Sven-Göran Eriksson passeggia all’interno di stadi nei quali in passato è stato acclamato e fischiato, con il viso e il corpo stravolti dalla malattia e da tutto ciò che è necessario per provare anche soltanto ad alleviarne l’impatto devastante. Ci fa l’effetto di un secchio d’acqua gelata che ci colpisce mentre siamo stesi al sole, con gli occhi socchiusi e la testa altrove. In fondo, però, è anche un’immagine ci fa sorridere. Perché ci ricordiamo dell’esistenza di un uomo garbato, che ha attraversato due decenni simbolo del nostro calcio con un aplomb da lord inglese senza mai mettersi contro nessuno per i suoi atteggiamenti.
Eriksson seduto in panchina, sorridente o preoccupato, che parla con uno dei suoi assistenti, magari saluta una curva che lo sta incoraggiando alzando un braccio in segno di saluto. Eriksson che applaude una punizione di Sinisa Mihajlovic e che lo accoglie semplicemente dandogli la mano, al massimo una pacca sulla spalla. Eriksson che cerca di rimanere imperturbabile anche se intorno a lui c’è Roberto Mancini che sta perdendo la testa per l’ennesima volta. Eriksson perennemente impeccabile, con 40 gradi o sotto la grandine. Eriksson che è stato scienziato pazzo prima e gestore poi. Eriksson che nei momenti di rabbia diventava rosso in volto e si limitava a un «porca miseria».
Fatico a immaginare che ci sia qualche tifoso in grado di dire: «Ho odiato Eriksson». Qualora dovesse esistere, probabilmente non sarei nemmeno particolarmente curioso di scoprirlo.
Nascere in segreto
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Ha solamente diciotto anni il padre di Sven-Göran, che di nome fa Sven, quando mette incinta una ragazza di tre anni più grande di lui. E non ha il coraggio di farlo sapere in giro, anche perché nella Svezia degli anni Quaranta non è qualcosa di cui vantarsi. Non lo fa sapere nemmeno ai suoi genitori, Erik ed Ester, almeno non fino a fatto compiuto, con il nascituro che ha bisogno di un intervento d’urgenza per evitare che il giro di cordone ombelicale attorno al collo si riveli letale. Per i primi due anni di vita, Sven vive con la madre in un piccolo appartamento preso in affitto a Torsby, senza acqua corrente ed elettricità.
Ulla è una donna di ferro, cresciuta senza il padre (anche lui chiamato Sven, neanche a dirlo), un uomo che un bel giorno aveva imboccato la porta di casa e aveva lasciato moglie e quattro figli. Una mossa da reietti: a quel punto tutti, in famiglia, avevano deciso di rinunciare al cognome Svensson, adottando invece il cognome della madre da nubile, Thudén. Tutti, tranne Ulla, ragazza prima e donna poi particolarmente testarda, amareggiata per non avere avuto la possibilità di studiare, costretta a lavorare fin da piccola, ferocemente credente. Soltanto dopo i primi due anni di vita di Sven-Göran arrivano le nozze e la convivenza, con l’accettazione da parte dei nonni paterni di una relazione che era stata vista come fumo negli occhi. È un ménage familiare destinato a durare poco. Papà Sven deve partire per il servizio militare: «Mia madre ha fatto qualsiasi cosa per me. Io dovevo essere la sua rivincita per questa vita».
Il primo approccio del giovane Sven-Göran con lo sport, per assurdo che possa sembrarci adesso, è il salto con gli sci, con tutti gli inconvenienti del caso, come quella volta in cui, cadendo sulla schiena, si fa male a tal punto da non riuscire a sedersi per una settimana. Quando non salta con gli sci, gioca a hockey su ghiaccio. Il calcio si manifesta soltanto nei momenti in cui il clima lo consente, in primavera. Il suo idolo è Kurt Hamrin, ammirato su una televisione di qualche amico durante i Mondiali casalinghi del 1958. Per Sven-Göran, che ha dieci anni, il torneo perso in finale contro il Brasile è quello del definitivo innamoramento nei confronti del calcio: «Hamrin era il nostro giocatore preferito, ma dopo quel Mondiale volevamo tutti essere Pelé».
Un anno più tardi, la famiglia Eriksson riesce finalmente a trasferirsi da un piccolo bilocale a una casa costruita appositamente per sopportare una famiglia resa più ampia dall’arrivo di Lars-Erik: a scatenare la decisione di Ulla, un faccia a faccia tra Sven-Göran e un ratto avvenuto sul divano. L’ultima goccia. È grazie all’arrivo di Lars-Erik che nella vita di Sven-Göran arriva il nomignolo che lo accompagnerà per tutta la vita, Svennis. Che nel frattempo diventa adolescente e inizia a lavorare come apprendista in un forno guidato dall’allenatore delle squadre senior di calcio e hockey, il signor Olsson. A volte lo osserva mentre traccia con il dito alcuni schemi nei cumuli di farina.
La carriera di Eriksson da calciatore inizia a 16 anni, quando Olsson gli comunica che dovrà giocare titolare in una partita di quarta divisione. È un terzino di grande corsa e applicazione, non particolarmente raffinato tecnicamente. Si fatica a immaginarlo come un elemento in grado di scalare gerarchie sociali grazie al successo nel calcio. Continua a giocare, alternando le partite e gli allenamenti al lavoro in un ufficio assicurativo di zona. E una sera, davanti ai suoi amici, riuniti a Torsby nel periodo natalizio, probabilmente brillo, dichiara: «Io un giorno diventerò famoso», suscitando le risate di tutti e l’inevitabile domanda. «Famoso per cosa?». Svennis risponde che non lo sa, che non ha ancora deciso. Mentre lo dice, si rende conto di aver detto qualcosa che non corrisponde al suo carattere schivo, alla sua persona. «Ma io sapevo di essere speciale. Mia madre me lo aveva detto sempre».
Nel segno di Tord
Svennis decide di riprendere gli studi che aveva abbandonato in passato, per la viva felicità di mamma Ulla, ma vuole studiare economia e questo lo porta a dover lasciare la regione del Värmland e a cambiare squadra: firma con l’SK Sifhälla, un club di terza divisione che gli garantisce un appartamento gratis in cambio delle sue prestazioni. La squadra ha sede a Säffle, una ventina di chilometri mal contati da Åmål, dove Eriksson prosegue gli studi. E dove, seduto in un locale, un giorno vede Ann-Christine, che di punto in cambio lo aiuta mentre sta giocando a carte con gli amici: essendo seduta alle spalle dell’avversario di Svennis, gli segnala quali carte ha in mano. Ha cinque anni in meno di Eriksson, ma tra i due è subito colpo di fulmine. Diventerà sua moglie e la madre dei suoi due figli, Johan e Lina.
Pensa sempre di poter arrivare a giocare nella massima serie svedese mentre cambia totalmente rotta per quel che riguarda gli studi: vuole insegnare educazione fisica. Fa domanda per entrare in una scuola a Örebro e ciò comporta un altro trasferimento, di sede e di squadra. Ottiene un provino con il KB Karlskoga, club di seconda serie allenato dal 34enne Tord Grip, tre presenze nella nazionale svedese, che ricopre la veste di giocatore-allenatore. Il livello è più alto rispetto alle qualità di Svennis, e nel suo ruolo, terzino destro, ci sono già due giocatori affermati. Viene però aggregato alla squadra riserve e ogni tanto riesce a guadagnarsi una panchina nelle partite domenicali. A 25 anni riesce a esordire in seconda serie. Il tempo passa ed Eriksson inizia ad affinare la conoscenza del gioco. Durante una partita contro l’Helsingborg, messo particolarmente in difficoltà da un esterno velocissimo, si confronta con il nuovo allenatore, l’ungherese Moré, proponendogli di farsi aiutare da un raddoppio di marcatura da parte del centrale di destra.
Arrivato a 27 anni, Svennis inizia seriamente a pensare di appendere gli scarpini al chiodo, aiutato da un infortunio alla caviglia che gli sta dando il martirio. Poi, un giorno, arriva una telefonata. È Tord Grip. «Sven, è ora di smettere. Vieni a lavorare con me». Grip, che ha appena lasciato l’incarico di allenatore all’Örebro, ha accettato l’offerta del Degerfors, club nel quale ha militato per dieci anni da calciatore, e vuole quel terzino diligente ma senza particolari qualità tecniche nel suo staff. Svennis dice sì e la sua vita cambia.
Grip ha visto qualcosa in Eriksson, è convinto che quel ragazzo possa diventare un allenatore. Ne è così convinto da ingaggiare un duello aspro con la dirigenza del club, che inizialmente si rifiuta di mettere sotto contratto un 27enne che si presenta senza la minima esperienza da assistente allenatore e una carriera marginale nelle minors svedesi. Grip fa pesare il suo status e anche quello, tutt’altro che irresistibile, del Degerfors in quel momento: un club finito in terza serie dopo un passato glorioso. La rivoluzione di Grip passa dalla volontà di adottare un modulo che nelle serie inferiori della Svezia degli anni Settanta praticamente non esiste, il 4-4-2. A portarlo per primo nel Paese scandinavo era stato Bob Houghton, l’inglese che aveva preso le redini del Malmö nel 1974, seguito a ruota da un suo amico, Roy Hodgson, alla guida dell’Halmstads.
Adottare il 4-4-2 vuol dire rinunciare al libero, dare grandi incarichi offensivi ai terzini, lavorare molto sull’interazione degli elementi delle catene delle corsie. È una rivoluzione. Grip ed Eriksson si concentrano tantissimo sulla tattica, qualcosa di impensabile a quei livelli e in quel periodo. La squadra vince agevolmente la stagione regolare ma si sfalda durante i playoff promozione. Nell’inverno del 1977, a squillare è il telefono di Grip: lo vuole la Federazione svedese per un ruolo da assistente nella Nazionale maggiore. Grip accetta e avverte il Degerfors: l’uomo giusto per proseguire il lavoro impostato l’anno precedente è Eriksson. Anche se non ha ancora il patentino. Il giorno della discussione della tesi è il 7 luglio 1977, la data scelta per il matrimonio con Ann-Christine: Svennis, non si sa come, riesce a convincerla a far slittare le nozze di due giorni. Presenta una tesi sul 4-4-2, sull’importanza del pressing alto e dell’aiuto tra compagni, sulla necessità di mantenere l’assetto tattico qualunque cosa accada. Passa l’esame, ottiene il patentino e il 9 luglio si sposa.
La sua prima stagione da allenatore scivola via come era andata quella da assistente: campionato dominato, promozione saltata durante i playoff. A quel punto contatta Willi Railo, uno psicologo dello sport norvegese, e gli chiede se può avere un confronto con i suoi ragazzi. In quel momento storico, sembra una pazzia: Eriksson, da questo punto di vista, era avanti di trent’anni rispetto alla concorrenza. Introduce i metodi di Railo nella routine dell’anno successivo e li manterrà come cardine per tutta la sua carriera. Al terzo tentativo, il secondo con Eriksson in carica, il Degerfors sale in seconda serie facendo filotto ai playoff. Il suo contratto con il club è scaduto, la società lo convoca per una riunione nel bel mezzo dell’autunno, Eriksson si immagina sia il momento dell’offerta di rinnovo ma nel vertice si parla soltanto di giocatori e non di prolungamento del rapporto. Svennis torna a casa furioso ma alla porta trova sua moglie, raggiante. Ha appena ricevuto una telefonata a casa dalla dirigenza dell’IFK Göteborg, che vuole Sven. «Dimmi che non hai firmato il rinnovo con il Degerfors», gli dice. No, non ha firmato. Ma non si capacita dell’eventuale offerta dell’IFK: «Avrai capito male…».
Il treble
Anki, il soprannome di Ann-Christine, non ha capito male. Bosse Johansson richiama il giorno dopo, riesce a parlare direttamente con Sven. Non c’è dubbio, lo vogliono per la prima squadra, non per un incarico da assistente o per le giovanili. Neanche il tempo di attaccare e il telefono squilla di nuovo. Il presidente del Göteborg, Bertil Westblad, mette subito in chiaro a Eriksson che non era la prima scelta: l’obiettivo del club era John Greig, manager dei Glasgow Rangers, ma la differenza temporale tra la stagione svedese (concentrata tra aprile e ottobre) e quella del resto del calcio europeo aveva reso impossibile il tentativo. A quel punto, Westblad aveva chiesto al tecnico uscente, Hasse Karlsson, se ci fosse, in giro per la Svezia, qualche allenatore con idee innovative sul quale puntare. Karlsson si era ricordato di quella tesi, che il 7 luglio 1977 aveva discusso con Eriksson: era lui, infatti, a fare le domande in commissione.
Svennis eredita una squadra reduce da un terzo posto in classifica ma abbastanza in avanti con gli anni. Eriksson ne ha appena compiuti trenta, è più giovane di molte delle stelle che dovrà allenare, e alle spalle ha solamente due stagioni di esperienza, peraltro in terza serie. Ci sono tutti gli ingredienti giusti per un disastro epocale. Durante lo stop invernale, Eriksson parte e va in Inghilterra a guardare gli allenamenti dell’Ipswich, guidato da Bobby Robson, che accetta non solo di incontrarlo, ma lo porta con sé in panchina per una partita contro l’Aston Villa. Quando si presenta al gruppo del Göteborg, Eriksson è sicuro di avere successo. Inizia il lungo lavoro di preparazione, pretende che il pallone sia sempre al centro di tutto, metodo decisamente innovativo per il calcio svedese dell’epoca. Ma esige anche che ogni giocatore sappia sempre, in ogni situazione, cosa fare di quel pallone. Il ricordo che molti di noi hanno di Eriksson, nei suoi anni sampdoriani e laziali, è quello di un gestore di grandi campioni, di un allenatore votato al compromesso, non particolarmente rigido dal punto di vista tattico. Ma è un Eriksson lontanissimo da quello degli inizi, che sfiancava i suoi giocatori a forza di esercitazioni ripetute allo sfinimento. Tutto doveva essere perfettamente codificato, la squadra doveva muoversi in maniera armonica.
Il Göteborg arriva secondo a un solo punto dall’Halmstad il primo anno (vincendo la Coppa di Svezia) e terzo nella seconda stagione. Il 1981, invece, comincia nel peggiore dei modi, con tre sconfitte di fila. Dopo aver perso 1-0 in casa con il Djurgården, Eriksson si presenta dai dirigenti: «Se volete cacciarmi, lo capisco». Westblad gli risponde che non hanno la minima intenzione di farlo, ma Sven ripete la domanda ai suoi giocatori: «Se volete che io mi dimetta, lo farò». Anche dalla squadra riceve piena fiducia.
La stagione viene rimessa in piedi, il Göteborg chiude ancora terzo. Ma nella coda del 1981, succede qualcosa. L’IFK supera agevolmente il primo turno di Coppa UEFA, spazzando via i finlandesi dell’Haka, e ha la meglio in un incredibile doppio confronto con lo Sturm Graz, rimontando dal 2-0 fino al 2-2 in Austria con una doppietta di Nilsson e strappando il pass con un rigore di Fredriksson all’89’ del match di ritorno, finito 3-2. Chiude il 1981 superando con un secco 4-1 la Dinamo Bucarest, sempre trascinato dai gol di Nilsson, e strappa così il pass per i quarti di finale: a marzo del 1982 sfiderà il Valencia. Al Mestalla, dopo 18 minuti della partita d’andata, si è già sul 2-2. Finirà così, un risultato che sorride non poco agli svedesi. Eriksson ha dovuto cambiare la routine di preparazione, perché il campionato inizierà soltanto a fine aprile, ma qua si sta giocando la Coppa UEFA (e il futuro) nella prima metà di marzo. Il 17 marzo 1982 succedono due cose epocali: la prima è che il Kaiserslautern ribalta il 3-1 con cui aveva perso al Bernabeu rifilando cinque sberle al Real Madrid; la seconda è che il Göteborg elimina il Valencia, vincendo 2-0.
Gli svedesi pescano proprio il Kaiserslautern e sono tutti convinti che la finale di Coppa UEFA sarà tutta tedesca, perché dall’altra parte l’Amburgo sfida gli jugoslavi del Radnicki. L’IFK pareggia in Germania (1-1, gol del futuro comasco Corneliusson) e ottiene lo stesso risultato anche in casa, mandando la sfida ai supplementari. Serve un altro rigore di Fredriksson, ma l’impresa è compiuta. Il Göteborg, che in quegli anni è ancora un club semi-professionistico, è in finale di Coppa UEFA. Stavolta, a differenza di quarti e semifinali, giocherà la gara d’andata in casa.
Si gioca sotto una pioggia battente, il Göteborg controlla il gioco ma dopo venti minuti perde Nilsson per infortunio. Il campo è un pantano ma non si sa come, a due minuti dal novantesimo, un colpo di testa del difensore Hysen mette Holmgren solo davanti al portiere senza che il pallone venga rallentato dal fango: arriva così il gol dell’1-0. Nonostante questa sorpresa, sono tutti convinti che al ritorno l’Amburgo farà del Göteborg carne da macello. Fuori dallo stadio ci sono già le bandiere che celebrano i tedeschi come vincitori del torneo. «Mi fa piacere che i calciatori svedesi stiano tutti bene, non potranno usare scuse a fine partita», dice Ernst Happel, allenatore dell’Amburgo, una leggenda della panchina. Eriksson chiede a un inserviente del club di andare in una delle bancarelle poste all’esterno dello stadio e comprare una di quelle bandiere celebrative. Quando gli viene consegnata, si limita ad appenderla nello spogliatoio dei suoi. “In tanti mi hanno chiesto cosa avessi detto ai giocatori prima della partita, che istruzioni avessi dato. Non gli ho detto nulla, in pratica. Tutto quello che dovevamo fare, era stato già fatto. Arrivato a quel momento, io in campo avevo undici allenatori: tutti sapevano esattamente cosa fare”, ha scritto Eriksson nella sua autobiografia, dalla quale sono tratti molti dei virgolettati che si trovano in questo articolo.
Corneliusson porta in vantaggio gli svedesi contro ogni pronostico, la regola dei gol fuori casa a questo punto costringe l’Amburgo a dover fare tre gol per alzare la coppa. I tedeschi si sbilanciano e Nilsson si lancia in una splendida azione personale per il 2-0, procurandosi anche il rigore del tris. I cinquemila tifosi svedesi cantano mentre Eriksson, al momento della festa, si ritrae. «Penso non esista una mia foto con la Coppa UEFA in campo dopo la partita. Non volevo essere fotografato insieme a Gunnar Larsson, il nuovo presidente, in carica da poco prima della finale. Era un uomo forte della scena politica locale ma a malapena mi salutava e lo stesso faceva con i giocatori. E me lo sono ritrovato sul campo a fare le foto con la coppa, in posa. Bertil Westblad e gli altri membri del board avevano reso possibile tutto quello, alcuni di loro avevano messo l’ipoteca sulle loro case per farci comprare dei giocatori. Meritavano di festeggiare con noi».
Eriksson e i suoi, pochi giorno dopo, vincono anche la Coppa di Svezia. A fine giugno arriva l’addio: il Göteborg vincerà anche il titolo nazionale. Per questo, nel ricordo di tutto, Svennis in quell’anno ha chiuso il treble, pur senza essere materialmente al timone a fine stagione.
Gli highlights della gara di ritorno con il commento di Nando Martellini: grazie Internet.
Benfica, primo atto
Fernando Martins, presidente del Benfica, ha il suo bel da fare per convincere la dirigenza che la scelta giusta per riportare il titolo al Da Luz è un 34enne svedese che sì, ha appena compiuto un’impresa epocale, ma finora ha allenato un club di semi-professionisti. Secondo la leggenda, durante la riunione nella quale aveva annunciato l’arrivo di Eriksson, per evitare l’astio di una ventina di consiglieri aveva addirittura finto un attacco cardiaco.
Svennis un piccolo shock ce l’ha, perché al primo allenamento si ritrova davanti 45 giocatori, un numero smisurato, insensato. Come assistente sceglie Toni Oliveira, appena ritiratosi, in grado di parlare perfettamente inglese. Eredita una squadra che non ha la minima idea di come si debba giocare a zona. Siamo nella fase di carriera in cui Eriksson è un dogmatico, non ha intenzione di venire incontro ai suoi giocatori: sono loro a doversi adattare alle sue idee di calcio, non viceversa. Una delle mosse a sorpresa dello svedese è quella di includere nel suo staff Eusebio – sì, quell’Eusebio – con il ruolo di assistente preparatore dei portieri: fino a quel momento, aveva lavorato come ambasciatore del club, ma Martins era prossimo a risolvere il suo contratto. Invece Eriksson, che durante l’adolescenza fantasticava sulle giocate di Eusebio, lo fa diventare parte integrante del suo staff: “Nonostante qualche problema alle ginocchia, aveva ancora la potenza di un cannone quando doveva tirare in porta”. Per Bento, portiere titolare di quel Benfica, sono sessioni decisamente allenanti.
Pur dovendo affrontare qualche problema di ambientamento, la squadra parte con le marce altissime, pienamente sedotta dai metodi di Eriksson: “Durante la primavera del 1983, avrei potuto dirgli che il sole era verde e mi avrebbero creduto”. Il Benfica vince le prime undici partite stagionali, è un treno in corsa. Il campionato quasi non preoccupa mentre la squadra avanza anche in Coppa UEFA, avendo chiuso la stagione precedente al secondo posto.
Elimina in fila Betis, Lokeren e Zurigo nella prima parte del torneo. A marzo, per i quarti di finale, deve affrontare la Roma di Nils Liedholm, che è in piena corsa per vincere il secondo scudetto della sua storia. Siamo all’inizio degli anni Ottanta, i diritti tv internazionali sono roba per pionieri, in Portogallo non arriva un minuto delle partite di Serie A. Eriksson, sei settimane prima del match, parte per Roma per andare a vedere la squadra del suo connazionale, la leggenda Nils Liedholm. I due si conoscono, vanno a cena insieme, parlano di calcio. Ma Eriksson ha un colpo di fulmine con Roma: «Anki, noi un giorno andremo a vivere lì», dice alla moglie appena rientrato in Portogallo.
Il doppio confronto con i giallorossi non solo sorride al Benfica, ma diventerà un tarlo nella mente dell’Ingegner Dino Viola, affascinato dal modo di giocare della squadra lusitana. Dopo aver eliminato anche l’Universitatea Craiova in semifinale, Eriksson si appresta a giocare la sua seconda finale consecutiva di Coppa UEFA, contro i belgi dell’Anderlecht. Nella gara di andata, a Bruxelles, arriva quella che è soltanto la seconda sconfitta stagionale, un 1-0 tutto sommato recuperabile. Ma sul Benfica pende la celebre maledizione di Bela Guttmann e non si va oltre l’1-1 che consegna la coppa ai belgi. Ci sarebbe da giocare anche la finale di Coppa di Portogallo, contro il Porto, ma qualcosa va storto.
A inizio stagione, la Federazione aveva designato il Das Antas, lo stadio del Porto, per la finalissima in gara secca. Il Benfica, però, non intende giocare nella tana dei rivali. Allo stesso tempo, i “Dragoni” non accettano una sede diversa da quella fissata in largo anticipo. La Federazione propone lo stadio di Coimbra come location neutrale ma Pinto da Costa, il leggendario presidente del Porto, non cede di un centimetro: ingaggia un aspro braccio di ferro, pur sapendo che potrebbe tecnicamente costargli addirittura la retrocessione. Alla fine è proprio Eriksson a convincere Martins a giocare la partita al Das Antas: la finale di Coppa di Portogallo della stagione 1982/83, però, si gioca di fatto all’inizio della stagione successiva, il 21 agosto 1983. La vince il Benfica, con un gol di Carlos Manuel.
Nell’annata 1983/84, Eriksson è convinto di poter dare l’assalto alla Coppa dei Campioni. Il Benfica elimina subito il Linfield e l’Olympiacos ma quando il torneo riprende, a marzo, deve affrontare la corazzata Liverpool: gli inglesi sono troppo forti e il doppio confronto è senza storia. Svennis si consola con il secondo titolo portoghese in due anni: nel corso delle due stagioni, le sconfitte in campionato saranno complessivamente solo tre. Già durante i primi mesi del 1984, però, Eriksson sa che il suo futuro sarà lontano dal Portogallo. Una sera, mentre sta tornando a casa dall’allenamento, viene affiancato da un taxi che suona ripetutamente il clacson e fa i fari alla macchina del tecnico. Sven accosta e inizia a parlare con il passeggero, un impiegato dell’ambasciata italiana in Portogallo. C’è un messaggio per lui da parte di Dino Viola, con le istruzioni di chiamarlo telefonicamente il prima possibile.
La mente dell’Ingegnere è rimasta ferma a quel doppio confronto di Coppa UEFA. La Roma sta facendo strada in Coppa dei Campioni e il presidente giallorosso è certo che il ciclo di Liedholm si chiuderà al termine di quella cavalcata, a prescindere dall’epilogo. Eriksson non dice immediatamente di sì, ma è consapevole che si tratta di un’occasione irripetibile. Le sirene, però, sono molte. C’è il Tottenham, con un sondaggio che non diventa mai una trattativa concreta. E c’è Helenio Herrera, che chiama per conto del Barcellona e mette anche Eriksson in guardia: le regole italiane non gli permetterebbero di sedere in panchina e prova a convincerlo ad accettare l’offerta dei catalani, che non vincono la Liga da dieci anni. Alla fine, nonostante tutto, Svennis sceglie la Roma.
Il Roma-Benfica che stravolge la carriera di Eriksson.
Roma giallorossa
Il nome di Eriksson appare accostato alla Roma per la prima volta alla fine di aprile del 1984, teoricamente in lizza per la panchina giallorossa insieme a Dino Sani, tecnico dell’Internacional de Porto Alegre, un passato da calciatore al Milan, un presente da allenatore che non ha mai messo piede fuori dal Brasile il cui più grande merito è aver lanciato in prima squadra un imberbe Paulo Roberto Falcão. Non un fattore da poco, se si considera che il brasiliano è la stella di quella Roma, leader tecnico incontrastato. Ma sono anche i mesi in cui Falcão deve rinnovare il contratto: l’appuntamento viene fatto slittare più volte. Il brasiliano, secondo le cronache, esige un contratto da tre miliardi netti e sul tavolo della trattativa mette anche una telefonata di Giulio Andreotti, che un anno prima si era speso in prima persona per far sì che “il Divino” rimanesse a Roma nonostante la corte spietata dell’Inter. Le richieste di Falcão, insomma, sarebbero anche legate alla «concessione» fatta un anno prima a Viola. La fumata bianca arriverebbe solo pochi giorni prima della finale di Coppa dei Campioni, all’ennesimo incontro tra Viola, il calciatore e il suo procuratore, l’avvocato brasiliano visionario Cristoforo Colombo Miller, il primo a curare gli interessi dei calciatori brasiliani al di fuori del mercato interno.
A metà maggio, in città sono tutti convinti che Eriksson sarà l’allenatore giallorosso, a costo di aggirare le regole piazzando nominalmente in panchina Enrico Catuzzi, zonista convinto che allena il Varese dopo aver dato vita al “Bari dei baresi”. «Ci sono delle regole sportive che devono essere rispettate da tutti. Anche lo Stato ha le sue leggi e chi non le rispetta viene punito. Ma siamo solo alle ipotesi, Viola non mi ha mai detto di voler assumere un allenatore straniero», tuona il presidente federale Federico Sordillo il 26 maggio 1984. Tre giorni dopo, lo svedese appare all’aeroporto di Fiumicino insieme alla moglie. La Roma non annuncia l’arrivo, ma ad attendere Eriksson una volta atterrato da Lisbona ci sono comunque i giornalisti oltre a Giorgio Perinetti, dirigente giallorosso che risulta particolarmente seccato dalla situazione. In realtà, la stampa non sarebbe lì per l’allenatore: il problema è che il volo di Eriksson atterra a Fiumicino soltanto tre quarti d’ora prima di quello del Liverpool. Svennis cerca un dribbling poco convincente: «La Roma non c’entra, sono qui per la finale di Coppa dei Campioni, fa parte dei miei doveri assistere a una partita del genere. Ho un contratto di due anni con il Benfica ed è difficile rescinderlo». Parafrasando un passaggio leggendario del processo Pacciani: bravo bravo, noi condividiamo. Ma ora siamo all’aeroporto di Fiumicino, Sven, e perché c’è anche tua moglie? I giornalisti sollevano il dubbio: sono per caso venuti a cercare la nuova casa? «Mia moglie mi accompagna spesso nei viaggi all’estero. Lo ripeto, sono qui come professionista, non per parlare con Viola». Soltanto al rientro a Lisbona, Eriksson esce allo scoperto e ammette i contatti con Viola. L’Ingegnere va oltre: «Ha firmato il contratto 25 giorni fa», dice alla Gazzetta il presidente giallorosso.
A questo punto si apre il duello tra la Roma e la federazione: da regolamento, infatti, Eriksson non ha i requisiti per allenare in Italia. L’uomo del momento è Catuzzi, che teoricamente sarà l’allenatore a tutti gli effetti, quello che sarà seduto in panchina durante le partite: «Arrivo per offrire il mio contributo, in umiltà. Calcisticamente sono della corrente di pensiero di Eriksson e Liedholm, non mi troverò in difficoltà, non sono un ambizioso. È la gente che spesso mi chiede: ma se Eriksson un giorno avesse la possibilità di venire in panchina, ti rabbuieresti? Rispondo che per me sarebbe meglio, Eriksson è tra i primi del mondo, da lui si può solo imparare. Condivido le sue idee e sono sicuro che ci aiuteremo e ci integreremo con la massima lealtà», dice preannunciando un imminente incontro con lo svedese.
Intanto Viola impazza: al Processo del Lunedì dice che se Eriksson dovesse andare in tribuna non sarebbe un problema, perché la partita si vede meglio da lì e il fatto che un allenatore sia o meno presente in panchina non sposta alcunché. Poi, però, succede qualcosa di totalmente inaspettato. Catuzzi ha un moto d’orgoglio, rifiuta di fare il prestanome. Diserta l’incontro previsto con Eriksson e Viola. Circolano due versioni: la prima è quella della volontà di non fare il secondo, l’altra riporta invece una sorta di ragione di stato. Meglio non mettersi contro tanti colleghi, prestandosi a quella che è un’aperta violazione delle regole. Viola propende per questa seconda versione: «Gli avevo dato tutte le garanzie possibili, evidentemente si è lasciato condizionare da pressioni arrivate da esponenti dell’organizzazione calcistica». Tecnicamente, Eriksson viene messo sotto contratto come «coordinatore del centro di Trigoria». Sta aprendo, insieme a Viola, una strada dalla quale non si tornerà più indietro. Ne è convinto, per esempio, “el Flaco” Menotti, che sta lasciando il Barcellona e si candida per una panchina italiana: «Eriksson aprirà la strada a tutti noi: è assurdo che i tecnici stranieri non possano portare le loro esperienze nel campionato più bello che esiste». Viola aspetta l’assemblea generale della FIGC del 29 luglio come la resa dei conti.
Il problema di Eriksson non è solo il fatto di essere straniero – sta infatti per prendere l’eredità di Liedholm – ma di non aver preso il patentino da allenatore nel nostro Paese. Nel 1965 – un anno prima del tracollo contro la Corea ai Mondiali del 1966 – il presidente federale Pasquale aveva varato la chiusura delle frontiere: un blocco che valeva anche per gli allenatori. In quel periodo, ad allenare nel nostro Paese erano stati dunque solo gli stranieri che si erano già messi in regola in termini di patentino: i vari Pesaola, Angelillo, Lorenzo, Liedholm, Vinicio. Alla fine l’uomo che accetta di ricoprire il ruolo di allenatore al fianco di Eriksson è Roberto Clagluna, con un lungo passato alla Lazio, Seminatore d’Oro per il settore giovanile nel 1974. Lo svedese assiste per tutto il mese di giugno alla fase finale della Coppa Italia, vinta proprio dalla Roma nella doppia finale contro il Verona, con il match conclusivo giocato all’Olimpico il 26 giugno (1-0, autogol di Ferroni, dopo l’1-1 del Bentegodi).
In quei giorni, Viola è un fiume in piena: dichiara di subire ostracismo generalizzato sul mercato dagli altri club, diretto dalla Juventus. «I casi sono tre: o la Roma non sa trattare, o la Roma non può trattare, o la Roma non ha estimatori. Roma è ricca di volontà selvaggia, di possibilità di potere. Rappresenta una città invidiabile e rimane a mani vuote. Questo mercato è uno schifo, da mesi lottiamo contro i fantasmi. La nobiltà è proibita dalla costituzione però le vecchie signore ci sono ancora».
La prima intervista romanista di Eriksson lo vede pienamente ligio al copione: «Sarò il direttore del gioco del calcio della società, dal basso alla vetta. Non avrò alcuna responsabilità di ordine economico, il mio posto non sarà in panchina ma in tribuna. Ma sono sempre più numerosi gli allenatori che seguono la squadra dalla tribuna, si sopravvaluta il ruolo dell’allenatore in panchina: chi vuole che mi senta quando gli spettatori urlano come forsennati?». Viola rilancia: «Eriksson sarà il nostro consigliere tecnico. A lui faranno capo tutti i problemi tecnici. Una cosa sia chiara: il nostro allenatore in prima è Roberto Clagluna, un giovane tecnico nel quale abbiamo la massima fiducia. Ho chiamato Eriksson perché in questi anni ho notato che esiste un vuoto pauroso tra società e rispettive squadre, credo di aver colmato questo vuoto. In Italia non c’era nessuno con le sue caratteristiche».
Eriksson deve iniziare a gestire un carico di pressione al quale non è abituato. Gli rinfacciano la scelta di aver rinunciato ad Agostino Di Bartolomei, le dichiarazioni di Clagluna che si dice pronto a guidare la squadra («Tra me ed Eriksson non ci saranno conflitti, sono l’allenatore, non un prestanome»), lo pressano sulla presenza ingombrante di Falcão, travolto dalle critiche per non aver calciato il rigore contro il Liverpool. Deve, soprattutto, convivere con l’eredità di un ciclo straordinario: in cinque anni, Liedholm ha portato a casa uno scudetto, due secondi posti, tre Coppe Italia e ha sfiorato il tetto d’Europa.
Il mercato della Roma è malinconico: arrivano Buriani e Antonelli in fase calante, viene riportato in giallorosso Iorio dal Verona. È un’estate in totale controtendenza con quella del calcio italiano: si tratta, infatti, dell’ultima stagione in cui poter far arrivare nuovi giocatori stranieri prima di uno stop triennale. Sono le settimane degli arrivi di Maradona e Rummenigge, Elkjaer-Larsen e Briegel, Hateley e Leo Junior, Souness e Socrates. I giornali fanno passare Eriksson per un folgorato: «Fumare fa male, bere alcolici pure, il caffè dopo cena non è consigliabile ai più nervosi, tutti a letto alle 23», confessa nel primo giorno di ritiro. Osservazioni banali, impossibili da smentire. Eppure scatta immediato il paragone con Liedholm, decisamente più permissivo: si ricorda il quantitativo di sigarette giornaliere fumato da Nela, la tendenza di alcuni atleti a far tardi la sera, fin dopo la mezzanotte. E si ripesca l’antica massima di Nils: «Guai se il calciatore italiano capisce che lo stai torchiando». Intanto viene scollinata l’attesa assemblea federale di fine luglio che vede la rielezione di Sordillo: per la FIGC, semplicemente, il problema non esiste, in quanto nei quadri della Roma è Clagluna a figurare come allenatore.
Il 23 agosto, con l’invio di un telex all’attenzione della FIGC, l’Associazione Italiana Allenatori Calcio chiede che “venga chiarita e definita la posizione degli allenatori Eriksson e Clagluna rispetto ai regolamenti vigenti. L’Associazione, venuta a conoscenza che gli stessi tecnici svolgono insieme attivamente e fattivamente gli allenamenti settimanali, ritiene che siano palesemente in contrasto con le norme federali”. Viola ribatte subito: «Eriksson è cooptato nel consiglio direttivo, non sarà tesserato. Invece di chiedermi se ho violato la norma che impedisce l’assunzione di tecnici stranieri, perché non mi viene chiesto se uno straniero può o non può entrare nel consiglio direttivo di una società di calcio? Un regolamento, in tal senso, non esiste». A inizio settembre il caso è all’ordine del giorno del consiglio federale. E decide di non decidere: di fatto, la Roma non sta violando alcuna norma, quindi Eriksson rimane consigliere tecnico del club. Non solo: la FIGC dà disposizioni al settore tecnico di studiare l’inserimento dello svedese nelle strutture ufficiali, chiedendo in sostanza se abbia i requisiti per ricoprire il ruolo di direttore tecnico, quello sì normato a livello regolamentare.
Nelle prime otto giornate di campionato, la Roma perde una sola volta: il problema è che non vince mai. Avanza nel girone iniziale di Coppa Italia, si qualifica a fatica agli ottavi di Coppa delle Coppe superando la Steaua Bucarest soprattutto grazie alle parate di Tancredi. E dopo l’andata, vinta 1-0 con gol di Graziani, Pruzzo spara: «Qui si rischia di rovinare cinque anni di lavoro». Poi sparisce alla vigilia della partita con il Como, ufficialmente per motivi familiari: ma emerge subito che Eriksson gli aveva comunicato la decisione di lasciarlo in panchina. Con i lariani finisce 1-1 e dall’altra parte segna un vecchio amico di Svennis, Corneliusson. Ancora Pruzzo: «Non si capisce più nulla. Non so ancora se Eriksson e Clagluna collaborano o se uno dei due è più importante dell’altro. Eriksson ha un modo di vedere il calcio che non concorda affatto con il mio, parla sempre al gruppo, mai al singolo, a parte quando decide di farti fuori. Lo scorso anno si vinceva tenendo il pallone, sapevamo che prima o poi si trovava la via del gol. Eriksson ha rivoluzionato tutto, pretende rapidità e lanci lunghi, col risultato che regaliamo il pallone agli avversari. In difesa non abbiamo giocatori, in attacco siamo troppi e qualcuno deve uscire: ma che razza di programmazione ha fatto la società? I tifosi ci hanno voltato le spalle, lo stadio presenta ampi vuoti, non c’è più entusiasmo. Se non ci sarà una svolta, l’anno prossimo taglio la corda e tanti saluti: se poi mi faranno saltare la mosca al naso dirò veramente quello che penso e prenderò decisioni clamorose. È un caso che sia stato messo fuori l’unico giocatore che ha avuto il coraggio di criticare il gioco della Roma?».
La già citata sconfitta delle prime otto giornate arriva contro il Milan di Liedholm e Di Bartolomei, che trova pure il modo di andare in gol: «Non parliamo di vendetta, sono un buon cristiano e mi affido sempre a Dio. La vendetta non so neppure cosa sia. Ma se Dio ha voluto così, una ragione ci dovrà pure essere», dice Ago. Sullo sfondo c’è anche il braccio di ferro tra Viola e Falcão, che prova a recuperare dai suoi problemi fisici e poi sbotta di colpo: «Ho perso i toni muscolari causa infortuni, rischiando assurdamente senza preparazione nelle sei partite in cui ho giocato da inizio stagione. Non si può resistere sempre quando mettono in dubbio il tuo attaccamento al club, quando i medici ritengono infondate le perplessità, quando sei considerato indispensabile. Viola vuole gli operai al lavoro, soprattutto quelli di lusso. Lui paga, ha ragione, ma anche io non ho torto. Per la fretta di entrare nei nuovi schemi, ho sbagliato tutto». Riapparirà in campo a metà dicembre, contro il Napoli, salvo partire per gli Stati Uniti per provare a capire cosa sta accadendo al suo ginocchio sinistro.
La prima vittoria in campionato arriva il 18 novembre con la Fiorentina. Sette giorni dopo, ad Ascoli, va in scena uno spettacolo d’arte varia: Ascoli-Roma 0-0 vede infatti i due allenatori vicini in tribuna, perché Costantino Rozzi ha approfittato della battaglia di Viola per portare in Italia Vujadin Boskov, “fuori legge” come Eriksson. Dopo una partenza lenta, la squadra inizia a digerire il nuovo tecnico. Chiude il 1984 con tre vittorie di fila, la seconda sconfitta stagionale arriva solamente a metà febbraio, con la Sampdoria, proprio quando la Roma era risalita a -4 dal Verona capolista. È una sconfitta che ammazza la stagione, seguita dal secondo KO con il Milan di Liedholm (con tanto di accoglienza polemica nei confronti di Di Bartolomei e l’ex capitano che viene aggredito da Graziani a fine partita: «Se non fosse intervenuto Terraneo, non so se mi sarei rialzato») e poi dall’1-0 del Bentegodi.
Si pensa che Eriksson possa andare per la prima volta in panchina in occasione dell’andata dei quarti di finale di Coppa delle Coppe a Monaco di Baviera, ma assiste dalla tribuna al tracollo col Bayern. La prima stagione romanista di Svennis si chiude mestamente, tra goffi dribbling regolamentari, uno spogliatoio ancora non pienamente sedotto dalle idee dell’allenatore e il sorprendente scudetto del Verona: «Era stata di gran lunga la peggiore stagione che io avessi vissuto da allenatore fino a quel momento».
A metà giugno, arriva finalmente il nuovo regolamento che consente a Eriksson e Boskov di sedersi in panchina. Inizia anche la battaglia legale tra Viola e Falcão, con il tecnico che cerca di rimanere ai margini e di concentrarsi sul campo. Il nuovo secondo straniero al fianco di Cerezo è Zbigniew Boniek, un giocatore che sembra progettato per assecondare le richieste di Eriksson in campo: «Veloce, tecnicamente brillante, vincente, con una personalità in campo che io non avevo mai visto. Era esattamente quello di cui avevamo bisogno». Al fianco di Eriksson non c’è più Clagluna, bensì Angelo Benedicto Sormani, decisamente meno ingombrante del predecessore. Sta per iniziare una delle stagioni più incredibili della storia della Roma.
Prende il via con un rendimento zoppicante soprattutto nelle sfide in trasferta, sconfitte pesanti a Bari e Avellino seguite dai rovesci in casa di Inter, Juventus e Sampdoria. Senza coppe europee, Eriksson era convinto, a inizio anno, di poter lottare per lo scudetto: «Avremo una squadra corta, veloce, aggressiva, tutto pressing. Una squadra di atleti veri, senza stelle. Avete visto Pruzzo? È magro da fare invidia, ha già fatto cose che non gli sono mai riuscite in precedenza. Ha ragione Tancredi, che ha detto che grazie a Boniek potremo essere il nuovo Verona». Ma a metà campionato la Juventus gira all’insensata quota di 26 punti su 30, mentre la Roma è solamente quarta a quota 18. La corsa per il titolo sembra già finita. Poi, però, inizia il girone di ritorno: 4-0 all’Atalanta, 0-2 a Udine, 2-1 al Bari, 2-0 al Napoli, 0-1 in casa del Torino, 5-1 all’Avellino con Pruzzo che segna tutti e cinque i gol. Mentre la Roma vola, la Juve torna sulla terra: ora i punti di distanza sono solamente tre e i giallorossi sono secondi.
La Juve riallunga fisiologicamente, ma alla venticinquesima giornata c’è lo scontro diretto all’Olimpico che può riportare ancora la Roma a -3. È una mattanza. Qualche settimana prima del confronto tra le due squadre, Eriksson ha ricevuto dal suo procuratore un’offerta shock: non è il rinnovo proposto dalla Roma, bensì la Juventus che gli offre la guida tecnica del post-Trapattoni, destinato a lasciare i bianconeri dopo dieci anni gloriosi. Eriksson rifiuta. E il big match, se possibile, assume un valore ancora più pesante. Dopo tre minuti la Roma è già avanti con un colpo di testa di Graziani su corner. Boniek si divora due volte il raddoppio, capitan Ancelotti gioca una partita sontuosa e il suo cross per Pruzzo è un gioiello: 2-0. L’attaccante si fa espellere nella ripresa ma anche in dieci la Roma è straripante e cala il tris con Cerezo.
«Però non mi dici come mi sento. Mi sento molto bello», dice Viola a Galeazzi durante l’intervallo. È il momento più alto del triennio romanista di Eriksson.
Due domeniche più tardi, la Juventus si sfalda a Firenze mentre Graziani stende la Samp: -1. L’aggancio in vetta arriva il 13 aprile, con i doriani che fermano i bianconeri sullo 0-0 e la Roma che sbanca Pisa. In quel momento, non c’è nessuno che sia disposto a mettere mille lire sullo scudetto bianconero. La squadra di Eriksson ha messo insieme 23 punti sui 26 disponibili fino a quel momento nel girone di ritorno. All’Olimpico, il 20 aprile 1986, è atteso un Lecce derelitto, già retrocesso, mentre la Juventus deve affrontare il Milan. Proprio la panchina del Milan è un’altra potenziale destinazione di Eriksson, che nella primavera del 1986 partecipa a un incontro top-secret con il nuovo proprietario del club, Silvio Berlusconi, accompagnato da Adriano Galliani e Ariedo Braida. Berlusconi illustra il suo progetto futurista e lascia che siano i due dirigenti a parlare di soldi. Ma Eriksson ha un altro anno di contratto e il “Cavaliere” non ha la minima intenzione di pestare i piedi a Viola: «Non posso rubargli l’allenatore».
All’Olimpico va in scena un copione sinistramente simile a quello del pre Roma-Liverpool: le bandiere tricolori, i cappellini con la scritta Roma campione d’Italia, la passerella sul tartan dello stadio del sindaco Signorello insieme a Viola. “Prima un sogno, ora una realtà: tricolore sarà”, si legge sugli spalti. Di Roma-Lecce 2-3, di un tracollo insensato ed epocale, si è detto, sospettato, scritto praticamente tutto. Ma se è di Eriksson che stiamo scrivendo, lasciamo che sia lui a raccontare come l’ha vissuta: “Entrai nello spogliatoio all’intervallo e chiesi alla squadra cosa stesse succedendo. Uno dei giocatori più importanti mi guardò e mi disse: «Relax, mister. La vinciamo nel secondo tempo». Non capivo. Relax? Stavamo per perdere il campionato. […] Quella notte Riccardo Viola, il figlio del presidente, venne a casa mia. Mi disse che c’erano stati sospetti su cinque nostri giocatori: avrebbero scommesso sulla vittoria del Lecce al 45’. Gli dissi che non era possibile. Forse era il ragazzo di Torsby che gli stava rispondendo. L’idea che i miei giocatori avessero scommesso sulla partita mi risultava totalmente impensabile. […] Il giorno dopo, Dino Viola venne a parlarmi. Era convinto che ci fossero state scommesse illegali sulla partita al punto che le quote sul Lecce vincente al 45’ erano crollate poco prima del calcio d’inizio. Viola voleva le prove della colpevolezza di questi cinque giocatori, ebbi incontri per giorni con gli avvocati del club, ma io non sapevo nulla. Non emersero prove di tutto questo”. Si parla, ovviamente, di scommesse clandestine, in un’epoca in cui non è ancora possibile giocare alla luce del sole in un’agenzia di scommesse. È invece perfettamente lecito giocare al Totocalcio: quella domenica, nonostante un risultato apparentemente impronosticabile, escono ben 128 “tredici” alla schedina, che portano a casa 59 milioni di lire.
Il campionato è andato, la Juventus ha battuto il Milan tornando a +2 e chiude la pratica sette giorni dopo. La Roma si aggrappa alla Coppa Italia, che diventa il primo trofeo italiano vinto da Eriksson nella doppia finale con la Sampdoria, giocata in un clima surreale, con molti dei giocatori più forti delle due squadre già aggregate alle Nazionali per il Mondiale messicano. Il gol che certifica il successo romanista lo firma Toninho Cerezo, alla sua ultima partita in giallorosso: era andato anche lui in Messico, convocato da Telê Santana e poi rispedito in Italia per via di un infortunio muscolare. Aveva provato comunque a forzare il recupero per rendersi disponibile in vista della finale di Coppa Italia, andando in gol quattro minuti dopo l’ingresso in campo.
Eriksson commette l’errore di cambiare idea sul suo futuro dopo quella finale. La sua terza stagione romanista assume i contorni della catastrofe: il cambio Cerezo-Berggren non dà i frutti sperati e lo svedese, ormai alle prese con un processo di italianizzazione, già da tempo è venuto meno alla rigidità dei suoi principi. Anche per questo asseconda un desiderio di Boniek, che gli chiede di poter giocare da libero, un ruolo che mai Eriksson avrebbe accolto all’epoca della sua infatuazione per il 4-4-2 in linea: “In quella fase, avevo già iniziato a capire che ti devi adattare ai giocatori che hai a disposizione, che devi lavorare sul sistema per far sì che sia più adatto al gruppo”. Tornano gli attriti con Pruzzo, anche qualche incomprensione con Bruno Conti.
La Roma va subito fuori in Coppa delle Coppe, ribaltata dal Saragozza nonostante il 2-0 dell’Olimpico. Eriksson è sedotto da alcuni dei talenti emergenti del gruppo giallorosso ed è per questo che, nel corso della stagione 1986-87, quando parla con Viola di futuro, gli prospetta l’esigenza di una rivoluzione: gli propone la cessione di Pruzzo, Conti e Boniek. Viola non solo non lo asseconda, ma prepara il ritorno allo status quo, iniziando la trattativa con Liedholm. Dopo una sconfitta a Milano, alla terzultima di campionato, Eriksson rassegna le dimissioni. Soltanto due settimane dopo, a Göteborg, la figlia Lina, di pochi mesi, viene sottoposta a un delicatissimo intervento chirurgico per una rara malformazione cardiaca: “Da quel momento, abbiamo sempre festeggiato i suoi due compleanni: il 2 gennaio, quando è nata, e il 19 maggio, il giorno in cui è sopravvissuta”.
Firenze e Benfica, secondo atto
Eriksson non molla, vuole dimostrare anche in Italia il suo valore. Accetta così la proposta della Fiorentina, che vive la fine di un’epoca: è la prima stagione senza Giancarlo Antognoni. Pur essendo più malleabile rispetto al passato, Eriksson deve comunque ribaltare le convinzioni di una squadra abituata a difendere a uomo, introducendo la zona: anche per questo, fa arrivare a Firenze lo svedese Hysen, suo pilastro ai tempi del Göteborg.
L’esperienza di Firenze consente a Eriksson di essere il primo allenatore a poter lavorare in maniera continuativa con Roberto Baggio, reduce dal terribile infortunio che ne ha segnato la prima parte di carriera. Lo svedese vuole in qualche modo provare a rendere organico l’apporto di Baggio, i cui istinti sono ancora quelli di un meraviglioso individualista. Vuole farlo giocare più avanti, cercare di sfruttare quella capacità di calcio e creazione in zona-gol: «In quella fase era un giocatore complesso da inserire in un sistema, ma ad alcuni calciatori devi lasciare libertà per consentirgli di dare il meglio: solo così riusciranno a farti vincere. Fino a quel momento avevo allenato grandi calciatori: Nilsson, Chalana, Falcão, Boniek, Pruzzo. Talenti speciali. Ma non avevo mai avuto a che fare con uno del calibro di Roberto».
La Fiorentina chiede una mano a Carlo Vittori, l’ex allenatore di Pietro Mennea, per cercare di capire cosa non va nella muscolatura del giovane talento: è un lavoro minuzioso, che darà i suoi frutti. Eriksson lo piazza in tandem d’attacco con Ramon Diaz, a centrocampo brilla l’esuberanza di Nicola Berti. Ma l’organico non è al livello di una corsa per la zona europea, la squadra fa bene in casa e male in trasferta, inoltre soffre in maniera evidente la tragedia che si abbatte sul club con la scomparsa di Pier Cesare Baretti, ex direttore di Tuttosport, che rivestiva un ruolo di riferimento nel club dei Pontello, con l’incarico di presidente, schiantatosi alla guida del suo Cessna 172 su un costone di roccia, nascosto dalla nebbia.
La seconda stagione vede la qualità del gioco della Fiorentina crescere, anche grazie all’arrivo in rosa di un centrocampista brasiliano granitico come Carlos Dunga. Ma la società combina un disastro con il terzo straniero, la grande novità della stagione: arriva l’uruguaiano Diego Aguirre, che Eriksson ritiene non all’altezza del calcio italiano, e convince il club a sbarazzarsene ancora prima dell’inizio del campionato. Preferisce puntare su un attaccante arrivato dal Como, che va a comporre con Baggio una delle coppie di culto della Serie A anni Ottanta: la B2, Baggio-Borgonovo.
La Fiorentina ’98-’99 gioca un calcio brillante, mette in crisi tutte le “grandi” pur pagando lo scotto della discontinuità, al punto che a inizio anno Eriksson sembra a un passo dall’esonero. A tre turni dalla fine del campionato ha la qualificazione Uefa in mano ma la butta via perdendo lo scontro diretto con la Roma al Flaminio: Pellegrini si intestardisce in un’azione offensiva nonostante i richiami di Dunga, sul ribaltamento di fronte Völler mette in porta in tap-in una respinta di Landucci. Al rientro negli spogliatoi, il brasiliano stende Pellegrini con un diretto al volto.
Si arriva a fine campionato con Roma e Fiorentina appaiate, è spareggio per un posto in Europa. Ma la Fiorentina avrà Borgonovo, il suo centravanti titolare, squalificato. Eriksson deve quindi scongelare la sua riserva: a inizio anno era arrivato a Firenze un grande ex romanista, Roberto Pruzzo, che sul neutro di Perugia trova il suo unico gol in quella che poi sarà la sua ultima stagione in assoluto. Pruzzo appoggia in rete un cross delizioso di Baggio e si lancia nella sua esultanza classica. Il fortino viola regge nella ripresa, la stagione della B2 (29 gol in due) viene nobilitata dalla qualificazione Uefa.
A fine partita, nella pancia del Curi, Eriksson incontra Viola che gli stringe la mano e gli dice che aveva ragione lui, la Roma aveva bisogno di essere smantellata. «Ma c’è una cosa, Eriksson, che non le perdono: che ci ha fatto perdere con un gol di Pruzzo». Negli spogliatoi, lo svedese ringrazia i suoi giocatori per l’ultima volta. Da qualche mese ha trovato l’accordo per tornare al Benfica.
Il presidente João Santos ha un solo obiettivo: vincere la Coppa dei Campioni. Per farlo, è disposto a cacciare Toni Oliveira, che aveva preso le redini del club un anno e mezzo prima, portandolo in finale di Coppa dei Campioni da subentrato (persa con il PSV ai rigori) e al titolo nazionale nel 1989.
Eriksson, che aveva fortemente voluto Toni come suo assistente in occasione del suo primo arrivo in Portogallo, parla con il suo vecchio amico e si dice pronto a rinunciare all’incarico se questo deve provocare la sua cacciata. Toni gli dice di non preoccuparsi e di accettare, ritenendo comunque segnato il suo destino.
Ed Eriksson, con una mossa a sorpresa, pone l’aut aut a Santos: accetterà la proposta del club a patto di poter avere Toni come vice. Il board del Benfica accetta.
Inizia il solito testa a testa con il Porto per il titolo nazionale: alla fine vinceranno i Dragoni di quattro lunghezze, gestendo al meglio gli scontri diretti con il Benfica (vittoria all’andata, pareggio al ritorno). Gli acquisti di Aldair e Thern si rivelano però perfetti in chiave europea: le qualificazioni comode con Derry City, Honved e Dnipro sono il preludio a una semifinale tiratissima con l’Olympique Marsiglia. La creatura di Bernard Tapie vince 2-1 l’andata in casa ma al Da Luz, davanti a 120mila tifosi indemoniati, a 7’ dalla fine arriva il gol di Vata che, per la regola dei gol fuori casa, vale il passaggio del turno.
Non è un gol normale, però: Vata segna con il braccio. I giocatori dell’OM circondano l’arbitro, furiosi. Eriksson lì per lì non capisce ma negli spogliatoi parla con il suo giocatore, che confessa. Quando si trova in conferenza stampa, assiste da spettatore privilegiato allo show di Tapie, che irrompe davanti ai giornalisti minacciando un ricorso nei confronti della Uefa e dando addosso ai dirigenti del Benfica: «I portoghesi sono dei maiali, hanno corrotto l’arbitro, è l’unica spiegazione. Il Benfica ha ancora un potere enorme e fa paura a tanti. Quello che è successo è una disgrazia».
La finale è contro il Milan di Sacchi, ovviamente favorito. Eusebio fa visita alla tomba di Bela Guttmann nel tentativo di esorcizzare la maledizione, ma non c’è verso. L’impianto tattico di Eriksson neutralizza Gullit e van Basten, ma il Benfica non fa mai male ai rossoneri mentre Rijkaard converte l’occasione che gli capita nella ripresa e regala la coppa al Milan. Eriksson non andrà mai più così vicino al principale trofeo continentale.
Nella stagione successiva, 1900-91, Eriksson vince il suo terzo campionato portoghese al termine di un altro duello con il Porto. Lo scontro diretto del girone di ritorno, al Das Antas, ha contorni epici: i giocatori del Benfica vengono accolti a sassate sul pullman e quando entrano nello stadio trovano lo spogliatoio blindato. Viene aperto solo a un’ora dal match, ma all’interno è stata spruzzata una qualche sostanza chimica che rende l’aria irrespirabile.
Eriksson chiede dunque di poter andare in campo mentre i giocatori decidono di cambiarsi nel corridoio che porta al terreno di gioco, ma Pinto Da Costa, presidente del Porto, nega l’entrata in campo se non a mezz’ora dal match: «Mister Eriksson, lei mi piace, ma la guerra è guerra», gli dice. Il Benfica esce vincitore e ipoteca il titolo.
Ancora una volta, Svennis si lascia sedurre dalle prospettive figlie dei giovani talenti che si stanno affacciando in prima squadra: Paulo Sousa, già in pianta stabile in rotazione dalla stagione 1990-91, e Rui Costa. Rifiuta la proposta dell’Inter, che poi si affiderà a Corrado Orrico, e si concede un altro anno di Benfica, nella speranza di arrivare in fondo in Coppa dei Campioni. Dopo aver eliminato l’Arsenal al secondo turno, i portoghesi si ritrovano nel girone di semifinale con Dinamo Kiev, Barcellona e Sparta Praga.
Nonostante un avvio da incubo, in caso di impresa in Catalogna all’ultima giornata, il Benfica sarebbe clamorosamente in finale: i gol di Stoichkov e Bakero certificano però la fine del secondo ciclo portoghese di Eriksson.
Il quasi-miracolo genovese
Primavera 1992. Montecarlo, Loews Hotel. Paolo Mantovani si muove all’interno di corridoi che potrebbe disegnare a memoria senza sbagliare nemmeno una svolta. Con lui ci sono Roberto Mancini e Gianluca Vialli. Stanno aspettando che l’elicottero privato spedito a Lisbona torni con a bordo Eriksson.
La Sampdoria è un miracolo, un mix incredibile di gestione familiare e successo imprenditoriale. E non si muove foglia senza che Mancini e Vialli non sappiano di cosa si sta parlando. «Devono essere convinti anche loro che lei è l’uomo giusto per noi», dice Mantovani a Eriksson, poco dopo avergli stretto la mano.
La Samp ha vinto un meraviglioso scudetto nel 1991 e sta cercando di fare strada nella Coppa dei Campioni 1992. In campionato le cose stanno andando male, il ciclo di Boskov è giunto al termine. Eriksson, dal canto suo, ha il tarlo di imporsi in quello che ritiene il miglior campionato del mondo, dopo aver sfiorato lo scudetto con la Roma.
L’intesa tra le parti c’è. Quando si deve parlare di soldi, Mantovani scrive su un tovagliolo la cifra percepita da Boskov. Anche questa, per strano che possa apparire, è prassi in casa Samp: durante la cena per i festeggiamenti per lo scudetto, a Mancini e Vialli che avevano chiesto a Mantovani, da un tavolo all’altro, di prolungare per due anni il contratto di Toninho Cerezo, il patron aveva risposto facendo arrivare un tovagliolo con l’annuncio di rinnovo di un solo anno.
Eriksson non fa nemmeno in tempo a leggere il numero e a ritenersi soddisfatto che Mantovani lo ferma. «La vedo, non è felice». Si riprende il tovagliolo, scrive un’altra cifra decisamente più alta. Sven-Göran Eriksson esce dal Loews Hotel convinto di essere il nuovo allenatore della Sampdoria per la stagione 1992-93, dopo aver rifiutato gli abboccamenti del Bayern Monaco qualche settimana prima.
Adesso, alcuni mesi dopo, se ne sta serenamente in Svezia quando gli arriva una telefonata. Dall’altra parte sente la voce di Mantovani, ma è diversa. «So che non sono le cose che le ho promesso a Montecarlo e per questo motivo le dico che se ha intenzione di risolvere il contratto, per me non c’è alcun problema. Ma saremmo davvero felici di averla con noi», dice Mantovani subito dopo aver comunicato all’allenatore svedese che quella in arrivo sarà la stagione del ridimensionamento degli investimenti doriani e dell’addio di Gianluca Vialli.
Eriksson chiede tempo, ci pensa su. E dimostra, ancora una volta, di essere così ossessionato dal desiderio di imporsi in Serie A da non valutare fino in fondo i rischi provenienti da eredità così rilevanti: come aveva fatto a Roma per il post Liedholm, si accolla il dopo Boskov, che è anche e soprattutto il dopo Vialli.
Prende così le redini di una squadra totalmente ripensata, che ruota attorno al sole. Un sole che indossa la numero 10 e quando splende è in grado di fare giorno contro ogni tempesta, ma sa anche prendersi pause infinite, settimane e mesi di freddo, ombra e cattivi pensieri: «Rompipalle è una delle parole italiane che preferisco. Un rompipalle è una persona estremamente esigente, ma viene detta in modo affettuoso. Alla Sampdoria, avevamo il più grande rompipalle che io abbia mai conosciuto. Roberto Mancini era un grandissimo rompipalle. E lo dico con tutto l’affetto del mondo».
Finalmente, dopo anni di inseguimenti, Eriksson può lavorare con uno dei suoi feticci. Gliene aveva parlato, per la prima volta, Paulo Roberto Falcão, in uno dei primissimi incontri in giallorosso. Aveva magnificato le qualità di questo ragazzino, questo Mancio, appena comprato dalla Sampdoria. «Era un giocatore di intelligenza impareggiabile, che vedeva cose sul campo che nessun altro vedeva. In allenamento era un leader aperto anche ad ascoltare nuove idee. Voleva essere coinvolto in tutto. Prima delle partite era capace di chiamare il magazziniere per appurare che i calzini di tutti fossero messi in maniera corretta sulle panchine. A volte mi faceva perdere la testa: appena mi vedeva arrabbiato, veniva a chiedermi scusa. Tutti lo amavano e nessuno lo amava più di Mantovani».
Eriksson entra in questa stranissima dinamica fatta di pranzi nella villa del patron a Sant’Ilario, con la faccia di Mancini appesa in mezzo a quella dei figli. Familiarizza con le telefonate di Mantovani che gli chiede se il Mancio giocherà la domenica oppure no: in caso contrario, che senso avrebbe scendere a Marassi?
La prima stagione è di puro ridimensionamento: dal mercato arriva una gemma come Vladimir Jugovic ma anche un difensore non adatto alla Serie A come l’inglese Des Walker. Mancini è costretto a tornare all’antico, ad agire sostanzialmente da centravanti, e vive la miglior stagione realizzativa della sua carriera, con 15 gol. La Samp arriva settima, sembra aver perso definitivamente contatto con un campionato dominato dai miliardi di Berlusconi e dal blasone intoccabile di Inter e Juventus.
Così, nell’estate del 1993, Mantovani decide, per l’ultima volta, di allentare i cordoni della borsa. Arrivano a Genova Evani, David Platt e, soprattutto, Ruud Gullit. L’olandese gioca una stagione sensazionale, numero 4 sulla maglia soltanto nominale. Nel corso dell’estate, Eriksson asseconda una bizzarra richiesta dell’ex milanista: «Con la Sampdoria il clima sarà diverso, forse lo sarà anche il mio ruolo: giocherò libero, come ai vecchi tempi».
Non parla di una libertà ideale, ma proprio del ruolo di libero. Eriksson sperimenta, riflette, capisce che non può funzionare. Quando inizia il campionato, Gullit è di fatto la prima punta della Sampdoria, anche se ha libertà di coprire fette di campo mostruose con il suo atletismo insensato. La Samp si ritrova con cinque giocatori in grado di far male alle difese avversarie senza mai dare riferimenti: Lombardo, Platt, Jugovic, Gullit, Mancini.
Ma la stagione inizia con la notizia del ricovero di Paolo Mantovani nel reparto di cardiologia del Galliera, arrivata il 9 settembre. La squadra vince cinque delle prime sette partite, poi arriva la chiamata che nessuno avrebbe mai voluto ricevere. Il ciclo più bello della storia della Sampdoria si chiude il 14 ottobre 1993, con il cuore di Paolo Mantovani che smette di battere. Due giorni dopo, il funerale che attraversa la città è un corteo da esequie di stato.
La bara portata dai suoi giocatori, gli occhiali da sole per nascondere lacrime che si intuiscono copiose, la musica jazz della Heritage Hall Marching Band, arrivata a Genova da New Orleans, ultima volontà di un uomo larger than life. Davanti a Santa Teresa del Bambin Gesù ci sono striscioni, fiori, amici e avversari. Il giorno dopo c’è un’inevitabile sconfitta in campionato contro la Roma.
Ma la squadra è forte, fortissima. Ho avuto modo spesso di parlarne con tifosi della Sampdoria e molti di loro sono convinti che fosse persino più forte di quella campione d’Italia nel 1991. Il 31 ottobre arriva il Milan a Marassi: va avanti 2-0 e viene ribaltato dai gol di Katanec, Mancini e Gullit, in una partita contestatissima a livello arbitrale da Capello.
Il 3-2 di Gullit è una delle istantanee simbolo degli anni Novanta blucerchiati, un’esultanza potentissima in faccia a uno dei suoi più acerrimi nemici: i rossoneri non perdevano in trasferta da 896 giorni e salutano la vetta della classifica dopo 72 turni consecutivi. La Samp è prima in classifica, insieme alla Juventus. Ma una settimana dopo perde una partita allucinante con il Cagliari, in dieci, sbagliando un rigore con Mancini.
La squadra rimane comunque in scia per lo scudetto fino a febbraio: dopo il 6-2 all’Udinese è a -4 dal Milan capolista, quindi perde a Parma. Non bastano tre successi di fila per accorciare il gap prima dello scontro diretto di San Siro, vinto dal Milan con gol di Massaro. La Samp chiuderà terza e con in bacheca la Coppa Italia, la seconda della carriera italiana di Eriksson.
Il passaggio sampdoriano dello svedese è soprattutto questione di incontri. Nell’estate del 1994, la Samp acquista Sinisa Mihajlovic: «Era un duro che aveva un’opinione su ogni aspetto del mondo, ma mi è piaciuto fin dal primo impatto. E aveva il miglior piede sinistro che io avessi mai visto».
Eriksson è ormai un allenatore diversissimo da quello che aveva cercato di portare in Italia concetti alieni, fondati su un pressing matto e disperatissimo, organizzato nei minimi dettagli. Adesso è un tecnico di letture, di intuizioni, oltre che di gestione sopraffina di esseri umani. E sarà questa capacità di incidere sulle convinzioni dei suoi giocatori che porterà Mihajlovic, esterno di centrocampo fino a quel momento, a trasformarsi in un difensore centrale, un anno più tardi.
La Samp ha però perso Gullit, testardo come un mulo: l’olandese accetta di tornare a Milano, dall’odiato Capello, convinto di poter vivere una nuova epoca dorata in rossonero, rigenerato dalla grande stagione doriana. A novembre alzerà il telefono: «Mister, posso tornare a Genova?».
Ma questi mesi di esitazione gli costano la possibilità di giocare la Coppa delle Coppe, dove la Sampdoria arriverà a un passo dalla finale: la sfida di Marassi con l’Arsenal è una delle più crudeli che si possano ricordare a un tifoso blucerchiato.
Un capolavoro di Mancini con i capelli corti, la «career night» di Claudio Bellucci, il disastro di Zenga sulla punizione di Schwarz.
Quelle che seguono sono stagioni tutte molto simili tra di loro, con la Sampdoria stabilmente nella parte della sinistra ma mai sufficientemente forte da poter sognare qualcosa di meglio. Per rendere il tutto economicamente sostenibile, i figli di Mantovani, con Enrico presidente, trasformano la Samp in un club improntato sul player trading: sono dunque anni in cui arrivano i vari Seedorf, Karembeu, Veron, Montella.
Il talento si valorizza e viene ceduto: non c’è nulla di male, ma vincere diventa pressoché impossibile, soprattutto in un campionato in cui continuano a regnare potenze come il Milan e la Juventus del primo ciclo di Lippi.
Nella primavera del 1997, Eriksson è pronto a chiudere la sua esperienza quinquennale alla Samp. È tutto fatto con il Blackburn, poi viene contattato da Sergio Cragnotti. E tutto cambia di colpo.
Addio al perdente di successo
Nel momento in cui arriva alla guida della Lazio, Eriksson ha alle spalle dieci stagioni da allenatore in Italia: tre con la Roma, due con la Fiorentina, cinque con la Sampdoria. Trofei vinti: due Coppe Italia. L’equazione, per l’opinione pubblica, è semplice: Eriksson è un perdente. Ma non un perdente qualunque: il perdente di successo.
È il nomignolo con cui viene ormai ribattezzato in maniera sistematica, anche più del suo primo soprannome italiano, il rettore di Torsby. Eriksson muore dalla voglia di togliersi di dosso questa etichetta e nel suo primo colloquio con Cragnotti fa le sue richieste: per vincere lo scudetto, dice, servono Mancini, Mihajlovic e Veron.
Al primo giro, il presidente gli concede solamente Mancini. Nell’estate del 1997, la Lazio inizia a cambiare forma. Arrivano, tra gli altri, Almeyda e Jugovic, i nuovi padroni del centrocampo, e torna Alen Boksic, l’unico giocatore capace di far perdere a Cragnotti l’occhio da businessman.
Nei primi mesi, Eriksson finisce nel mirino della piazza soprattutto per la decisione di lasciar andar via, a stagione in corso, l’idolo della piazza, Beppe Signori. Lo svedese ripropone il suo classico 4-4-2, Mancini fa coppia con uno tra Boksic e Casiraghi, ci sono Fuser e Nedved sulle fasce. Eriksson decide soprattutto di risolvere l’infinito dilemma rappresentato dal croato.
«Lo spirito di squadra per me è sempre stato al di sopra di tutto, ma so anche che devi fare spazio agli individualisti con un talento speciale: Alen era speciale. Aveva tutto: velocità, visione di gioco, qualità tecniche divine. Ma aveva anche una sorta di blocco mentale: in allenamento segnava senza fatica, in partita gli succedeva qualcosa. Segnò una sola volta nelle prime undici partite e chiamai a Roma Willi Railo».
Rilo, psicologo, si mette al servizio di Boksic e chiede a Cragnotti un contratto a rendimento: verrà pagato per ogni gol di Boksic. A un certo punto, il presidente, preoccupato, va da Eriksson: «Se continua così, finisco in bancarotta». Boksic vive la sua migliore stagione realizzativa, aiutato anche dagli assist di Mancini.
La Lazio abbandona la lotta scudetto dopo la sconfitta nello scontro diretto con la Juventus a inizio aprile, ma arriva in finale di Coppa Italia e Coppa Uefa: vince la prima, testimoniando il feeling di Eriksson con la competizione, superando il Milan nella doppia sfida, mentre perde la seconda contro l’Inter.
L’estate 1998 è quella in cui Cragnotti porta a Roma, in un colpo solo, Vieri e Salas. Diventa la nuova coppia gol, ma solo per una manciata di partite: Vieri si fa male al ginocchio e nei primi mesi la Lazio è non solo senza il suo bomber designato, ma anche senza Nesta, infortunatosi durante i Mondiali in Francia.
Al momento del rientro di Vieri, a gennaio, Mancini chiede udienza a Eriksson e gli propone di giocare centrale di centrocampo nel 4-4-2. «Era la cosa più stupida che avessi mai sentito: non aveva mai difeso in vita sua. Decisi di accogliere la sua proposta: “Ma devi iniziare a correre”, gli dissi. Ci accorgemmo che non ce n’era bisogno: non doveva correre quanto gli altri centrocampisti centrali, riusciva a intercettare i palloni semplicemente leggendo il gioco».
È anche l’anno in cui la Lazio butta via un campionato già vinto, perdendo la volata finale con il Milan. A salvare la panchina di Eriksson dall’arrivo pressoché certo di Fabio Capello è il successo in Coppa delle Coppe, con le reti di Vieri e Nedved che piegano il Mallorca.
Nel 1999, il disegno iniziale di Eriksson si completa. Un anno prima era arrivato Mihajlovic, piazzato al centro della difesa dopo gli anni di Samp in cui lo aveva faticosamente convinto a cambiare ruolo, e ora è la volta di Veron, a costo di rinunciare a Vieri. È una squadra che perde parte del suo peso offensivo ma che può cambiare faccia a livello tattico, passando spesso a una sorta di 4-5-1, con uno solo tra Salas e Simone Inzaghi davanti.
Eriksson che spiega alcuni aspetti tattici della sua Lazio.
Quella Lazio è una squadra ricca di uomini in grado di pensare calcio e non si può fare a meno di pensare che, in questo, Eriksson abbia avuto un impatto. Alcuni di loro sono diventati allenatori affermati a livello internazionale: Simeone (arrivato dall’Inter nell’affare Vieri), Sergio Conceicao, Mancini, Inzaghi. Ma anche Mihajlovic, Almeyda, Stankovic, Nesta.
E, in quella stagione, Eriksson se la deve vedere con un altro suo ex giocatore. «Fin dal primo giorno in cui l’ho incontrato, ho saputo che Carlo Ancelotti, il mio vecchio capitano alla Roma, sarebbe diventato un allenatore fantastico. In quella stagione ha fatto un grande lavoro alla Juventus».
Dopo aver vinto la Supercoppa Europea contro il Manchester United, la Lazio inizia un campionato in cui si trova spesso a dover rincorrere i bianconeri. Eriksson cerca di mantenere un ottimismo che talvolta si scontra con la realtà. Spalle al muro, sotto di nove punti dalla Juventus alla 26esima giornata, la Lazio si aggrappa a una speranza che pareva persa, vincendo in serie prima il derby, quindi lo scontro diretto con i bianconeri a Torino.
È la stessa combinazione di partite che un anno prima aveva sancito il tracollo biancoceleste, con il Milan passato da -7 a -1 nel giro di due giornate dopo le sconfitte nel derby e con la Juve. Stavolta le vince entrambe ma, per contrappasso, la Lazio crolla a Valencia, nell’andata dei quarti di finale, confermando l’idiosincrasia tra Eriksson e la Champions League.
Il campionato vive una conclusione imprevedibile, rimasta nella storia con l’acquazzone di Perugia, il gol di Calori, la Lazio che vince uno scudetto in differita rispetto alla conclusione del suo match con la Reggina. «Avevamo vinto. Avevo vinto. Non ricordo cosa ho fatto in quel momento, forse ho telefonato a mio padre. Quella sera dissi a Cragnotti che se avesse comprato subito i tre giocatori che gli avevo chiesto, forse avremmo vinto tre campionati invece di uno».
Pur avendo rinunciato a Vieri, la Lazio chiude con il secondo miglior attacco e un solo giocatore in doppia cifra, Salas: è una squadra in cui tutti partecipano al gioco offensivo, in cui Eriksson sublima la sua trasformazione tattica. Una formazione fluida, capace di cambiare sistema tattico a partita in corso, lasciando libertà anche di interpretazione ai suoi giocatori: capitava spessissimo di vedere Nedved accentrarsi nel cuore del centrocampo con un attaccante, solitamente uno tra Mancini e Boksic, defilato sulla corsia.
Veron aveva una libertà pressoché totale, protetto sistematicamente dalla presenza di uno tra Almeyda e Simeone, se non entrambi. Una squadra capace di aggredire gli spazi in contropiede in maniera devastante, ribaltando il fronte con uno o due tocchi grazie alla facilità di calcio di Mihajlovic, Veron e Mancini.
La parentesi laziale di Eriksson si chiuderà però in maniera brusca, nonostante la successiva vittoria della Coppa Italia e, qualche mese più tardi, della Coppa Italia.
L’Inghilterra, prima del declino
Durante l’estate del 2000, Eriksson chiama Cragnotti per comunicargli che ha ricevuto un’offerta irrinunciabile da parte di una Nazionale. «Non dirmi che è l’Italia», è la reazione immediata del patron. Non è l’Italia, bensì l’Inghilterra, un Paese che aveva rappresentato tantissimo per il giovane Eriksson, che proprio nel solco del 4-4-2 importato in Svezia dagli inglesi aveva costruito la sua carriera.
Accetta l’incarico, ma sapendo che potrà iniziare solamente l’anno successivo, vale a dire nel giugno del 2001, nel momento in cui si chiuderà la sua esperienza laziale. Per Eriksson, che nel frattempo ha visto Mancini passare dal campo al suo fianco come vice allenatore, inizia un periodo surreale: gli allenamenti della Lazio vengono presi d’assalto dalla stampa inglese e lo svedese perde il controllo della squadra.
Eriksson si dimette a gennaio 2001, il pubblico biancoceleste lo saluta in un’amichevole contro la Nazionale cinese fissata per chiudere l’anno del centenario laziale. «Non volevo andare, avevo paura, ma Cragnotti mi convinse. Il pubblico mi riservò una standing ovation, fu un addio emozionante».
Sven prende dunque le redini di una Nazionale storicamente alla ricerca di un successo, e il percorso verso il Mondiale del 2002 non è dei più semplici: senza Eriksson in panchina, infatti, gli inglesi hanno perso a Londra con la Germania e pareggiato a Helsinki con la Finlandia. Poi però l’Inghilterra vince nel suo debutto in una gara ufficiale, nel marzo 2001, a Liverpool - una città che proprio in queste settimane difficili lo ha accolto per regalargli un tributo: Eriksson è da sempre grande tifoso dei Reds - contro la Finlandia, bissando il successo a Tirana con l’Albania e vincendo anche a giugno contro la Grecia.
La partita che lascia Eriksson nella storia del calcio inglese si gioca però il primo settembre 2001, a Monaco di Baviera. «Possiamo vincere: ci serve una partita perfetta e un pizzico di fortuna», dice alla vigilia. Si mette subito male, però, perché Jancker apre le marcature per i tedeschi.
Quello che succede da quel momento in avanti rappresenta una pagina tra le più illuminate della carriera di Eriksson.
Ancora Eriksson che spiega, stavolta una singola partita: Germania-Inghilterra 1-5.
Eriksson è il primo allenatore straniero a guidare la Nazionale inglese, scelto con una mossa controcorrente da Adam Crozier, fresco di nomina a capo operativo della Football Association. La sua avventura da commissario tecnico durerà cinque anni, il tempo di affrontare due Mondiali e un Europeo. Non troverà mai più quel pizzico di fortuna ricercato nella notte di Monaco di Baviera.
Ai Mondiali del 2002, dopo aver superato un girone complesso con Argentina, Nigeria e Svezia e aver eliminato la Danimarca agli ottavi di finale, andrà a sbattere contro il blackout mentale di David Seaman, beffato dalla celebre punizione di Ronaldinho.
A Euro 2004 i suoi usciranno, ancora ai quarti di finale, pagando lo scotto di quello che è lo storico punto debole degli inglesi, i calci di rigore, nonostante la brillante intuizione di Eriksson che già un anno prima aveva inserito in pianta stabile il giovanissimo Wayne Rooney.
E lo stesso accadrà a Germania 2006, contro lo stesso avversario, il Portogallo: nel 2004 si erano rivelati fatali gli errori di Beckham e Vassell, nel 2006 quelli di Lampard, Gerrard e Carragher. Alcuni tra i migliori giocatori di quella generazione, dunque, traditi come sempre dalla maledizione degli undici metri.
In mezzo, alcuni momenti di emozione enorme, come la punizione di Beckham contro la Grecia, necessaria per strappare il pass per il Mondiale del 2002. Ma anche un rapporto particolarmente controverso con la stampa e i paparazzi inglesi, che iniziano a tallonarlo dal momento in cui mette piede in Inghilterra senza lasciargli tregua.
«L’incarico come ct dell’Inghilterra è stato il migliore che io abbia mai avuto, nonostante la stampa, la politica, gli scandali e i rigori. È l’incarico più grande che si possa avere nel mondo del calcio», ha detto, ripensando all’esperienza che, di fatto, ha finito per svuotarlo. Da quel momento in poi, Eriksson ha imboccato una strada contorta, persino difficile da spiegare se non si è all’interno del mondo del calcio per tutta la vita.
Un’esperienza fallimentare al Manchester City, un disastro alla guida del Messico mancando la qualificazione ai Mondiali 2010, disputati comunque (malissimo) da allenatore della Costa d’Avorio. Quindi un anno in ombra al Leicester, infine l’esilio cinese, anche questo senza squilli degni di nota se non i discreti piazzamenti con lo Shanghai SIPG.
L’ultimo lavoro da allenatore è alla guida della nazionale filippina: tre sconfitte in Coppa d’Asia, nel 2019, scrivono la parola conclusiva.
Per sempre
Cuccaro Monferrato, trecento anime in provincia di Alessandria, primavera del 1993. Nils Liedholm apre le porte della sua residenza a Sven-Göran Eriksson. I due, ovviamente, finiscono per parlare di calcio. Liedholm aveva annunciato la volontà di lasciare la panchina della Roma nel 1989, ma nel 1992 (peraltro dopo qualche abboccamento con Mantovani che aveva valutato l’opzione di portarlo a stagione in corso alla Sampdoria, esonerando Boskov) aveva accettato la chiamata del Verona, con risultati pessimi.
A tavola, mentre degustano i vini prodotti proprio dalla famiglia Liedholm, c’è anche il figlio di Nils, Carlo. A un certo punto, Nils fa una domanda sorprendente a Sven. «Pensi che esista qualche club che mi vorrebbe? Allenerei chiunque, anche una squadra giovanile». L’aneddoto viene raccontato direttamente dalla biografia di Eriksson, che a quel punto si lascia andare a una riflessione.
«Davanti avevo un uomo che aveva vinto tutto e non era ancora soddisfatto. Mi fece male: l’uomo che avevo avuto come idolo era ormai soltanto l’ombra della sua grandezza passata. Non ebbi il coraggio di dirgli che era arrivato il momento di fermarsi. Finalmente, Carlo si girò verso il padre e gli disse: “Papà, basta”. Quelle due parole mi rimasero nel cuore. Ma ho impiegato molti anni prima di capire il perché».
Quando finalmente anche Svennis ha capito che era arrivato il momento di fermarsi, la vita gli ha servito il conto più amaro possibile, quello di una malattia che non gli darà scampo. Lo ha annunciato al mondo con la serenità tipica dei suoi momenti migliori, rimanendo lucido, ricevendo in cambio un affetto che lo ha travolto, sopraffatto.
Ha ritrovato vecchi amici, ex ragazzi ormai diventati uomini, oltre ai tifosi che in passato lo avevano acclamato e criticato e adesso lo salutano con gli occhi lucidi come i suoi. È il piccolo lusso concesso dalla malattia, dalla consapevolezza della data di scadenza, da qualcosa di terribile nella quale trovare una piccola goccia di conforto: Eriksson si sta togliendo le ultime soddisfazioni della sua vita.
Riguardare vecchie facce, sentire abbracci che si credevano persi, tornare a sentirsi forti per qualche istante, ingannando la mente e il corpo, riscoprendosi giovani, sfrontati, invincibili.
Un’illusione che gli sta riempiendo il cuore.