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Altri punti di vista sulla Superlega
27 apr 2021
Alcuni angoli di cui si è parlato meno.
(articolo)
21 min
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Cosa non va nell’ossessione della Superlega per i videogiochi

di Dario Saltari

Tra i tanti fraintendimenti di Andrea Agnelli e Florentino Perez nel loro confuso progetto di rivoluzionare il calcio c’è anche quello riguardante i videogiochi. Nella celebre intervista rilasciata a Repubblica mercoledì all’indomani del fallimento della Superlega, il presidente della Juventus ha ad esempio ripetuto alcune idee che aveva già espresso in passato, come la preoccupazione verso quella porzione di giovani (secondo lui il 40% dei ragazzi tra i 16 e i 24 anni) che «non ha interesse nel mondo del calcio» e l’ambizione di fronteggiare «la competizione di Fortnite o Call of Duty, che sono i veri centri di attenzione dei ragazzi di oggi, che spenderanno domani», con una competizione «che simuli ciò che fanno sulle piattaforme digitali, come FIFA». Queste dichiarazioni, unite all’idea di vendere pacchetti di highlights di 10 minuti e di accorciare il tempo delle partite, si basano sulla supposizione che i videogiochi stiano monopolizzando l’attenzione della cosiddetta Gen Z (e non solo) per via della loro spettacolarità. Ecco, chiunque abbia visto giocare i propri amici a FIFA capirà immediatamente quanto questo assunto sia decisamente fragile.

La maggior parte degli esports, o comunque dei videogiochi di maggiore successo sulle piattaforme di streaming, sono infatti spettacoli televisivi non proprio esaltanti. I tre esports principali per solidità del circuito competitivo, montepremi distribuiti nei tornei e audience, cioè League of Legends, Counter Strike Global Offensive e Starcraft II, sono videogiochi rispettivamente del 2009, 2012 e del 2010, con una resa grafica molto al di sotto degli standard a cui siamo abituati oggi e di cui è difficile capire la dinamica senza conoscere a fondo le regole e il funzionamento complessivo. Starcraft II, tanto per fare l’esempio dell’esports che più la fa da padrone in quei mercati orientali che Andrea Agnelli sogna di conquistare (compresa la Cina), non è che il secondo capitolo di un videogioco che uscì per la prima volta nel lontano 1998. Non fu certo la sua spettacolarità a diffonderlo in quegli anni in estremo oriente, ma la fortunata coincidenza che portò Blizzard a distribuirlo quasi casualmente in Corea del Sud pochi mesi dopo della grande crisi finanziaria che la costrinse a puntare con forza sulla diffusione di internet a banda larga e sull’industria high-tech. L’aumento della disoccupazione e la proliferazione dei primi internet-café fece il resto: Starcraft ebbe di lì a poco un successo clamoroso e negli anni finì per far sedimentare una cultura condivisa che portò alla nascita di competizioni e tornei (e all’idea di poterli trasmetterli dal vivo, in televisione o su internet).

Starcraft non è affatto un’eccezione. Solo un anno fa una multinazionale molto attenta agli esports come Red Bull ha di fatto fondato il circuito competitivo di Age of Empires II, un videogioco graficamente preistorico che fu lanciato per la prima volta da Microsoft più di 20 anni fa. Nel 2019, invece, la publisher del celebre gioco di carte Magic: The Gathering (pubblicato per la prima volta nel 1993) si è decisa a lanciare il proprio videogioco, Magic: The Gathering Arena, probabilmente convinta dal successo di quello che è uno dei più importanti esports a livello globale, Heartstone. Entrambi sono di fatto giochi di carte digitalizzati: siamo sicuri che la chiave del loro successo sia la spettacolarità televisiva? È interessante in questo senso che gli scacchi (ok, qui non metto la data di nascita, ma avete capito), che sembravano destinati a un lento e malinconico tramonto, stiano vivendo oggi una seconda giovinezza sulle piattaforme di streaming, e siano ormai considerati da molti degli esports.

Ovviamente non tutti gli esports di successo sono videogiochi che possono girare con 32 mb di RAM o giochi di carte. Ma anche guardando a quello che più ha capito l’importanza dell’intrattenimento per gli spettatori oltre che per i giocatori, cioè Fortnite, si possono trarre indicazioni interessanti. Fortnite, infatti, l’ha talmente capito che non ha un vero e proprio circuito competitivo (se non quello aperto a cui si può accedere direttamente dal videogioco) e dopo la stagione 2018-19, durante la quale è stato distribuito un montepremi complessivo da 100 milioni di dollari, Epic Games ha deciso di mettere in pausa le competizioni ufficiali concentrandosi su altri eventi che poco hanno a che fare con gli esports, come concerti digitali o collaborazioni con gli universi cinematografici. Organizzare i tornei costa lavoro, organizzazione e soprattutto denaro (come ha capito Call of Duty, che con un sistema a franchigie simile a quello degli sport americani ha monopolizzato gli esports su console), ma non è detto che siano remunerativi come le partnership con cui Fortnite da anni aumenta il suo bacino d’utenza (e quindi le sue revenues) collaborando con case di produzioni cinematografiche, musicisti e anche squadre di calcio (compresa la Juventus, di cui fino a poco tempo fa potevate comprare la maglia nel gioco sotto forma di skin). Riuscite a immaginare il calcio, o qualsiasi altro sport, senza un “circuito competitivo”? Fino a che punto è possibile seguire Fortnite su questa strada senza che il calcio smetta di essere calcio?

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Se Andrea Agnelli vuole prendere spunto dai videogiochi per aumentare la diffusione del calcio nelle giovani generazioni (non è detto che sia una cattiva idea), forse prima dovrebbe indagare meglio le ragioni del loro successo. Sempre che lo voglia fare davvero.

Siamo disposti a perdere la magia della Champions?

di Emanuele Mongiardo

Rudolf Otto, storico delle religioni tedesco, definisce il sacro a partire da due caratteristiche: fascinans e tremendum. È fascinans nella misura in cui attrae in maniera ipnotica, ma al contempo è tremendum: l’esperienza del sacro terrorizza l’uomo, lo inquieta, genera smarrimento. La dialettica fascinans-tremendum non investe solo la religione, credo si possa applicare anche al modo in cui i giocatori vivono la Champions League. Chi abbia visto Borussia Dortmund - Manchester City sa di cosa parlo. Nel primo tempo la paura degli inglesi di fronte a una competizione dalla storia troppo grande trasudava dal televisore: ogni pressione andata a vuoto, ogni possesso che si chiudeva nel nulla faceva sembrare sempre più piccola una delle squadre migliori al mondo. Non possono essere un caso le sconfitte del City prima della semifinale, perché per quanto la squadra di Guardiola sia grande, la Champions League non è un campionato, risponde a logiche tutte sue e la storia pesa come un macigno su ogni eliminatoria: non esiste competizione sportiva in cui i trascorsi siano più importanti. Siamo proprio sicuri di voler azzerare tutto? Davvero basta trasformare le patch sulla maglietta per trasferire il peso della tradizione da un torneo all’altro? Davvero basta l’assunto per cui «vincono sempre le stesse» per rinunciare alla mistica della coppa dalle grandi orecchie?

Il rischio più ovvio della Superlega è che gli scontri a eliminazione diretta perdano la loro eccezionalità. Peggio dell’assuefazione di noi tifosi potrebbe esserci solo l’assuefazione di calciatori e allenatori. Le squadre inizierebbero a conoscersi proprio come se appartenessero a un campionato, non a un torneo con fasi eliminatorie. L’abitudine ad affrontare certi avversari ridurrebbe in modo considerevole il pathos e le variabili dello scontro diretto. La Superlega normalizzerebbe il rapporto tra colossi, che invece adesso non sanno del tutto cosa aspettarsi da un avversario del proprio calibro che non si è soliti affrontare, quantomeno dal punto di vista emotivo: Guardiola chiuderebbe con l’overcoaching, la sensazione di controllo di Kroos e Modric sarebbe meno trascendente, Cristiano Ronaldo smetterebbe di concentrarsi come un monaco zen durante l’inno. Il rischio è quello di assistere a partite noiose come lo sono, di norma, gli scontri diretti in campionato. Invece le variabili fuori controllo sono ciò che rende speciale la Champions: le innumerevoli partite nascoste nei novanta minuti derivano da un’emotività impossibile da dominare per il peso della storia. Chi ce la fa, magari, vince tre coppe di fila come il Madrid di Zidane. Chi non ce la fa, subisce tre gol in mezz’ora, come l’Ajax contro il Tottenham nel 2019. La storia della Superlega invece è tutta da scrivere, l’impatto emotivo rischia di essere temperato. Le serate di Champions League in primavera ci hanno sempre fatto sentire parte di qualcosa di più grande. Non diamo per scontato che in un contenitore diverso, con altri suoni e colori e senza tradizione, vivremmo le grandi partite allo stesso modo.


Che cosa abbiamo difeso

di Alfredo Giacobbe

È la frase che è rimbalzata più spesso nelle parole degli addetti ai lavori in questi giorni: la Superlega cancella lo sport dal calcio. Ma ha ancora senso parlare di competizione e di merito nel calcio moderno? Il Manchester United, uno dei club fondatori della Superlega, da una decina d’anni si definisce una “media company”. Cioè è un’azienda che produce contenuti e lo fa in proprio, con l’ausilio di registi, cameramen, montatori e altri professionisti tenuti a libro paga. Che vende il proprio prodotto su un mercato dove i suoi competitors non sono l’Eintracht, il Valencia o il West Ham, ma la Disney, la Sony e Netflix. Il calcio è intrattenimento, al pari di una serie TV o di un videogame, lo è almeno per i club che pensano a loro stessi come fa il Manchester United. Lo sport nel calcio è morto da anni. Abbiamo solo finto di non accorgercene, fino a oggi.

Alla notizia della fondazione della Superlega, i social sono stati inondati dalle proteste dei tifosi, i più determinati sono scesi in piazza, io stesso mi sono indignato e immalinconito. Eravamo pronti a difendere a spada tratta il calcio così come lo conosciamo. Il calcio dei debiti e delle plusvalenze; dei calendari-spezzatino asserviti alle esigenze delle TV; degli stadi inospitali se non quando sono di proprietà, dove i biglietti hanno prezzi salatissimi. Il calcio dove non si è in grado di rispettare regole di buon senso, figurarsi un protocollo sanitario. Siamo tutti d’accordo: la Superlega è il Male e Florentino Perez è il suo Palpatine. Ma è sostenibile il calcio che abbiamo? Ci piace davvero?

La pandemia ha accelerato alcuni processi di trasformazione, tra cui quello in atto ora nel calcio, è il punto su cui ha battuto di più il presidente del Real Madrid. Nel nostro piccolo, ciascuno di noi sta sperimentando una trasformazione. Qualcuno ha scoperto che non c’è bisogno di un ufficio per lavorare, che le città non devono essere inondate dalle auto per forza, che le case possono essere vissute e non trattate come dei dormitori, che se ci perdiamo l’evento del mese non ci accade niente. Eppure tutti vorremmo la vita di prima indietro, ma ci rendeva felici?

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Ma in questa storia qualcuno ha pensato ai giocatori?

di Fabrizio Gabrielli

Se c’è qualcosa di cui l’annuncio del varo della European Super League, con certezza imprescindibile, e perciò prevedibile, avrebbe scoperto il muscolo, quel qualcosa è la bipolarità - per certi versi sempre più incompatibile - tra due aspetti del calcio: la quintessenza primigenia di sport popolare puntellato da valori sacri come la competitività e la meritocrazia, soggetta ora a una messa in discussione, o non foss’altro a un tentativo di superamento, o ridefinizione, da una parte; i moventi business-oriented, piuttosto eloquenti, del progetto dall’altra. E poi ce n’è una terza: le scosse telluriche di retorica che la (ri)scoperta di questo scollamento avrebbe provocato. I Club Fondatori potevano prevederne il valore sulla Scala Richter? Avevano previsto un bunker sufficientemente grande in cui rintanarsi aspettando di rimanere i last clubs standing? A quanto pare, no.

Intendiamoci: il grido di battaglia masanielliano della fanbase, da qualche anno a questa parte, quel no al calcio moderno che significa sempre istanze leggermente diverse ma tutte convergenti verso il medesimo assunto, e cioè che un calcio che obbedisce a dinamiche di capitale fa schifo, non si è mai affievolito, ma nei giorni convulsi della deflagrazione, e successiva implosione, del progetto ESL ha assunto una forza nuova, più vibrante, più fagocitante.

Insisto sul tema della prevedibilità perché è uno degli aspetti più sorprendenti, quantomeno negli effetti, di tutta la faccenda: che il re fosse nudo era un po’ il segreto di Pulcinella, che il re non fosse in grado di fornire una linea difensiva coerente, invece, meno scontato. Ma la ripercussione che davvero solleva riflessioni interessanti, secondo me, è stata quella nascosta negli atteggiamenti di chi, in questo lotta titanica tra elementi dicotomici, fanbase che indossano le maglie delle loro squadre il giorno del matrimonio e managements che si riuniscono in uffici asettici della City, si trova nell’esatto mondo di mezzo: vale a dire i calciatori, e gli allenatori, professionisti. Nella fattispecie, gli allenatori, e giocatori, professionisti tesserati per i Club Fondatori.

I calciatori, in fin dei conti, sono un po’ i professionisti che vanno vestiti nella maglia dei loro club negli uffici della City: esporsi è sempre un esercizio di diplomazia complicato, sono tutti piccoli Philippe Petit che camminano, in bilico su fili sottili, sospesi sulla voragine, oscillando tra due sfumature di appartenenza: sono più del pubblico che li sostiene, a cui con diverse gradazioni di retorica dichiarano - hanno dichiarato, anche con veemenza, in questi giorni concitati - di essere vicini, o a chi li tiene - anche qui con diverse gradazioni di aziendalismo - a busta paga? Come ha scritto Luke Shaw dello United: «Mi sono chiesto come potevo esprimere il mio pensiero senza causare problemi al mio club». Cosa si aspettavano, da loro, le presidenze dei Club Fondatori? Silenzio, accondiscendenza, allineamento (cioè quello che praticamente tutti i calciatori di Real Madrid, Inter e Juventus - e Barcellona, ad eccezione di Piqué, hanno fatto)? Un’indifferenza più krumira che disinteressata?

Il fatto è che i calciatori, e gli allenatori, probabilmente erano solo marginalmente a conoscenza del varo imminente del progetto. Di sicuro non lo erano Klopp e la sua squadra, tanto che il tedesco ha dichiarato di esserne stato messo a parte solo poche ore prima della sfida contro il Leeds: «Abbiamo avuto qualche informazione, neppure troppe a essere onesto». Sarebbe stato giusto farlo? Sempre secondo Klopp, forse in fondo no, dopotutto loro sono «uomini di calcio», ed è più o meno la stessa linea che hanno tenuto tutti gli allenatori, da Zidane a Simeone a Tuchel, convinti che in fin dei conti si trattava soltanto di qualcosa di astratto, presente a livello dirigenziale. E se non fossero stati avvisati - non dico interpellati, ma almeno messi al corrente, con una mail di quelle che arrivano ogni tanto a tutti i dipendenti - per un motivo preciso, e cioè per evitare che si esponessero - dopotutto i calciatori sono influencers, convogliano capitali e consenso - in direzione contraria?

Ogni atleta professionista è da un lato il portavoce di sé stesso, del suo personaggio pubblico, con il quale deve essere coerente - Marcus Rashford, per esempio, lo è stato nella maniera elegante e al contempo eloquente che ci ha insegnato - ma dall’altra è anche la faccia della squadra, che è - come uno Stato è una lingua con una bandiera - un’entità supportata da qualcuno e governata da qualcun altro. I calciatori, mai come in questo caso, hanno dimostrato di essere tutt’altro che marionette mosse da un Circolo Caccia e Pesca di Mangiafuoco, ma un’entità solida, in qualchemodosindacalizzata. Con una coscienza di classe, se vogliamo.

Al di là della retorica - o se preferite oltre la retorica, in una guerra (di LOL) che in fin dei conti non è che una prosecuzione della politica ma con altri mezzi - i calciatori hanno dimostrato, semmai ce ne fosse la necessità, che non solo lo scollamento tra management e fanbase è praticamente insanabile. Ma soprattutto che il loro ruolo di sutura, casomai, è più sbilanciato da una parte, anziché dall’altra. E questo sì che - possiamo dircelo piuttosto pacificamente, no? - non ce lo aspettavamo: stai a vedere che il calcio moderno, forse, non piace neppure al calcio moderno stesso in persona.


Eccola: la peggiore classe dirigente al mondo

di Emanuele Atturo

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Sabato, mentre viaggiava da Lubiana alla Svizzera, il telefono di Aleksander Ceferin era incandescente: cinque club diversi lo hanno chiamato per avvisarlo che avrebbero firmato per il progetto della Superlega capeggiato da Andrea Agnelli. Decide quindi di chiamarlo - il padrino di suo figlio, il presidente della Juventus - per avere qualche spiegazione; quello però al telefono gli dice che niente era vero, «tutte stronzate, tutto inventato». Bene, Ceferin tira un sospiro di sollievo, poi dice all’amico: «Bene dai, allora prepariamo un comunicato in cui smentiamo tutto al pubblico»; «Perfetto! Preparo una bozza!» dice Agnelli. Dopo un po’ gli scrive che non gli piaceva la bozza com’era venuta: «Cambio due cose e te la rimando». A quel punto il telefono di Ceferin non squilla più; preoccupato richiama Agnelli, ma quello nel frattempo ha spento il cellulare. Nel discorso amoroso degli ultimi anni, Agnelli ha fatto “ghosting”, si è reso cioè un fantasma agli occhi dell’altro, sparendo in modo violento e passivo-aggressivo. Fra tutte le scene comiche venute fuori dalla vicenda della Superlega, questa - se fosse vera, in fondo è la versione di Ceferin - è tra le mie preferite. Contiene un’approssimazione dei rapporti, una mancanza di professionalità e ovviamente una codardia difficili da immaginare a quei livelli.

Sono state diverse le scene e i dettagli che ci hanno fatto sembrare questa vicenda della Superlega una commedia all’italiana. Le tribune di Florentino Perez al Chiringuito tv, il presentatore coi capelli unti stirati all’indietro, gli zoom in-out tremolanti sui protagonisti, in sottofondo una musica che starebbe bene in un film di Lynch sullo sdoppiamento delle personalità. Come è possibile che il presidente del più grande club al mondo abbia esposto un progetto che aveva l’ambizione di rivoluzionare il calcio al chiringuito tv?! Il sito del progetto usato come documento ufficiale del nuovo torneo, eppure messo in piedi con una pochezza di gusto estetico che ha del comico. La scritta Superlega che sembra fatta da qualcuno che non fa il grafico di mestiere, o che ha avuto pochissimo tempo a disposizione. Il comunicato successivo scritto in Times New Roman. Il progetto pieno di buchi - il salary cap al 55%?! La suggestione, vaghissima, di fare lo stesso col calcio femminile?! L’annuncio di 12 squadre, ma con la promessa di «altre tre sicure che si aggiungeranno», un trucchetto da imbonitori da fiera, soprattutto quando ormai si sapeva che quelle tre che avevano in mente avevano rifiutato. Agnelli che esce su un’intervista cartacea (a un quotidiano di famiglia!) in cui parla di “patto di sangue” tra i vari presidenti mentre negli stessi minuti rilascia a Reuters un’altra intervista in cui ammette che il progetto non può proseguire - anzi, meglio: ha detto che «in cinque o in sei non si può proseguire» come un’organizzazione del calcetto finita a tarallucci e vino.

Sono stati amatoriali nella comunicazione pubblica, ma anche in quella privata, cioè nella diplomazia. Non hanno avvisato i manager e gli allenatori delle loro squadre, sono rimasti ignari alcuni dirigenti chiave, al punto che John Henry, il proprietario del Liverpool, si è scusato con l’amministratore delegato. Avevano sottovalutato la reazione dei tifosi, o magari non gliene fregava niente, ma non potevano permettersi di sottovalutare la reazione della politica. Come pensavano che Boris Johnson sarebbe rimasto a guardare il depauperamento di un patrimonio nazionale come la Premier League? Come pensavano di far passare questo progetto senza un minimo sindacale di lobbying sui governi? È letteralmente il loro lavoro, per molti di loro il motivo stesso per cui ricoprono quei ruoli di potere. Hanno proposto un progetto che non piaceva a nessuno. I club non sono nemmeno riusciti a far sistema tra loro, sfaldandosi attorno alla diversità delle loro motivazioni e perdendo i pezzi dopo poche ore dall’annuncio.

Sulla bontà e l’etica delle loro idee si è discusso molto, ma troppo poco sulla loro inefficacia. O sulla oggettiva superficialità di alcune cose che hanno detto, come il progetto, esposto da Agnelli, che il calcio simuli l’esperienza di FIFA. Fermiamoci un attimo a riflettere che cosa dovrebbe significare una cosa del genere. Un tentativo di “instupidimento” del calcio, lo ha definito Barney Ronay sul Guardian. Certo, quei discorsi sui videogiochi erano la maschera di marketing che avevano messo sopra un progetto che era più che altro economico, ma possibile non siano riusciti a trovare una maschera più credibile?

Questa vicenda della Superlega ha scoperchiato l’incredibile inadeguatezza della classe dirigente del calcio ai suoi massimi livelli. La scarsa professionalità e l’approssimazione con cui hanno provato questo goffo golpe al calcio europeo dovrebbe farci interrogare se il calcio è gestito con la competenza e la serietà che merita, anche per rispettare l’importanza industriale che questi capitani d’azienda ci ricordano senza darci tregua. Per una specie di pensiero magico tendiamo a dare per scontata l’iper-competenza dei dirigenti. In un’epoca in cui abbiamo fatto cadere il principio d’autorità praticamente di tutti - giornalisti, politici, scienziati - continuiamo a immaginare infallibili gli imprenditori. Ne riconosciamo il cinismo, il personalismo dei loro interessi, ma non contempliamo la possibilità che possano essere, molto semplicemente, incapaci. E se il sistema propone dei dirigenti così incapaci ai suoi vertici, cosa c’è un poco sotto possiamo solo immaginarlo.

Il controcanto di questo discorso, l’unico possibile a cui i tifosi della Superlega si sono aggrappati per giorni, era il prestito di JP Morgan: uno dei più importanti istituti finanziari al mondo aveva creduto nella solidità della Superlega. Potevano forse saperne di più i detrattori? Cosa c’è di più vero del denaro? Cosa può certificare meglio l’efficacia di un progetto?

Dopo qualche giorno JP Morgan ha ammesso di aver «valutato male il progetto». Siamo al punto in cui una delle più grandi banche al mondo si dà della scema da sola? Sì, siamo proprio a quel punto. È stata molto citata, ma mai a sproposito, una frase di Simon Kuper tratta da Soccernomics: «Chiunque spenda un po’ di tempo nel calcio presto scopre che come il petrolio fa parte dell’industria del petrolio, la stupidità fa parte dell’industria del calcio».


Il problema della Superlega è stato non andare fino in fondo

di Fabio Barcellona

Le soluzioni proposte dal liberismo in caso di fallimento del mercato prevedono generalmente un ulteriore ampliamento del mercato. Il mercato costituito da me e da quelli come, cinquantenni europei, che hanno visto la vecchia Coppa dei Campioni a 32 squadre, sorteggio integrale ed eliminazione diretta, sembra essere ormai saturo. La pandemia è stato un enorme acceleratore della profonda crisi economica dell’intero sistema calcio europeo e la soluzione immaginata all’interno di un sistema capitalista è stata quella dell’ampliamento del mercato. Andrea Agnelli è stato chiaro: il calcio, non più uno sport, ma un prodotto di entertainment, può ampliare il mercato contendendosi ai videogames i bambini e gli adolescenti. La FIFA è stata, nei fatti, altrettanto chiara e sta organizzando un mondiale in Qatar prendendo i soldi di un nuovo mercato incurante di 6500 operai morti nei cantieri di costruzione degli stadi, secondo un’inchiesta del Guardian.

Il progetto Super League rientra perfettamente nelle logiche, nei fatti e nelle parole di questi anni e per me la sorpresa è stata nella tempistica e in quella che è sembrata una dilettantesca gestione della strategia di quella che prevedibilmente sarebbe stata una lotta contro UEFA, FIFA e federazioni nazionali, piuttosto che nella sostanza del progetto stesso. Le squadre con più potere contrattuale e più forza del mercato hanno provato ad accelerare su una strada già tracciata, immaginando entrate sicure per sé stesse in un sistema chiuso o semichiuso. Le vaghissime rassicurazioni circa un’ipotetica redistribuzione, la convinzione che l’ampliamento del mercato si traduca automaticamente in un ampliamento dei ricavi e che, dogmaticamente, i relativi benefici economici si possano automaticamente propagare dal vertice alla base, non hanno convinto gli altri attori del sistema e le istituzioni calcistiche nazionali ed internazionali terrorizzate che potesse esserci qualcuno più avido e spregiudicato.

Il progetto non ha funzionato anche perché non è giunto alle sue estreme conseguenze, immaginando davvero un sistema chiuso sulla falsariga degli sport professionistici americani e indipendente da UEFA E FIFA. La pretesa volontà di rimanere all’interno dell’attuale sistema, di continuare a partecipare ai campionati nazionali, inevitabilmente svuotati di pathos e di significato dall’assenza di competizione per i soldi veri garantiti dalla qualificazione alle competizioni internazionali è stato a mio parere il punto più debole dell’operazione. Una debolezza, una concessione dei 12 club fondatori a quella che Emanuele Atturo ha definito la cultura delcalcio. In fondo l’indizio più evidente che persino loro non credono fino in fondo alla possibilità di staccare l’entertainment dalle radici dello sport. Non basterà a cambiare la direzione di una strada già tracciata. D’altronde perché dovrebbe essere il calcio, che nella sua espressione d’élite è una delle più grandi industrie del pianeta, a cambiare le logiche che governano il mondo intero, se nemmeno la pandemia sembra riuscire a intaccarle?


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