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Super Freak
17 feb 2016
Il premio di rookie dell’anno è solo il primo passo: Karl-Anthony Towns è un futuro MVP.
(articolo)
14 min
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Difficilmente un qualsiasi tifoso dei Minnesota Timberwolves si dimenticherà dei playoff del 2004.

Quella squadra sembrava avere tutto per riuscire non solo a passare il primo turno, che per anni è sembrato un ostacolo insormontabile, ma anche per poter arrivare al titolo NBA. C’era il miglior Garnett di sempre, fresco dell’assegnazione del titolo di MVP della stagione regolare. C’era una squadra finalmente profonda e al livello della loro stella. C’era un allenatore, Flip Saunders, che sembrava avere tutto sotto controllo. Ma soprattutto c’era il primo posto nella Western Conference, davanti ai Los Angeles Lakers dei quattro Hall of Famers (Kobe, Shaq, Payton, Malone) impegnati a capire come sopportarsi tra di loro. Come succede spesso però la sfiga non fa sconti a nessuno — tantomeno ai T-Wolves che persero Sam I Am Cassell per gran parte delle Finali di Conference proprio contro quei Lakers. E addio sogni di gloria.

Ma c’è un altro motivo per cui quei playoff rimangono indimenticabili per i tifosi di Minnesota: è stata la loro ultima apparizione in post-season. Da quel momento sono passati 12 anni in cui la franchigia è gradualmente passata da essere una seria contender a una vera e propria macchietta, partendo dall’esonero di Flip Saunders nella stagione successiva alla cessione di Kevin Garnett ai Celtics, fino ad arrivare alla scellerata gestione di David Khan di scelte e trade in sede di Draft.

Il periodo Khan credo faccia male anche a chi non ha grande interesse nelle sorti della franchigia

Anche quest’anno i T-Wolves si stanno avviando verso l’ennesima stagione senza playoff e raggiungeranno al secondo posto di ogni epoca i Golden State Warriors ’94-’06. Ma rispetto al recente passato, la luce in fondo al tunnel sembra finalmente più visibile. Prima di lasciare questo mondo — sconfitto nella lotta contro un tumore diagnosticatogli al termine della scorsa stagione — Flip Saunders è riuscito a ripulire tutti gli errori causati dal suo predecessore, dando nuova vita a una franchigia che rischiava di sprofondare nella mediocrità assoluta, mettendo assieme La Coppia Del Futuro, le ultime due prime scelte assolute dell’ultimo Draft. Al talento di Andrew Wiggins, arrivato via Cleveland nello scambio che ha portato Kevin Love alla corte di LeBron, è stato aggiunto Karl-Anthony Towns, altro one-and-done proveniente da una edizione di Kentucky arrivata ad una partita dal completare la stagione perfetta senza sconfitte.

Ma mentre ci potevamo aspettare l’esplosione di Wiggo, diventato per forza di cose il punto focale dell’attacco (stantìo) della squadra di Sam Mitchell, nessuno poteva immaginarsi la precocità con la quale il centro di origini dominicane è riuscito a togliere ogni dubbio sulla sua appartenenza a questa lega — fregandosene di qualsiasi curva di apprendimento, processo di maturazione e adattamento. Un impatto talmente forte non solo dal punto di vista del campo, ma anche e soprattutto per quello che concerne tutto quello che succede fuori, riportando la speranza tra i tifosi per un futuro che non sembra poi così lontano.

A spasso con la storia

Non so quanto possa essere giusto definire “sorpresa” un giocatore scelto con la prima assoluta in un Draft ricco come l’ultimo, ma non c’è nessun altro modo per spiegare l’impatto avuto da KAT fin dal primo minuto in cui si è presentato nella lega. Pronti-via, ha sfoderato due doppie-doppie nelle due vittorie esterne contro Lakers (14 punti e 10 rimbalzi) e Nuggets (28 e 14!), e a due passi falsi casalinghi in cui sembrava ridimensionare quanto fatto vedere in principio, ha risposto con altre quattro doppie-doppie nelle partite successive. Con le sue prestazioni, continue e determinanti seppur in un contesto perdente, ha spiazzato tutti — compreso coach Mitchell, che si è accorto di avere in mano non solo un prospetto eccellente, ma un titolare fatto e finito, un ragazzo che nei primi 4 mesi di carriera NBA è sembrato uno dei migliori rookie mai visti nella lega. E non solo.

Per capire il livello di grandezza che sta raggiungendo Towns nella sua prima stagione, basta fare una semplice ricerca storica sulle sue cifre ottenute sinora: solo 6 giocatori hanno cifre paragonabili al centro dei TWolves nel loro anno di esordio e sono tutti nomi molto familiari a chi conosce anche solo un minimo di storia del gioco: Duncan, O’Neal, Robinson, Olajuwon, Mourning e Sampson. Salta però all’occhio quello che succede alla voce sulle percentuali di tiro: alla pausa per l’All-Star Game, Towns in questa categoria si classificherebbe terzo (54.4%), dietro a Shaq (56.2%) e Tim Duncan (54.9%), che però non hanno certo la frequenza al tiro da fuori dell’ex-Kentucky che finora ha già tentato 48 triple, segnandole con il 37.5%. Quelle tentate dagli altri sei nomi lì sopra messi assieme? Solo 10, e tutte tentate da Duncan.

È questo che rende Towns in un certo senso rivoluzionario nel suo ruolo: combina tutte le caratteristiche fisiche e tecniche di un lungo vecchio stampo e aggiunge anche la dimensione perimetrale, che non comprende solo la pericolosità al tiro dal fuori, ma anche la possibilità di poter mettere palla a terra per battere il suo diretto avversario dal palleggio. Lo Skills Challenge dello scorso weekend è stata esaltato perché — oltre a trovare finalmente un format degno dello spettacolo del sabato — si è visto un centro, un giocatore che dovrebbe avere dimensione prettamente interna, trionfare in quello che dovrebbe essere il pane quotidiano di ogni esterno. Si è festeggiata la vittoria di Towns come se fosse un evento irripetibile e casuale quando invece potrebbe non esserlo affatto. Quella di sabato notte è stata la dimostrazione della capacità del ragazzo di eseguire un palleggio e soprattutto un passaggio della qualità di un piccolo… ma a 7 piedi di altezza.

Prima di sorprendersi dei risultati dell’All-Star Saturday era forse opportuno documentarsi con questo video

An education

Gran parte del merito di questo dobbiamo darlo al padre, Karl Sr., buon giocatore di college e ora allenatore, che fin da quando era piccolo ha cercato di infondere nel figlio tutti i fondamentali del gioco, senza sottovalutarne nessuno, in modo che potesse crescere e modellare il proprio gioco a seconda delle esigenze fisiche e tattiche che si sarebbe trovato di fronte.

Non è una storia come quella di Anthony Davis, cresciuto di 20 centimetri da un anno all’altro e capace di portare le movenze da guardia nel corpo di un lungo. Karl-Anthony lungo lo è sempre stato, dato che a 12 anni misurava già 190 centimetri, ma è comunque riuscito ad adattare ogni aspetto del gioco a un corpo che sembrava ben più predisposto a stazionare nei pressi del canestro.

Come succede a ogni ragazzo in età adolescenziale, non sono mancati gli atti di emulazione verso la stella NBA di turno — e per KAT la cotta scoppiò per Kevin Durant. Cercava di rubargli i movimenti e le giocate, la meccanica e la fluidità, tanto che per un certo periodo intorno ai 16 anni, quando il suo nome iniziava a girare nei ranking dei migliori prospetti liceali, iniziò a concentrare il suo gioco lontano dal canestro, evitando contatti e cercando sempre la finesse, provando a creare distanza con gli avversari dal palleggio o cercando di colpire dalla distanza appena poteva. Dave Turco, suo coach al liceo, assecondò questo momento ma lo portò a lavorare su velocità, equilibrio e uso dei piedi in relazione al ruolo che sarebbe andato a ricoprire tra i pro, mostrandogli i video di Hakeem Olajuwon e Shawn Kemp, veri e propri maestri in quel particolare aspetto.

Nella stesse estate avvenne il primo incontro con John Calipari, che da coach della nazionale dominicana lo volle fortemente nella formazione che giocò il Torneo Pre-Olimpico del 2012 in Venezuela. Una convocazione che portava anche qualche dubbio: per la federazione era il delitto perfetto, dato che riuscì ad accaparrarsi un giovane promettente nato negli USA sfruttando le origini della madre, ma fu un affare anche per Calipari, dato che ebbe la possibilità di poter lavorare con una possibile recluta per la sua Kentucky — cosa che poi puntualmente avvenne.

Il coach italo-americano però ha scritto una pagina importante nella maturazione di Towns. In quella spedizione sudamericana il ragazzo non giocò neanche un minuto, ma ebbe la possibilità di allenarsi e confrontarsi con un All-Star come Al Horford. E non solo: in quell’occasione il coach lo fece lavorare prevalentemente nei pressi del canestro, nonostante fosse a conoscenza delle sue qualità lontano dallo stesso, oltre a potenziare i concetti difensivi insegnati dal padre e a renderlo imponente nella lotta a rimbalzo.

Nella sua unica stagione a Lexington, KAT ha dimostrato di essere un realizzatore in post più che affidabile, ampliando ancor di più la sua gamma di conclusioni e provando solo 8 triple in tutto l’anno, mentre dietro cresceva a dismisura la sua reputazione come difensore intelligente e mobile, formando una coppia insormontabile con Willie Cauley-Stein, ora a Sacramento.

Senza difetti

Chi si aspettava che il salto nella NBA avrebbe portato il suo gioco a subire un duro scontro per fisicità, atletismo e tenuta, ha avuto una bella sorpresa — e ce lo dimostrano ancora una volta i numeri.

In quasi tutte le categorie supera il 60 percentile

Guardando i dati offensivi su Synergy SSD, notiamo che l’unico aspetto che ancora non è riuscito a traslare è la pericolosità come bloccante nel pick&roll. Questo può sembrare un campanello d’allarme — e comunque staremmo sempre parlando di un ragazzo di appena 20 anni — ma molto di quel dato passa dal pessimo stile di gioco offensivo dei Timberwolves, che non permette spaziature ottimali a causa di un eccessivo uso dei long-2s (primi nella lega con 17.7 tentativi a partiti) a discapito dei tiri da 3 (penultimi con 13.9). In poche parole mancano gli spazi per agire, nonostante lui possa segnare virtualmente da qualsiasi posizione.

Da non sottovalutare l’effetto-profondo-rosso nella restricted area: per un giocatore con un’esplosività non così accentuata, Towns dimostra di avere tocco e angoli di tiro buoni per ogni occasione.

Le mappa di tiro difensiva invece non è così sexy come ci aspettavamo, ma i dati di Sport VU in questo caso rincuorano. Towns è il 5° giocatore con più tiri difesi al ferro e gli attaccanti in sua presenza concludono con il 47.8%, cifra non eccellente ma a livello di uno stoppatore come Hassan Whiteside e appena fuori dalla top-10. A rimbalzo difensivo invece fa valere istinti e la grande mobilità segnalandosi al settimo tra i giocatori con più opportunità di rimbalzo (12.6), risultando tra i migliori anche nella conversione dei rimbalzi contestati (28.2%, 6° tra quelli con 10+ opportunità). In tutto questo non va sottovalutata la presenza di Kevin Garnett come mentore, forse il miglior compagno di squadra possibile per apprendere le mille sfaccettature di questo particolare tecnico-tattico.

Il risultato di tutto questo processo di crescita può essere il primo prototipo di 5-tool-center, ovvero un giocatore capace di poter eseguire in maniera naturale tutti i 5 aspetti più importanti del gioco: creazione del tiro, conclusione dalla distanza, capacità di passaggio e lettura del gioco, presenza a rimbalzo, difesa della propria posizione. Un po’ come Draymond Green, un simile profilo te lo aspetti dall’addizione di tutti gli elementi di un quintetto, non da un unico giocatore.

Il ragazzo non sembra avere particolari punti deboli, e ha potenziale per poter migliorare ulteriormente in tutti questi aspetti. La sua capacità di essere adattabile a tutti i contesti e di usare la sua versatilità in tutti i modi possibili, inoltre, potrebbe permettere ai T-Wolves di costruire attorno il roster a lui e trovare più di una soluzione per sfruttarlo al meglio. Come se non fosse già abbastanza rivoluzionario come giocatore, conviene ora segnalare che dell’uomo-franchigia non ha solo il talento, ma pure il carisma.

Nato adulto

Probabilmente chi lo vede per la prima volta in un contesto che esula dal campo potrebbe avere qualche dubbio sull’effettiva pragmaticità di questo ragazzone. Probabilmente sarà colpa di quei grandi occhi a pesce con la palpebra socchiusa che gli danno quell’effetto à-la-Tracy-McGrady, sornione e disinteressato. Oppure di quel vasto campionario di espressioni facciali con cui dà sempre l’impressione di avere un chewing gum in bocca e di fregarsene di ciò che gli succede intorno.

Niente di più sbagliato. Uno dei più grandi pregi di Towns è la capacità di variare il proprio approccio a seconda delle situazioni, trovando la concentrazione giusta in pochi attimi, giusto il tempo di capire in che tipo di ambiente adattarsi.

In questa intervista con Jonathan Givony di DraftExpress il passaggio dallo scherzo al focus sulle domande e sulle risposte da dare è clamoroso per un ragazzo non ancora 18enne.

D’altronde la mano dei genitori non si è limitata solo alla crescita del giocatore, ma anzi si è concentrata molto di più sullo sviluppo dell’essere umano, dell’adulto che sarebbe poi diventato. Karl Sr. e la moglie Jacqueline hanno sempre fatto il possibile per stare vicini al ragazzo, pianificando gli impegni lavorativi intorno ai suoi orari di scuola e allenamento, che fosse per un pranzo veloce o per una partita a NBA 2K alla consolle. Lo hanno cresciuto cercando di evitare di viziarlo o di rendergli tutto troppo semplice, ma al contrario responsabilizzandolo, cercando di fargli capire che bisogna sempre dare il massimo per raggiungere obiettivi concreti, puntando non sulla fame di successo, ma sulla concretezza e sull’abnegazione al lavoro.

Ecco spiegato come mai il processo di adattamento alla NBA è stato così immediato: Karl-Anthony è un ottimo studente, ha chiuso il liceo con il punteggio di 3.6 GPA, si vuole specializzare in kinesiologia nei prossimi anni, ha grande spirito di osservazione e una testa che viaggia sempre a grande velocità, non importa in quale ambito.

Quando da piccolo subì questa crescita di statura inaspettata la prima cosa che fece fu andare alla biblioteca di Piscataway per prendere libri che parlassero di giganti come Shaquille O’Neal e Yao Ming, per capire come erano riusciti a maneggiare quella particolare diversità alla loro giovane età. E quando la famiglia ebbe problemi finanziari, Karl-Anthony si inventò collezionista di coupon riuscendo a catalogare tanti di quei tagliandi da riempire un’intera stanza di casa con tutta la merce scontata, creando una vera e propria dispensa supplementare. Al liceo faceva parte di qualsiasi attività extra-scolastica: giocava a baseball, Ultimate Frisbee e Flag Football, era sempre presente agli eventi e alle iniziative benefiche e per tre anni fece parte del consiglio studentesco

Il suo è un cervello che non smette mai di funzionare: racchiude un numero indecifrabile di personalità diverse che sanno quando uscire allo scoperto, tutte caratterizzate da una buona dose di umiltà e dalla capacità di prendersi in giro da solo, come quando parla di Karlito, il suo amico immaginario — o meglio, il suo alter-ego che lo aiuta a crescere.

Non c’è voluto molto tempo per far sì che la sua spiccata personalità venisse usata per fare di lui il nuovo volto della franchigia. Basta vedere le varie iniziative per portarlo all’All-Star Game, tra cui spiccano il video in stile Shia Lebouf in cui viene ripreso mentre guarda i primi 960 minuti della sua stagione (video fake in cui si nota il loop continuo delle stesse immagini, ma idea comunque da apprezzare) e il promo in compagnia del suo gatto.

Microfonato nella sua partita d’esordio: come vedete è sopraffatto dall’emozione… ma anche no.

In tutto questo può sembrare che questa esplosione possa oscurare l’altra stella in divenire della squadra, Andrew Wiggins, ma in realtà i due sono una delle coppie giovani più affiatate di tutta la NBA. Si conoscono sin dal Nike Hoop Summit del 2013, quando entrambi vennero selezionati per far parte del Team World — e da quel momento è sembrato che tra i due funzionasse già qualcosa, che andava oltre alla condivisione della camera o alle partite infinite a Call of Duty.

È l’ennesima dimostrazione che molte volte gli opposti si attraggono. Wiggo, taciturno e silenzioso, sembra perfettamente a suo agio con l’estroverso e loquace Karl-Anthony; capiscono di essere complementari in tanti aspetti del gioco e sono consapevoli che insieme possono essere l’uno la forza dell’altro — il canadese è il mostro atletico che sta cercando di sviluppare la sua identità in campo, l’altro gli copre le spalle grazie all’enorme fiducia nei propri mezzi.

L’ambiente intorno alla squadra ripone in loro la stessa speranza che 20 anni fa avevano per la coppia Garnett-Marbury, sperando che stavolta possano togliersi soddisfazioni insieme. Il primo obiettivo sarà l’accesso ai playoff del 2017, chiudendo a 12 quell’infame astinenza che si portano dietro. E poi chissà, magari non ci vorrà molto tempo prima di parlare di qualcosa di più importante. D’altronde l’ultima squadra a chiudere con una striscia del genere al momento ha ben altri obiettivi in mente.

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