Due settimane fa si è giocata la partita di andata di Champions League tra Paris Saint-Germain e Bayern Monaco. Sotto la neve bavarese, in uno stadio vuoto, Mbappé è sfrecciato fra i difensori avversari come una macchina da corsa fra tornanti stesi per esaltarne la velocità. Il Bayern Monaco, dall’altra parte, cercava faticosamente di controllare e tenere insieme tutte le variabili impazzite di una partita di calcio. Un tentativo utopistico di eliminare il caso o di ridurlo il più possibile. L’esito della partita ha brillato quindi di un particolare dramma, quando le occasioni scientificamente create dal Bayern non si sono risolte in gol - per le parate di Keylor Navas, una leggera imprecisione dei propri attaccanti, o per il caso, appunto; i due trickster del PSG, Neymar e Mbappé hanno, con apparente naturalezza, fatto crollare l’imponente organizzazione di gioco tedesca. Alcuni dei più classici conflitti calcistici sono andati in scena: quello tra controllo e caos, e quello tra organizzazione collettiva e talento individuale. Il clima spettrale a cui siamo abituati nel post-covid, in quel contesto, ha assunto un’epica quasi sacra. Due squadre in uno scenario che pareva ai limiti del mondo conosciuto, o in altre galassie, facevano un calcio giunto alla forma definitiva, raggiunta dopo un lungo processo di perfezionamento esercitato su sé stesso.
Dopo anni di decisioni prese per aumentare il dislivello competitivo tra i vari club, i migliori giocatori, riuniti nelle migliori squadre, si sono scontrati tra loro per dare vita a uno sport che somiglia al calcio ma che di fatto prova a forzarne la natura di competizione dal punteggio basso, fatta di eventi rari e che vive di lunghe fasi di insignificanza. In un articolo del giorno dopo Jonathan Wilson sul Guardian si domandava, in effetti: «È stato magnifico, ma è stato calcio?». Non tutte le squadre coinvolte nei quarti di finale di Champions sono riuscite a dare vita a una forma di intrattenimento tanto perfetta; molte di loro, anzi, si sono arrese alla forma lenta ed enigmatica del calcio, alle sue fasi di stanca, alle sua lentezza novecentesca. Nella partita di ritorno tra Manchester City e Borussia Dortmund, o in quella tra Liverpool e Real Madrid, le squadre hanno faticato a risolvere l’equazione basilare di una partita: undici giocatori che provano a spingere una palla in rete usando i piedi mentre altri undici giocatori cercano di impedirglielo. Nonostante la scandalosa concentrazione di talento, produrre dramma è stato complicato. Erling Haaland, la macchina umana che gioca nel BVB, uno dei migliori esemplari prodotti dalla nostra epoca per giocare a calcio, non ha combinato nulla. Anche lui ha dovuto scontrarsi con la frustrazione che produrre grandezza su un campo non è semplice, anche ai massimi livelli possibili.
Alcune delle più importanti partite degli ultimi anni sono state una forma di intrattenimento deludente, almeno per gli standard contemporanei. La finale degli ultimi Europei, tra Francia e Portogallo, si è trascinata stancamente ai tempi supplementari dopo lo zero a zero. A risolverla un attaccante sconosciuto e senza glamour di nome Eder, all’epoca una riserva del Lille. La finale di Champions League tra Bayern e PSG di qualche mese fa è finita con un tesissimo 1-0, frutto di un gol di testa arrivato all’improvviso di Kingsley Coman. Queste partite esistono come lo ying necessario allo yang delle altre partite pazze e imprevedibili che abbiamo ammirato in questi anni nella fase finale della Champions League.
Questa premessa per dire che il progetto della nuova Superlega, almeno da un punto di vista estetico, parte dalla falsa convinzione che riunire fra loro in un torneo le migliori squadre e i migliori giocatori al mondo basti per migliorare lo spettacolo. O ancora meglio: per creare una forma di intrattenimento che riesca a competere con Fortnite o con League of Legends, citando le parole di Andrea Agnelli di un paio di anni fa. Che sappia quindi replicarne la velocità adrenalinica, la stimolazione neuronale accelerata, un senso di meraviglia estesa che fa sembrare i video dei migliori giocatori di Fortnite, per esempio, dei trip psichedelici. Un paragone di cui all’epoca non avevamo riconosciuto la premessa radicale alla base: per Agnelli il calcio non è uno sport ma uno spettacolo da vendere a dei consumatori. È un’idea con cui abbiamo imparato a familiarizzare negli ultimi vent’anni, certo, ma che non pensavamo potesse spingersi fino a svincolarsi completamente dalle sue basi sportive. Dalla meritocrazia, prima di tutto, creando una lega chiusa e che stronchi sul nascere la possibilità che club piccoli si scontrino con quelli grandi. Persino negli ultimi anni, quelli di maggiore oligopolio, abbiamo visto storie nuove che creavano un minimo di biodiversità: l’Atalanta l’anno scorso arrivata fino ai quarti di Champions; la Roma in semifinale tre anni fa; l’Ajax eliminato a un passo dalla finale due anni fa. Ma il grande elefante nella stanza è quello che il calcio, come forma di intrattenimento pura, non vale granché: è lento, noioso, frustrante.
Nel progetto della Superlega si dimentica che il calcio è soprattutto una cultura. Se esiste anche come forma di intrattenimento è per il significato e i valori che questa gli attribuisce. È grazie al bagaglio identitario, di storia e tradizione, che il calcio esiste anche come forma di intrattenimento, una delle più diffuse e redditizie a livello globale. È grazie al fatto che i tifosi non si sentono consumatori ma parte integrante di una cultura che è ancora possibile, per qualcuno, preferire uno zero a zero tra Chievo e Salernitana a una serie di Netflix creata da un algoritmo per triggerarci le endorfine. Di guardare partite di Champions ricoperte da aspettative insostenibili naufragare in un abisso di noia. Ed è questo complesso ecosistema culturale, fatto di alto e basso, di partite che navigano tra il significante e l’insignificante, che nobilita la noia, ma che ci fa anche riconoscere Bayern-PSG per quello che è stata: una partita eccezionale, quindi rara. Il tentativo di renderla riproducibile all’infinito ne svuoterebbe la cornice che la rende significativa.
Senza la patina storica e simbolica, le corse di Mbappé e Alphonso Davies, le sterzate di Sanè e le parate di Neuer - anche tutte queste cose insieme, e stiamo parlando di una concentrazione irrealistica di grandi giocate e divertimento calcistico - non basterebbero a soddisfare il palato desensibilizzato da anni di Fortnite, TikTok, video porno e serie tv. E sembra esserci un’incredibile contraddizione interna nei discorsi di Florentino Perez, quando dice che «la Champions League non è attrattiva, lo diventa solo a marzo». Il problema dei gironi non è il fatto che ci giochi il Ferencvaros, ma che, appunto, sono partite con una posta in palio minore, che esistono per misurare quali squadre meritano la fase finale e quindi per farcela apprezzare di più.
Nei discorsi dei sostenitori della Superlega si citano i fantomatici “consumatori stranieri”, riferendosi ai mercati del sud-est asiatico, dell’Africa o degli Stati Uniti. Insomma: gli appassionati che non condividono i riferimenti storici europei. Ma siamo sicuri che quei tifosi non si leghino a certe squadre grazie all’apparato culturale di simboli che si portano dietro? I tifosi del Liverpool Club in Rwanda guardano il Liverpool per le sgasate di Salah e Manè o per quello che storicamente rappresenta il club? E i romanisti in Indonesia, che riproducono i colori e i canti della Curva Sud, lo fanno perché la Roma gli offre uno spettacolo divertente o perché per loro quel club rappresenta qualcosa che va molto oltre la partita in sé?
Una delle cose più surreali che vi capiterà di vedere.
Perché stiamo dando per scontato che questi tifosi, oppure quelli delle giovani generazioni, preferiscano un’esperienza meno autentica e semplificata? Siamo sicuri che spettacolo e tradizione siano in conflitto? La tradizione, nel calcio, non fa invece parte dello spettacolo? Non serve forse il brivido della Kop, i suoi canti, a rassicurarci del fatto che una partita del Liverpool merita di essere guardata?
I club della Superlega stanno quindi provando un’operazione pericolosa, cercando di tagliare alla radice il rapporto tra il calcio e la cultura che lo rende significativo. In parte lo sanno, come dimostra la preoccupazione del Real Madrid di trasformare le tredici Champions League vinte in tredici Superleghe. È innegabile che la UEFA ha creato un sistema che sta corrompendo la natura dello sport, e che nonostante stiano riuscendo a passare dalla parte dei buoni, non lo sono. Ma riconoscere questo non può portarci a negare che la Superlega sia un tentativo radicale di cancellare la dimensione sportiva e culturale del calcio (a Repubblica Agnelli ha detto che «il calcio non è un gioco ma un comparto industriale). La sollevazione popolare che c'è stata in Inghilterra, e la grande contrarietà dei tifosi sui social e nei sondaggi, dimostra da sola che il legame culturale tra il pubblico e il calcio non si è ancora spezzato, che i tifosi sentono ancora di partecipare a una cultura. Il fatto che, almeno al momento, sembrano essere riusciti a sabotare il progetto è la dimostrazione - fuori davvero da ogni retorica - che il calcio è ancora dei tifosi.
Tutti questi non sono discorsi nostalgici o ideologici, non sono contrario a priori ai cambiamenti del calcio. I fatti recenti, però, dimostrano che il calcio forse dovrebbe riformarsi in senso più inclusivo e solidale, e non esclusivo e diseguale. Saremmo ingenui a pensare che la UEFA ascolterà i movimenti popolari degli ultimi giorni. Eppure non ci sarebbero solo ragioni etiche e di giustizia sociale, ma anche di business. Distribuire più equamente i soldi dei diritti tv, rendere lo stadio più accessibile alle giovani generazioni (quelle in genere con meno potere d'acquisto), favorire le forme di azionariato popolare.
Se non ci riusciranno ora, comunque, i tentativi di rendere il calcio più esclusivo per assicurare ai grandi club la "stabilità industriale" richiesta da Agnelli proseguiranno nei prossimi anni. Dovremmo però interrogarci più seriamente se la Superlega riuscirebbe davvero a rendere più bello questo sport o se non finirebbe per inaridire il sentimento che lo rende degno di essere guardato, anche in un’epoca di iper-saturazione dei contenuti. Quando Perez o Agnelli parlano di poca appetibilità del prodotto per le giovani generazioni il loro problema principale non sembrano essere gli attuali formati, ma il calcio in sé come sport. Per questo parlano di vendere pacchetti di highlights da dieci minuti (perché i giovani guardano solo quelli) o di ridurre la durata delle partite. Per questo Agnelli parla, con un senso dell'astrazione che non dovrebbe appartenere a un imprenditore, di creare competizioni che simulino FIFA. Allora mi chiedo se la naturale conseguenza di questi discorsi non siano nuovi tornei ma modifiche regolamentari più profonde. Fare tempi da venti minuti? Togliere i portieri? Cospargere i campi di sapone per favorire lo spettacolo? Introdurre delle risse legalizzate per andare incontro alla crescente popolarità delle arti marziali miste? Oppure scrivere a tavolino delle storyline come nel wrestling per generare conflitti sempre più avvincenti?
Ma c’è un punto oltre il quale il calcio, semplicemente, non è calcio. E dopo quel punto, però, perché dovrei guardarmi il terzo Liverpool-Juventus della stagione, giocato negli Emirati Arabi, con in palio il quarto posto del gruppo A della Superlega, invece che accendere la Playstation?