semplicemente uno degli uomini più forti e uno degli artisti marziali più pericolosi del pianeta.
C’è da dire, però, che recentemente il sumo ha attraversato una delle fasi più nere della sua storia, anche per via di alcuni rikishi che hanno macchiato “l’onorabilità” dello sport – lo stesso Asashoryu è costretto al ritiro nel 2010 quando prende parte a una rissa fuori da un nightclub di Tokyo, così come Harumafuji nel 2017 dopo aver attaccato un collega e connazionale fuori dal dohyo.
Ma soprattutto, nel 2011 il sumo è travolto dallo scandalo degli incontri truccati, che coinvolge alcuni lottatori di punta come Yamatoyama, il più pesante rikishi giapponese. Di lì a poco cominciano a palesarsi i legami tra le palestre di punta e la yakuza, la mafia locale, che si premura di riservare i posti in prima fila – quelli inquadrati più spesso dalle telecamere – ai propri boss. Una forte scossa di terremoto che finisce per mettere il sumo sotto la lente d’ingrandimento della stampa e dell’opinione pubblica. Iniziano ad emergere gli eventi di nonnismo e bullismo, accettate tacitamente fino a pochi anni prima, praticate nelle palestre e rese famigerate in tutto il paese dopo la morte di un allievo diciassettenne, nel 2008, in seguito alle percosse subite dal capopalestra, l'ex-lottatore Tokitsukaze.
Il contrasto tra le radici tradizionali del sumo e la spinta innovativa del mondo contemporaneo si è reso ancora più palese nel 2018, quando il sindaco di Maizuru, nei pressi di Kyoto, ha avuto un malore e si è accasciato mentre introduceva un incontro. In quel momento due donne sono accorse sul dohyo per soccorrerlo, istintivamente, venendo meno alla regola che gli proibisce di entrarci. L'arbitro ha cercato di scacciarle con le braccia, nell’estremo tentativo di difendere la tradizione, andando incontro però alla censura della federazione, che ha così mandato un importante segnale di apertura.
Nel 2012 l'interesse dei giapponesi per il sumo tocca il minimo storico: pochi ascolti in tv, molti posti vuoti negli stadi, pochissimi giovani che si avvicinano alla disciplina (solo 55 applicanti per diventare rikishi). E pensare che pochi anni prima il sumo cercava il riconoscimento del CIO e ambiva a diventare sport olimpico.
Alla fine, però, la politica di apertura della federazione ha avuto la meglio. Dopo 19 anni dall’ultimo, il mondo del sumo è tornato ad abbracciare uno yokozuna giapponese, Kisenosato, sebbene costretto dagli infortuni a un precoce ritiro nel corso di quest'anno, mentre i giovani Endo e Ichinojo scalpitano alle sue spalle (anche se quest'ultimo è mongolo).
Oggi il sumo si promuove via internet, sulle televisioni e sui social network in lingua inglese – una banalità, a prima vista, ma una novità enorme per una disciplina così tradizionalista – sfrutta l'immagine pubblica dei lottatori in maniera moderna, e ha spinto per rendere gli spazi intorno a Ryogoku, la mecca del sumo, un'area turistica dove tutti possono assistere a un allenamento mattutino, vestire gli abiti dei sumotori e assaggiare il chankonabe.
Il resto del mondo
A beneficiare di questa new wave della federazione giapponese sono anche i paesi extra-asiatici, quelli est-europei in primo luogo. Negli ultimi anni hanno bazzicato tra i ranghi del makuuchi l'estone Baruto, il ceco Takanoyama (piccolissimo, appena 100 chili, ma letale), il bulgaro Aoiyama, addirittura un egiziano, Osunaarashi.
Manca, però, ancora un europeo a conquistare il titolo di yokozuna. Il principale candidato è Tochinoshin, al secolo Levan Gorgadze, georgiano, 192 centimetri e 177 kg, che impressiona per la struttura fisica più muscolosa dei rivali – s'intravede addirittura una parvenza di “tartaruga” addominale. Nei primi tre tornei del 2018 vive il suo momento di grazia, con una vittoria assoluta e un secondo posto, mettendo in carniere anche una prestigiosa vittoria su Hakuho (la prima in 26 incontri). Guadagna così la promozione a ozeki, ma poi un infortunio lo costringe a interrompere la striscia. Al momento sta faticosamente risalendo la china e rimane nonostante tutto uno dei lottatori più interessanti per il futuro.
Esiste un sumo anche al di fuori del ritualizzato mondo giapponese, insomma, con tornei internazionali divisi per categorie di peso, aperti alle donne e focalizzati sulla componente agonistica. In Italia la disciplina è gestita da una costola della Federazione Italiana Judo Lotta Karate Arti Marziali, e i risultati sono di tutto rispetto: due medaglie agli Europei e buoni piazzamenti agli ultimi Mondiali disputati a Taiwan.
Magari i giapponesi non staranno vedendo proprio di buon occhio queste ultime evoluzioni, ma è probabile che questa nuova globalizzazione del movimento possa aver salvato il sumo da una crisi che solo fino a qualche tempo fa sembrava irreparabile.