Egregio presidente, stimatissimo amministratore delegato, spettabile rappresentante del Fondo, la nebbia è fitta stanotte su Milano, e su tutto il nord Italia. Insonne come sono ultimamente, sedevo poco fa in balcone e guardavo i tetti e i campanili del centro svaporare nella foschia giallognola. Atmosfera suggestiva, riflettevo, affascinante persino, ma solo perché in cuor mio confido che domani mattina o la mattina dopo ancora tornerà il sereno; la nebbia è perenne solo sui set dei film dell’orrore. E allora come possiamo permettere che continui il film dell’orrore in cui delle donne vengono trattate come cittadini di seconda categoria senza che nessuno alzi la voce per denunciarlo? Diradare la nebbia è sovrumano ma che mostri saremmo se non offrissimo il nostro lume per rischiararla?
Mi riferisco alla condizione delle donne saudite. La Lega Serie A ha annunciato che potranno assistere alla Supercoppa nello stadio di Jeddah senza accompagnatore: è una piccola buona notizia ma proprio per questo dobbiamo alzare la posta in gioco, o comunque mostrare che il nostro supporto alla loro causa va ben oltre le concessioni di un regime in cerca di credibilità internazionale. Complice la pausa invernale non abbiamo affrontato il tema, o forse è stato legittimamente affrontato in mia assenza, ma il Milan tuttora non ha preso una posizione forte e in quanto allenatore credo di poter sollevare la questione, anche se esula dalle mie competenze immediate.
Ho letto un editoriale su un noto quotidiano sportivo, qualche giorno fa, in cui si proponeva di far scendere in campo i giocatori con un fiocco rosa sulla maglietta: FIACCO, altro che fiocco! Come se poi nessuno vedesse nella proposta un tentativo di fare pubblicità al giornale stesso, attraverso il suo colore... Bisogna fare di più.
“Una cosa ha tanti sensi quante sono le forze capaci di impadronirsene”, ho letto una volta: la Supercoppa oggi è il simbolo dell’ipocrisia ma possiamo essere – insieme con la Juventus, se lo vorrà – la forza in grado di cambiarne il senso. “Una nuova forza può comparire e appropriarsi di un oggetto solo se inizialmente si nasconde sotto la maschera delle forze che se ne erano impadronite in precedenza”. Il calcio sarà la maschera per contrabbandare in Arabia Saudita il germe del cambiamento sociale.
Ma forse mi sono scaldato troppo. Non dico di mandare in campo i giocatori con indosso minigonne, borsette e scarpe col tacco, ma incontriamoci. Parliamone. Troviamo una strada.
In fede,
Gennaro Gattuso
Foto di Marco Luzzani / Stringer
La mail partì dal computer dell’allenatore del Milan alle 4.38 del mattino.
Alle 8.51, il rappresentante del Fondo Elliott aveva già risposto:
buongiorno gennaro grazie per tuoi pensieri. bene minigonna e tacchi, non troppo alti per rischio infortuni. ci risentiamo per borsetta dopo confronto con fashion partner
fwp
Dopo una presa di posizione così chiara da parte della proprietà, la dirigenza – altrimenti scettica – si sentì costretta ad allinearsi e accogliere la proposta di Gattuso, o almeno il modo in cui era stata interpretata. Altrettanto scettica si dimostrò la dirigenza della Juventus, quando fu contattata, ma capì che non c'era modo di sottrarsi unilateralmente senza esporre la squadra e la società a una figura da oscurantisti.
Si concordò che i giocatori sarebbero restati in minigonna e tacchi solo per la durata del primo tempo.
Manager e staff di Juventus e Milan non potevano immaginare in cosa si fossero cacciati, e quanto a lungo si sarebbero chiesti come fosse stato possibile prendere decisioni del genere con tanta leggerezza e, soprattutto, con tanta segretezza. Qualcuno esterno alla bolla di groupthink che si era formata avrebbe forse potuto ricondurre tutti a più miti consigli, ma conosceva il progetto solo chi doveva necessariamente conoscerlo.
La segretezza dipendeva in parte dalla necessità di tutelare la partita – i sauditi avrebbero certo revocato i visti alle squadre se avessero saputo di accogliere con tutti gli onori una manifestazione in drag contro il patriarcato – e in parte dalla speranza di molti, se non di tutti i coinvolti, che un qualche piano alto si assumesse la responsabilità di cancellare la protesta. Sperarono fino all’ultimo minuto prima dell’ingresso in campo.
Ho trovato in un archivio online una registrazione della finale di Supercoppa. Immagini sgranate – all’epoca ci sembravano un miracolo di definizione – e niente audio. Grafica in sovrimpressione con la formazione della Juventus. Grafica in sovrimpressione con la formazione del Milan. Panoramica dello stadio dall’ultimo anello: un’ellisse di cielo blu scuro, una costellazione di riflettori bianchi, le tribune piene, il rettangolo di gioco a strisce verde smeraldo scure e chiare. Il primo dettaglio sul pubblico è una donna con il volto interamente coperto dal velo; si vedono solo gli occhi, che forse si specchiano in un maxischermo e per un momento sembrano sorridere. In tribuna vip arrivano Agnelli e consorte, lui si siede accanto a Nedved; si passa una mano sul volto, si massaggia le sopracciglia con le dita. Scaroni e Maldini sono già ai loro posti, parlano guardando fisso davanti a sé.
Foto di Fayez Nureldine / Getty Images
L’inquadratura dal basso dei giocatori che entrano in campo si rivela rapidamente inadeguata: di fatto, un upskirt.
Le gonne non sono cortissime ma conservano, a tanti anni di distanza, quello che potremmo definire un discreto effetto sorpresa. Incerti sui tacchi, i calciatori di Juventus e Milan stanno ancora uscendo al piccolo trotto dal tunnel al lato del campo quando l’arbitro e i suoi assistenti hanno già raggiunto da un pezzo le proprie postazioni. Dal pubblico qualcuno lancia in campo bottigliette di plastica, cuscini, magliette. Qualcuno si copre gli occhi, o li copre ai bambini.
La regia va in confusione e procede per stacchi da qualche frazione di secondo alla volta senza riuscire a decidere dove posare lo sguardo: inquadra un gruppo di spettatori che inveisce, poi però cerca un dettaglio negli occhi di Dybala, poi però si sposta sui dirigenti, va in onda anche un brusco movimento di macchina, poi però rincorre il principe saudita Mohammed bin Salman che se ne sta andando con diversi membri dell’entourage, non avendo alcuna intenzione di farsi prendere in giro in casa propria.
La partita è di una lentezza esasperante. I giocatori sembrano camminare sulle uova, vacillano ogni volta che per passare il pallone spostano il peso su un solo piede. Mandzukic al limite dell’area prova a girarsi ma avvita un tacco nel terreno e quasi ci lascia la caviglia. Higuain riceve palla da Calhanoglu dopo una specie di scatto, cerca di proteggerla da Chiellini che gli arriva alle spalle, ma non appena si appoggia un minimo al difensore crollano entrambi. Al ventesimo minuto, Kessié ha il primo crampo.
L’unico che si muove come se giocare a pallone con un tacco 7 fosse cosa di tutti i giorni è Cristiano Ronaldo. Almeno rispetto agli altri, ha una grazia stupefacente quando avanza, controlla, cambia di passo. Nei primi dieci minuti la Juventus fatica a uscire dalla propria metà campo; per sostenere la costruzione del gioco, Ronaldo si mette a fare da regista accanto a Pjanic. Non può fare tutto da solo, ma ancora una volta vale il prezzo del biglietto. Molti tra gli spettatori erano letteralmente allo stadio per lui, e quelli che scelsero di non imitare il principe – scelta per nulla scontata – restarono sugli spalti anche perché, nonostante una partita deludente con un sottotesto ambiguo, persisteva la meraviglia di vederlo giocare.
La compagna, Georgina, in seguito raccontò che Cristiano aveva passato l’intera settimana con i tacchi addosso per prepararsi al match, e si era tanto appassionato alla causa da donare centinaia di migliaia di euro ad associazioni per la parità dei diritti e scuole femminili in Paesi mediorientali. Non è chiaro se qualcuno abbia mai verificato queste affermazioni eppure fu del tutto evidente come Cristiano Ronaldo fosse l’unico giocatore preparato in campo.
L’idea di far scendere in campo i giocatori in tacchi e minigonna non fu facile da elaborare per l’opinione pubblica italiana. Critiche ed entusiasmi arrivarono un po’ da tutte le direzioni. “Sceneggiata grottesca” fu il giudizio della destra più retrograda preoccupata che i bambini maschi, emulando i calciatori, iniziassero a vestirsi da femmine. “Show ipocrita” era la parola d’ordine di una porzione del femminismo, che trovava una protesta del genere imperialista e controproducente per le donne saudite. Altre e altri che parlavano da posizioni queer, invece, sottolinearono che nel drag non ci fosse nulla di cui vergognarsi.
Gli esponenti della destra che alcune settimane prima si erano indignati con la Supercoppa a Jeddah vietata alle donne, ora si sentivano in dovere di sostenere la protesta per coerenza. Sui giornali e su internet, a lungo opinionisti maschi italiani discussero di ciò di cui avevano davvero bisogno le donne saudite, e se in ogni caso ne valesse la pena, considerato che il rischio era di rovinare rapporti economici con la monarchia senza aver emancipato nessuno, in un momento delicatissimo per il Paese e per il sistema calcio.
Ma riguardare questa partita oggi è come rileggere un quotidiano del 10 settembre 2001: su tutto aleggia la Tragedia, tutto sembra in pericolo, e non c’è nulla che si possa fare per cambiare il corso degli eventi. D’altra parte, il disagio che avvertiamo oggi non è nulla rispetto all’angoscia provata da chiunque stesse seguendo la Supercoppa in diretta, mentre l’agenzia Reuters diffondeva la notizia – ripresa immediatamente da qualunque testata – che Cristiano Ronaldo era stato incriminato dal tribunale di Clark, in Nevada, per aver commesso violenza sessuale su Kathryn Mayorga nel 2009.
Foto di Claudio Villa / Stringer
I milioni di telespettatori che avevano abbassato lo sguardo sul telefono per dare un’occhiata a Facebook o Twitter lo rialzavano scioccati e si ritrovavano davanti proprio il condannato, al centro di un grande evento sportivo, vestito come lo stereotipo di una donna in difesa dei diritti delle donne.
È possibile ricostruire il momento esatto della pubblicazione del lancio Reuters: erano le 19:04 ora italiana, il trentaquattresimo minuto del primo tempo. Per altri 11 minuti, Ronaldo continuò a giocare inconsapevole del capo d’imputazione che gli pendeva sulla testa. La dirigenza juventina non era pronta a gestire la situazione; pensarono di aspettare l’intervallo ma dopo poco andarono in panico, si consultarono con gli avvocati, e infine fecero avere ad Allegri l’ordine di sostituire Ronaldo al più presto.
Al quarantacinquesimo minuto, la palla uscì in fallo laterale e fu chiamato il cambio. Per Ronaldo era tanto fuori dal mondo la prospettiva di dover abbandonare la partita che pensò si trattasse di un errore: il quarto uomo doveva certamente indicare i minuti di recupero, non una sostituzione. Allegri però si stava sbracciando per richiamarlo e dirgli di uscire il prima possibile, perché era successo qualcosa di grave. Non voleva recitare la parte del padre che entra in campo e porta via il figlio tenendolo per un orecchio. Ronaldo tentennò, poi si avviò verso la panchina incredulo e preoccupato.
Allegri gli disse una cosa all’orecchio e lo affidò a un membro dello staff, che lo accompagnò verso gli spogliatoi. Tutti e tre avevano gli occhi umidi. Prima che la partita finisse, Cristiano Ronaldo era già stato messo ufficialmente fuori squadra per tutelare l’immagine e il valore delle azioni della Juventus.
A notte fonda, Gennaro Gattuso sedeva insonne sul balcone della sua camera d’albergo a Jeddah e fumava una sigaretta dopo l’altra. Ogni tanto intratteneva brevi discussioni con sé stesso, smozzicando frasi, sfogando piccoli scatti d’ira contro la sdraio o il parapetto o l’aria.
Guardava i grattacieli, guardava il mare.
Pensava alla nebbia.