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No, la Superlega non avrebbe salvato il calcio
26 apr 2021
Tutti gli errori e le false promesse del progetto.
(articolo)
18 min
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Si può essere più o meno d’accordo con l’idea della Superlega (come l’ha definita il presidente della FIGC Gabriele Gravina, nonostante contratti, siti internet e comunicati, negando possibili sanzioni ai club italiani coinvolti, che è un po’ come dire che un tentato golpe non andrebbe punito), o con un’idea di Superlega magari diversa da questa che è stata proposta e che è collassata su sé stessa in quarantotto ore, ma una cosa su cui dovremmo essere d’accordo è sulla realtà dei fatti. E dato che in Italia il dibattito ha preso una strana piega, come se l’ipocrisia o l’aggressività di Ceferin possano dare un senso diverso a quanto accaduto. Un ragionamento sintetico per punti.

1. Non erano solo dinamiche di potere

Certo, alla base c’era l’esplicita volontà di gestirsi da sé quella che sarebbe potuta diventare la principale coppa europea – di avere il “controllo” della ridistribuzione dei diritti tv – ma la cosa su cui si sono trovati d’accordo tutti i suoi oppositori, dalla Uefa a De Zerbi, è che il sistema di qualificazioni-retrocessioni del calcio europeo non è negoziabile, per ora. È un principio sportivo di base che dà senso alla Champions League persino in un calcio già compromesso con le questioni di business, in cui comunque bene o male bisogna qualificarsi. Una cosa è dire che l’Atalanta è un’eccezione (che dura da tre anni, però) e che il calcio è comunque sbilanciato, un’altra accettare che questo tipo di storie non esistano più. Una cosa è constatare che a vincere sono più spesso le squadre più ricche, un’altra dire che indipendentemente da quanto possano giocare male in campionato, da quante volte possono pareggiare o perdere con squadre come Benevento, Cadice, Fulham – o contro squadre di un livello comunque superiore ma non con il loro stesso potere come Siviglia, Napoli o West Ham – avranno comunque il loro posto assicurato nella coppa europea più importante di tutte.


2. La Uefa aveva fatto moltissime concessioni ai grandi club, e non tiene per sé la maggior parte dei ricavi

Penso che si sia sopravvalutato il cinismo di Andrea Agnelli, da una parte, e sottovalutata la difficoltà del suo ruolo di agente segreto in questi giorni difficili per tutti. Il dato di fatto è che Agnelli, in quanto presidente dell’ECA, ha approvato la riforma che entrerà in vigore nel 2024 è che cambierà radicalmente il formato del trofeo, con più partite (più soldi da dividere: nessuno ha ascoltato quello che chiedevano giocatori e allenatori, né l’Uefa ma tanto meno i loro datori di lavoro) e due posti assicurati per i club con maggiore coefficiente negli ultimi cinque anni tra quelle che non si sono qualificate. Basta consultare l’attuale classifica per capire a vantaggio di chi andrà questa regola.

E va ricordato che già adesso nella ridistribuzione dei guadagni viene preso in conto il coefficiente degli ultimi dieci anni: ad esempio è il fattore più rilevante sulla differenza di guadagno tra Juventus – 82 milioni – e Lazio e Atalanta quest’anno – 52 e 50 – tutte e tre uscite agli ottavi; e spiega anche perché l’Inter pur essendo uscita ai gironi ha preso più o meno quanto loro – 49. A questo punto, anzi, ci sarebbe da chiedersi se non è il caso di prendere misure in direzione opposta, annullare la riforma e approfittarne per farne una che renda più felici tutti anziché quegli stessi pochi che hanno reso esplicita la loro intenzione di lasciare quello stesso torneo.

Anche sulla ridistribuzione dei soldi delle tv è probabile che sarebbero state fatte delle concessioni. Ma non è vero, in ogni caso, come si sta dicendo in questi giorni, e come ha detto anche Antonio Conte a caldo dopo la partita con lo Spezia, che la Uefa dà ai club solo una minima parte dei ricavi. Né che non ci sia trasparenza, come ha detto Florentino Perez a tv e radio spagnole in questi giorni. Gli stipendi dei dipendenti Uefa così come le quote di ridistribuzione si trovano facilmente online e, stando ad esempio alle cifre dell’edizione 2019-20, quella passata, l’Uefa terrebbe per costi amministrative e organizzativi più o meno il 9% dei ricavi lordi totali, mentre il 78% circa va in premi, tra Champions League e Europa League. Come sappiamo, per i singoli club, dipende da quanto lontano si arriva nella competizione (Conte, per esempio, avrebbe potuto qualificare la sua squadra agli ottavi per ricevere più soldi), se si guardano i guadagni dell'edizione in corso è evidente che in ogni caso, già adesso, molti dei club della Superlega sono tra le squadre a guadagnare di più. Evidentemente, per loro, non abbastanza.

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3. Non si trattava di una semplice “innovazione” ma di un cambio radicale e potenzialmente perpetuo

Anche in questo caso è necessario distinguere tra due cose simili ma diverse: perché un conto è chiedere che si trattino i problemi del calcio contemporaneo, dal Covid all’applicazione del Financial Fair Play, un altro lasciare che se ne occupino 12 proprietari privati. Facciamo un esempio dalla vita reale: se diciamo che anche nella competizione quotidiana per la ricchezza e il potere alcuni partono e restano avvantaggiati rispetto ad altri, questo non significa che accetteremmo l’introduzione delle caste, o no? Neanche se a prendere le decisioni è il nostro datore di lavoro, o un nostro parente, giusto?

Quando è stato chiesto a Florentino Perez fino a quando sarebbe stato presidente della Superlega la sua risposta è stata: «Fino a quando mi cacciano», che non solo significa che non erano state previste elezioni ogni tot anni (il contratto che legava i club ne durava 23, ma non si sono presi neanche la briga di specificarlo nel comunicato di domenica) ma per chi conosce il suo potere è anche un modo furbo per far capire che non sarebbe stato facile. L’Uefa, quanto meno, resta un organo elettivo, rappresentante di 55 federazioni nazionali, dall’Inghilterra al Kosovo, e con una sua commissione etica (che ha portato, ad esempio, all’esclusione di Platini). Non è la stessa cosa.

Se la Superlega fosse andata in porto, 12 club avrebbero avuto non solo il potere di decidere come o chi “invitare” per i 5-8 posti rimanenti e di gestire le entrate così come i soldi da dare in “solidarietà” agli altri club (su questo come su altre cose che vedremo sono rimasti vaghi) ma anche di modificare a loro piacimento la struttura della stessa Superleague ogni volta che lo avessero voluto. A piacimento dei club con maggiore peso politico all’interno del loro board. Avrebbero potuto escludere qualcuna delle 12 e sostituirla con una nuova, o invitarne altre per ragioni extra-sportive. Non solo, avrebbero potuto modificare la forma di una partita di calcio (Perez, al El Chiringuito Tv non si era trattenuto dall’alludere a una possibile riduzione della durata) o spingere ancora più in là il compromesso commerciale con i broadcaster e il pubblico non europeo, magari giocando partite negli Usa o in India. Oppure, perché no, invitare direttamente una squadra americana, indiana o cinese.


4. Ci sarebbero state conseguenze indirette per tutti gli altri club

Non possiamo sapere cosa sarebbe successo, come non sappiamo se abbia ragione Florentino Perez quando dichiara il calcio intero «finito». Quello che però è sicuramente impossibile è che non ci sarebbero state conseguenze per le leghe nazionali e, quindi, per tutti i club fuori dalla SL. Non solo sportive, per cui a meno di un regolamento che nessuno ha visto e che avrebbe adottato misure per evitare che una squadra di Superlega che non sta lottando per arrivare prima schieri in campionato undici riserve, ma soprattutto economiche. Anche ammesso che il resto della Serie A sarebbe rimasto competitivo con Inter, Milan e Juve al punto da contendere primo e secondo posto, il campionato che ha appena venduto i diritti a Dazn per 840 milioni a stagione varrebbe lo stesso senza lotta per il terzo, quarto e quinto? La Champions League, senza quelle squadre, avrebbe venduto alle stesse cifre e avrebbe avuto gli stessi soldi da redistribuire?

Se Ceferin non ha a cuore i tifosi o il calcio, come molti si sono affrettati di sottolineare, siamo oltre l’ipocrisia quando i membri di The Superleague dicono che ci sarebbero stati benefici per «tutta la piramide». Nel loro comunicato (sì, insomma, la home page del sito) si parlava di 10 miliardi nei prossimi 23 anni, ma su che basi avevano stimato quella cifra, come e a chi l’avrebbero distribuita, non è dato saperlo. A fronte di perdite sicure, quindi, c’era la promessa vaga di solidarietà (anche se, trattandosi di una lega chiusa, forse sarebbe stato più corretto parlare di beneficienza). Ma chi si fiderebbe della generosità di un progetto che di fatto parte dal presupposto che niente al di fuori di quelle 12-15 quadre contribuisca all’esistenza del calcio? Di chi pensa che siccome la maggior parte delle squadre ha meno tifosi e seguito di Real Madrid, Barcellona, etc., allora può fare a meno di tutte le squadre tranne loro?


5. Il progetto è collassato su sé stesso, non per colpa di qualche “nemico” esterno

Senza tentare una ricostruzione (ce ne sono già molte), possiamo dire che prima di varie ragioni esterne (Ceferin, tifosi, media internazionali, Boris Johnson) se questa Superlega non ha funzionato è soprattutto per ragioni interne. Anzitutto il rifiuto di quelle tre squadre misteriose che nei loro piani avrebbero dovuto unirsi in corsa (Bayern, Borussia e PSG, che forse avevano intuito si sarebbe rivelato un disastro), poi la differenza tra le motivazioni delle parti in gioco. Per alcuni dei 12 club era necessaria, anzi urgente visto come hanno affrettato le cose arrivando al giorno zero senza poter comunicare quasi nessun dettaglio che avrebbe magari aiutato a conquistare un minimo di fiducia; per altri era una cosa che se fosse andata in porto bene, altrimenti pazienza, per una questione di semplice avidità. Erano in gioco culture diverse, e se in Italia e in Spagna l’antipatia reciproca tra le squadre più potenti e quelle più “piccole”, e il loro pubblico, si è rivelata un terreno più fertile, in Inghilterra c’è ancora un rispetto reciproco profondo, e un rispetto per la storia del loro calcio, che va oltre ogni retorica; e se in Italia i tifosi vengono demonizzati da media e politici da quarant'anni, in Germania hanno un loro ruolo e un peso.

Anche all’interno della Premier League non erano tutte sullo stesso piano, City e Chelsea non hanno problemi di soldi al di là di come va il mercato del calcio e sono state le prime due squadre ad uscire. Il City tra l’altro è stato graziato dal Tas di Losanna giusto la scorsa estate e dovrebbe essere parte del problema per il vecchio potere di squadre come Real e Barcellona. Anche tra i miliardari ci sono differenze e che per alcune squadre sia impossibile competere con PSG e City è una delle cause che hanno portato a questa crisi, era strano in partenza che si sedessero allo stesso tavolo. Considerando che Agnelli aveva parlato di «patto di sangue» e Perez aveva risposto con un fermo «no» alla domanda se temeva che qualcuno si sarebbe tirato indietro, deve essere è stata una grossa sorpresa per loro.

Florentino Perez ha detto che sono tre anni che discutono di questo progetto internamente e di averlo solo comunicato male. Ma non si capisce bene di cosa abbiano parlato, esattamente, mancando praticamente tutti i dettagli, a cominciare dalla data in cui sarebbe dovuta partire, né chi ne abbia parlato davvero. Basti pensare che il principale proprietario del Liverpool John W. Henry, nel suo video di scuse si è rivolto non solo ai tifosi e a Jurgen Klopp ma anche al proprio Amministratore Delegato Billy Hogan. Se non lo sapevano dirigenti di così alto livello, come anche Paolo Maldini, quante persone sono state consultate per prendere una decisione così importante?

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Alla fine Florentino Perez, in uno dei suoi molti (troppi) interventi di questi ultimi giorni, ha alluso a un possibile complotto che ha messo insieme le magliette di protesta di Cadice e Leeds e quelli che secondo lui erano «quaranta tifosi» del Chelsea, anche se erano molti di più.Ma nessun P.R. può nascondere i problemi di organizzazione interna per cui il progetto non ha retto (neanche gli esperti di comunicazione che hanno definito «in sospeso» la SL dopo che già le prime squadre si erano tirate indietro) o l’arroganza di una strategia che consisteva, in sostanza, nel forzare tutti gli attori in gioco, comprese tv e sponsor, a sedersi al loro tavolo e trattare senza neanche una data in cui avrebbe dovuto cominciare.

A questo proposito, è lecito chiedersi come si sarebbero accordati su tutti quei temi rimasti in sospeso, su cui erano rimasti vaghi in vista di trattative future. Chi avrebbe gestito quella specie di salary cap al 55% di cui hanno parlato? Sarebbe stato divertente se alla fine si fosse rivelato che volevano chiedere di farlo proprio alla Uefa. E in ogni caso, avrebbero potuto farlo davvero senza il benestare della Uefa? Era compresa nella loro strategia un’eventuale competizione con la Champions League? Viene da chiedersi se le cose non sono precipitate così di fretta anche per anticipare l’ufficializzazione del nuovo formato.

Quante possibilità ci sono, adesso, che si fidino di nuovo l’uno dell’altro, o che JP Morgan (cheha ammesso di aver frainteso il sentimento generale) si fidi nuovamente di loro e sia disposto ancora a prestargli 3.6 miliardi? Soprattutto, la minaccia di una Superlega adesso non spaventa più allo stesso modo, e al tempo stesso le reali intenzioni di Real Madrid, Liverpool e co. ormai sono chiare e non sarà possibile più nessun doppio gioco. Se la segretezza che avevano prima gli ha permesso di cogliere tutti di sorpresa, persino questo piccolo vantaggio è svanito. Oltretutto, i tifosi adesso sanno che l'auto-organizzazione può indirizzare anche scelte di così alto livello, e in futuro potranno farlo con maggiore consapevolezza.


6. Neanche la Superleague avrebbe “salvato” economicamente il calcio

Andrea Agnelli sulla Repubblica ha detto che: «il calcio non è più un gioco ma un comparto industriale e serve stabilità». Ma più che la stabilità dell’intero comparto industriale, quello che sembra avere davvero in mente è una rendita garantita per le dodici squadre in questione. Seguire un’idea di questo tipo avrebbe segnato un passaggio nuovo nella storia del calcio: da un calcio che è anche legato al business, ma non solo, a un calcio in cui ogni decisione sarebbe stata giustificata da ipotetiche ragioni commerciali (la cui veridicità sarebbe stata tutta da verificare) senza possibilità di discussione o contrattazione al di fuori di quel circolo ristrettissimo.

La storia del calcio degli ultimi 50 anni ha subito molti cambiamenti: prima sono entrati gli sponsor, poi le tv e il pubblico globale, le squadre di calcio sono diventate aziende quotate in borsa e vengono gestite con metodi finanziari, i prezzi si sono alzati e alcune fasce di pubblico sono state escluse, poi sono arrivati i soldi del petrolio che hanno alzato il livello della competizione e concentrato ancora di più la ricchezza nelle mani di pochi club, ma in tutto ciò nessuno aveva mai pensato prima di poter stravolgere così profondamente quello c’era alla base: il rapporto con il pubblico (non solo i tifosi di quella specifica squadra) e con i campionati locali.Come ha scritto Jonathan Wilson su Sports Illustrated: «La guerra è stata vinta e con fermezza. Il calcio, per ora, resta qualcosa di più di un contenuto con cui far arricchire i proprietari dei club».

Il loro era un piano basato su una sola certezza: il prestito della holding JP Morgan (che nel frattempo ha subito il downgrade di Standard Ethics proprio per questa vicenda) e sulla presunzione di poter guadagnare di più da tv e sponsor, fino ad arrivare ai 5 miliardi a stagione ipotizzati da Joe Glazier (uno dei presidenti dello United). Ma chi ha detto che sarebbe andata così?

Certo, se fossero riusciti a sottrarre tutti gli incassi della Champions League alla Uefa (che nell’ultima stagione pre-Covid aveva generato 3.3 miliardi di cui 2.4 di diritti tv) e li avessero suddivisi per 12 club senza troppo badare al resto, sarebbe stato un bel jackpot. E se Gary Neville ha parlato di un «atto criminale» è perché in effetti al centro sembrava esserci l’idea di poter sottrarre, “rubare”, tutte le entrate alla Uefa (e come chiamare l’idea del Real Madrid di «trasferire» le 13 Champions League vinte in Superlega se non come un furto simbolico?). Ma ogni tipo di piano va preparato bene, in questo caso come ha subito ha sottolineato Dario Saltari non era così certo che le tv li avrebbero seguiti. Molti broadcaster hanno già preso accordi con la Uefa per i prossimi tre anni, Dazn ha negato un proprio coinvolgimento mentre Amazon video ha rilasciato un comunicato contro l'idea della Superlega.

I diritti tv sportivi, inoltre, sono in calo e Florentino Perez ha parlato proprio di questo come di una delle cause della morte del calcio. Quindi non è chiaro chi o cosa garantiva loro che la Superlega avrebbe generato 1 miliardo e mezzo in più di entrate rispetto alla Uefa. Sarebbe bastata la loro formula, con più match tra grandi squadre (ma anche meno gare a eliminazione diretta e meno gare in cui una delle due squadre ha qualcosa da perdere)? È una possibilità, certo, ma non una certezza.

Il Liverpool, nel comunicato con cui si toglieva dalla Superleague, ha parlato di «stakeholders» interni ed esterni che si sono espressi negativamente a proposito dell’idea. E se la decisione di unirsi alla Superlega e uscire dalla Champions League non era stata comunicata a dirigenti anche di alto livello, chissà con quanto anticipo l’avranno saputo, e come avranno preso la notizia e le proteste, gli sponsor principali delle 12 squadre in questione. Magari gli sponsor avrebbero apprezzato lo stesso una mossa del genere, e scommesso su un prodotto che immediatamente è stato osteggiata dalla fan-base locale. Questa anche è una semplice possibilità che non possiamo dare per certa.

Se leviamo tutte le “possibilità” cosa resta? Il finanziamento di JP Morgan (che, forse è il caso di specificarlo, non era un regalo e andava restituito con degli interessi). Ma anche ammettendo che tutto fosse andato per il meglio e che ci sarebbero stati più soldi per tutti, per quale ragione non sarebbero finiti semplicemente a spendere di più? Continuare a competere come stanno facendo adesso, alzando i prezzi oltre le proprie possibilità per accumulare quanto più possibile i migliori giocatori e ritrovandosi, al primo imprevisto o al primo errore, di nuovo sull'orlo della «fine del calcio»?


7. Non c’era una reale “visione” che potesse rendere più affascinante il calcio

Anche se consideriamo l’altra ragione per cui era necessario salvare il calcio dalla sua fine imminente, e cioè il progressivo disamoramento delle fasce di pubblico più giovane, ci sono molte meno cose certe di come ci sono state dette in questi giorni. Barney Ronay sul Guardian ha parlato di un «instupidimento» imposto al calcio, che non ha una vera visione di fondo ma è solo una teoria di marketing. L’idea di dare al pubblico quello che già vuole (o si pensa voglia) nasconde «un’idea profondamente pessimistica dell’essere umano (…) viene da un mondo dove la crescita costante è l’unico scopo e gli essere umani sono semplici unità consumatrici (…) dove siccome tutti i clasicos sono fichi e tutti i clasicos sono uguali, si deve vendere la stessa merce all’infinito».

Secondo lo studio Fan Of The Future commissionato dall’ECA a MTM Sport (svolto nel 2020, prima della pandemia, consultando 14mila persone in tutti nei mercati UK, spagnolo, tedesco, polacco, brasiliano, indiano e olandese) ci sono diverse categorie di tifosi, basate sulle motivazioni che li spingono a seguire, tanto o poco, il calcio. E solo il 31% dei tifosi tra quelli consultati e che seguono un club ECA di alto livello (con una storia ricca sia a livello europeo che nazionale, con una fanbase globale) rientra nelle categorie «football fanatics» e «fedeli al proprio club», le uniche interessate a un abbonamento tv e a rispondere in maniera fortemente negativa alla domanda: «sostituireste il calcio con un’altra forma di intrattenimento?».

E quindi? Cercare di far cambiare idea alle altre categorie – tipo quell’13% interessato al calcio per i grandi giocatori, «icon imitators», la categoria più giovane che al 49% dice di seguire solo «top level football» e preferisce gli highlights – o magari chiedersi come far appassionare più gente, come fidelizzare (credo si dica così) anche i fan più «light»? Non solo non ci sono conclusioni facili, evidenti, da trarre, ma come sempre, le risposte dipendono dalle domande. Stranamente, trattandosi di un’indagine di mercato, non è stato chiesto se qualcuno di quelli che aveva perso interesse lo aveva fatto per i prezzi troppo alti; o se qualcuno avrebbe seguito più volentieri, magari anche abbonandosi, se i prezzi fossero più bassi.

Per riassumere: si è trattato del tentativo di creare un torneo chiuso, comunicato senza nessun dettaglio, basato su un prestito di 3 miliardi e mezzo di una banca d’investimento, senza nessun main sponsor o tv già pronto a sostenerli (almeno non esplicitamente), basato sulla presunzione di fondo che l’unica cosa salvabile del calcio siano le partite tra le stesse 12 squadre, di 15 previste in partenza, nonostante siano già avvantaggiate dall'Uefa e abbiano interessi e motivazioni molto diversi tra loro, una "lega" unita esclusivamente dal desiderio di avere la certezza di qualificarsi ogni anno eliminando gli imprevisti sportivi e spartirsi gli eventuali guadagni tra loro, per continuare a fare quello che stanno già facendo, accumulando i migliori giocatori a cifre sempre più alte, con in più il potere per modificare le regole, senza rispetto per trequarti della storia e della cultura passata ma con una fiducia religiosa nei risultati delle ricerche di mercato da loro finanziate. Per carità, il calcio avrà molti problemi e magari un giorno finirà davvero, ma è difficile pensare che la Superlega lo avrebbe salvato.




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