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La Supercoppa in Arabia Saudita non è una questione di soldi
15 gen 2019
Dopo un decennio di partite giocate all'estero, ne vale davvero la pena?
(articolo)
11 min
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Come tutti ormai sanno, mercoledì 16 gennaio, a Jeddah, in Arabia Saudita, si giocherà la Supercoppa italiana. Lo sanno tutti, e non solo i tifosi di Juventus e Milan o gli appassionati di calcio in generale, perché nelle ultime settimane una nube nera di polemiche si è addensata intorno a questa partita costringendo ognuno a farsi un’idea a riguardo.

In questo caso, la nube nera si è concentrata attorno alla notizia che nel King Abdullah Sports City Stadium, dove si terrà la Supercoppa, ci saranno settori riservati per soli uomini (corrispondenti all’85% della capienza dello stadio), mentre le donne potranno accedere solo nei restanti settori “per famiglie”. Il che, in sostanza, significa che alle donne sarà proibito sedersi in gran parte dello stadio, rilegandole a un ruolo sociale subordinato a quello maschile, e cioè di moglie e madre.

https://twitter.com/vditrapani/status/1080524978259480576

Cose che tutti sanno

Qualcuno avrebbe voluto solo godersi la partita, o pensa che i problemi al mondo siano ben altri; mentre qualcuno magari pensa che siano stati scritti persino troppi articoli moralisti a riguardo. A che serve parlare delle implicazioni etiche che comporta giocare una partita di questo rilievo in Arabia Saudita, ribadendo cose che ormai tutti conoscono?

Per questo non mi dilungherò sulla guerra civile in Yemen, dove dal marzo del 2015 l’Arabia Saudita ha preso le parti del governo nella sua lotta contro la fazione islamica armata degli houthi. Per questo, non parlerò neanche della terribile carestia causata dalla guerra, e delle immani sofferenze che sta comportando, degli oltre 6mila civili morti e dei quasi 11mila feriti negli ultimi tre anni; o dei crimini internazionali che, secondo l’OHCHR (l’ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani), sono stati commessi da tutti gli attori in gioco.

Per questo non parlerò delle nuove leggi anti-terrorismo saudite e di come permettano ogni tipo di discriminazione nei confronti dei cittadini sciiti (l’Arabia Saudita è prevalentemente sunnita); né menzionerò le pene di morte chieste per gli attivisti per i diritti umani, e le torture aberranti sugli uomini e le donne che hanno lottato affinché le cittadine saudite potessero guidare un’automobile.

E non parlerò neanche dell’omicidio di Jamal Khashoggi, il giornalista fatto a pezzi dopo una serie di mutilazioni e torture indicibili nel consolato saudita in Turchia, in quello che è stato con ogni probabilità un agguato organizzato contro uno dei principali critici del regime del Golfo.

Non vale la pena tirare in ballo l’episodio satirico della serie del comico statunitense Hasan Minhaj rimosso da Netflix su pressione del regime saudita e del terribile trattamento a cui sarebbe andato incontro se fosse stato un cittadino saudita. Delle torture, degli stupri, delle umiliazioni, delle sparizioni che vengono inflitte a chi in Arabia Saudita prova a criticare online la casa reale, attualmente capeggiata dal re Salman.

E per le stesse ragioni non racconterò neanche la storia di Rahaf Mohammed Alqunun, la diciottenne ragazza saudita, figlia di un importante governatore del Paese, che ha chiesto (e alla fine ottenuto) asilo politico in Thailandia perché temeva per la sua vita dopo aver annunciato alla famiglia il suo ateismo. La storia di un’adolescente picchiata, chiusa in una stanza per mesi per essersi tagliata i capelli, che riflette la situazione drammatica delle libertà delle donne che, nonostante le recenti riforme, non possono ancora fare tantissime cose senza il permesso del proprio “guardiano” (cioè il padre, il marito, il fratello o lo zio), compreso anche andare in una stazione di polizia e fare una denuncia per stupro.

https://twitter.com/ajplus/status/1083048023687659521

Non parlerò di tutto questo perché sono cose che ormai tutti sanno. E so già cosa si ribatte in questi casi. Si dice che il calcio non ha nulla a che fare con la politica, che non dovrebbe occuparsi di queste faccende. Che non ci si possono attendere gesti eroici dai club, così come i calciatori, in fondo, stanno facendo solo il loro lavoro.

Qualcuno sostiene persino che sarebbe un’ipocrisia maggiore non giocarla, che ovunque si vada ci sarà sempre una qualche ragione per non giocare. Ci sarà persino qualcuno che dirà che alla fine è una cosa positiva, questa partita, che sarà qualcosa che farà bene al calcio italiano, che sarà necessaria alla sua crescita in futuro, che alla fine è tutta una questione di soldi.

Ecco, allora parliamo di questo. Parliamo di soldi.

Di solito si dice che queste partite sono necessarie alla crescita economica dell’intero movimento, mali inevitabili se si vuole evitare che il calcio italiano finisca nell’oblio internazionale, perché forse è con operazioni del genere che un giorno il mondo intero tornerà a preferire la Serie A alla Premier League. Come se scelte del genere potessero veramente far scendere a pioggia soldi nelle tasche dei club, che potranno tornare a comprare i campioni di tutto il mondo come negli anni ’90.

Gaetano Micciché, presidente della Lega Serie A, in un comunicato ufficiale di risposta alle polemiche degli ultimi giorni ha scritto: «Questo trofeo, fin dal 1993 nella sua prima edizione all’estero, è stato il biglietto da visita per esportare e promuovere il calcio italiano nel mondo. Abbiamo giocato questa competizione due volte negli Stati Uniti, quattro volte in Cina, così come in Qatar e in Libia. La scelta di portare il calcio in aree che differiscono per cultura e per tipologie di governo non è una decisione solo italiana, ma ha altri esempi internazionali poiché lo sport ha sempre più bisogno di platee globali per crescere».

Ma resta una domanda di fondo. Anche ammettendo che ci sia una cifra al di sopra della quale sia lecito, o addirittura giusto, che il calcio italiano aiuti un paese come l’Arabia Saudita a dare lustro al proprio prestigio nazionale e a rilanciare la propria immagine internazionale, quali sono i dati oggettivi che ci portano ad avere una fiducia incrollabile nel fatto che giocare la Supercoppa italiana in un paese autocratico e repressivo aiuti economicamente l’intero movimento?

La Supercoppa del 2016, giocata a Doha, in Qatar.

Cosa guadagna il movimento italiano?

Considerando anche quella che si sta per giocare, negli ultimi dieci anni la Supercoppa italiana si è giocata all’estero per sette volte: quattro volte in Cina, due volte in Qatar e quest’ultima edizione, per l’appunto, verrà giocata in Arabia Saudita. Per ognuna di queste partite si presume che le istituzioni sportive italiane abbiano strappato un buon accordo. Ad esempio, la Lega con l’Arabia Saudita ha firmato un contratto che prevede che tre delle prossime cinque edizioni della Supercoppa italiana si giochino nella monarchia del Golfo: e per ognuna di queste partite l’Arabia Saudita pagherà un totale di 7,5 milioni di euro, cioè più del doppio di quanto stipulato in precedenza con la Cina.

Quindi, quando si dice che è “tutta una questione di soldi”, si parla di questi sette milioni e mezzo. E va bene che non ci sono state offerte superiori (ci sarebbe mancato altro), ma siamo sicuri che ne valga la pena? E poi, di cosa si parla veramente quando si allude ai benefici economici che ne può trarre l’intero movimento calcistico italiano?

Innanzitutto va detto che il 90% di quella somma di denaro andrà alle due squadre finaliste, in parti uguali, e solo il restante 10% alla Lega. Ma andando oltre il guadagno immediato, l’idea dietro queste partite sembra essere più di lungo respiro, quella di rafforzare un’immagine riconoscibile del calcio italiano (il famoso brand!) e far appassionare persone di paesi diversi alle squadre italiane. Magari farli diventare tifosi, trasmettere questa passione ai loro figli, spingerli a comprare le loro magliette, e di conseguenza le tv a investire nei diritti. Eccetera eccetera. Penso che sia questo ciò che intende Micciché quando dice che «lo sport ha sempre più bisogno di platee globali per crescere».

Dopo un decennio passato a giocare all’estero, quindi, dovrebbero quanto meno essere visibili i primi risultati di questa politica, no? Anche al di là della caratterizzazione del brand Supercoppa italiana (che vista da fuori assomiglia a un progetto distopico, una specie di Coppa di Sauron in onore della svolta autocratica che sta attraversando il mondo, che celebra il declino delle democrazie atlantiche e l’accentramento dell’economia globale in mano a dittature), teoricamente, a seguito di questo decennio, dovrebbero esserci almeno più persone all’estero che guardano il campionato italiano. In realtà, non è affatto così.

La vendita dei diritti TV della Serie A all’estero, affidata all’intermediario statunitense IMG, sta infatti andando malissimo. Dopo i grandi festeggiamenti di quest’estate, quando i ricavi per questi diritti per il triennio 2018-2021 erano stati più che raddoppiati rispetto al triennio precedente (da 180 milioni a stagione a circa 380), IMG sta facendo una grande fatica a rivenderli e al momento è arrivata a raccogliere appena 280 milioni per la stagione 2018-19 (e questo nonostante un aumento dei ricavi rispetto alla stagione precedente del 16%). Questo vuol dire che a IMG mancano ancora circa 100 milioni per arrivare a recuperare la cifra spesa per la stagione corrente.

Secondo l’azienda britannica di consulenza PwC, la Serie A, con un’audience media del 18%, è ancora oggi il campionato meno visto all’estero tra le cinque principali leghe europee - con l’unica eccezione della Ligue 1 (15%) - lontana anni luce non solo dalla Premier League (nemmeno presa in considerazione), ma anche da Bundesliga (26%) e Liga (41%).

Come sottolineato da Nicholas Gineprini sull’Ultimo Uomo qualche tempo fa, il campionato italiano va particolarmente male proprio nei paesi dove si è giocata in passato la Supercoppa italiana.

Negli Stati Uniti, ad esempio, dov’è il campionato europeo meno visto (meglio solo della Ligue 1, ancora una volta), e dove le cose stanno addirittura peggiorando, con un calo dalla stagione 2015/16 a quella 2017/18 del 26% (un calo che ha interessato anche gli altri principali campionati europei, ma in misura molto minore).

Ma anche in quell’El Dorado dei diritti TV che è la Cina, dove la Serie A è il campionato meno trasmesso tra le principali leghe europee, ad esclusione del campionato francese.

Non bisogna trarre conclusioni affrettate: ci sono sicuramente degli effetti di lungo periodo che devono ancora avverarsi, ma forse scelte così ambigue non si possono giustificare solo con la presunta crescita economica del calcio italiano. Forse al movimento servirebbero anche altre cose per espandersi sui mercati esteri, come ad esempio offrire uno spettacolo di livello, diverso dalle ultime, surreali partite giocate in Qatar e soprattutto in Cina (con campi non adatti, produzioni problematiche e poco pubblico). Forse, nell’analizzare queste strategie, dovremmo prendere in considerazione fattori più complessi, come le scelte geopolitiche dell’Italia nel suo complesso, che sono decise e sostenute da quegli stessi partiti che oggi chiedono la sospensione della partita.

https://twitter.com/beretta_g/status/1081510750408060928

Come ha detto lo stesso Micciché: «Il calcio fa parte del sistema culturale ed economico italiano e non può avere logiche, soprattutto nelle relazioni internazionali, diverse da quelle del Paese a cui appartiene». Quindi, forse, possiamo dire che il calcio italiano non sta pensando solo alla sua crescita, che oltre ai soldi pesano i rapporti diplomatici, in questo caso basati anche sulla esportazione di armi, che l’Italia continua a vendere all’Arabia Saudita (nonostante ci sia più di un dubbio che siano state utilizzate contro i civili nella guerra in Yemen, ma queste sono cose che si sanno).

In questo senso, è vero che la Supercoppa italiana è una sorta di biglietto da visita del nostro calcio. Nell’agosto del 2002 il trofeo si giocò all’estero per la seconda volta (dopo la prima nel 1993, negli Stati Uniti) e anche allora si parlò molto di soldi, che in quel caso erano un milione e mezzo di euro. La partita, tra Juventus e Parma, si tenne a Tripoli, in Libia, su un campo prevalentemente sabbioso che secondo alcuni testimoni oculari era stato dipinto di verde con le bombolette spray. Una scelta controversa, presa probabilmente per via delle buone relazioni tra il governo Berlusconi e il regime di Gheddafi, il cui figlio, El Saadi, era anche diventato azionista di minoranza del club torinese.

In uno stralcio di cronaca di quella partita, scritta il giorno dopo dall’inviato di Repubblica in Libia, si legge: «A un quarto d'ora dall’inizio, lo stadio "11 giugno" (data della cacciata dalla Libia dei militari americani, francesi e inglesi nel 1970) è ancora mezzo vuoto, così gli organizzatori decidono di mettere in saldo i biglietti: da 100 a 30 dinari (cento dinari fanno più o meno ottanta euro), e chi li compra acquista pure l’abbonamento per l’intero campionato. L’occasionissima permette di turare qualche buco, e comunque alla fine la gente c’è, calda, contenta e fischiante (qui per applaudire si fischia), ma neanche l’ombra di una donna: tutte a casa».

Uno dei pochi protagonisti a pronunciare un commento critico sulla partita fu Cesare Prandelli, allora allenatore del Parma, che se la prese soprattutto per la mancanza di tifosi italiani allo stadio. «Si parla tanto di cultura sportiva, si dice che bisogna recuperare i valori, la passione», disse Prandelli «Insomma tutte le cose belle che abbiamo buttato via, e poi proponiamo al pubblico queste cose».

E Prandelli ha concluso con una frase che, a distanza di quasi 17 Supercoppe, molte delle quali giocate all’estero, sembra ancora molto attuale: «In tanti anni siamo stati solo capaci di parlare di soldi».

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