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Roberto Scarcella

Come si vive Svizzera-Italia in Ticino

Il reportage di un italiano che vive e lavora in Ticino, tra sfottò, interviste e…

«Ma quindi ora tieni per la Svizzera?», mi chiede Jacopo, mio nipote, nove anni, col sorrisetto compiaciuto di chi porta avanti un tormentone familiare iniziato nel 2021, quando da Genova mi sono trasferito in Ticino. Me lo chiede durante una breve videochiamata: lui è sul divano in Liguria, io in tribuna a Gelsenkirchen, ad aspettare l’inizio di Portogallo-Georgia. Gli ho appena detto che l’Uefa ha confermato il mio accredito per Svizzera-Italia. Che finirà come è finita, e cioè malissimo, ancora non lo sapevamo.

 

Tre anni e mezzo fa, quando Jacopo era più piccolo, con aria preoccupata mi fece la stessa identica domanda. Scoppiammo tutti a ridere, ma lui era serio come possono esserlo a volte solo i bambini di sei anni.

 

Gli dissi che no, che andavo a vivere e a lavorare là, ma restavo italiano e tifoso dell’Italia. Questa scena – complici i sorteggi dell’Uefa, che pare abbia deciso, dal momento del mio trasloco, di far rigiocare Italia-Svizzera all’infinito – si è poi ripetuta molte volte.

 

Nel frattempo là ci sono andato davvero. Là – che ormai per me è qua – è Bellinzona, dove mi sono ritrovato a scrivere di calcio (ma non solo, anche di politica e costume) riferendomi agli italiani come «agli altri», a parlare di noi, chiamandoli – chiamandoci – loro.

 

In generale non è tanto male come posizione, perché ti permette di commentare senza filtri le peggiori nefandezze italiane senza poi beccarti le accuse di anti-italianità, visto da dove arrivo. Allo stesso tempo mi sono già sentito dare del “badino”: che – ho controllato – deriva da badilante, e quindi contadino. Insomma, è un modo di dare del terrone, perché si è sempre il sud di qualcun altro, ticinesi compresi, visti dagli svizzero-tedeschi come i napoletani della Confederazione, a tal punto che quando all’Olympiastadion è spuntato il cartello “Italia, lasciaci vincere e ti lasciamo il Ticino”, qualcuno che di solito offende si è sentito offeso. Badino quindi, o badola, la versione chic, diciamo così. Ma ti danno anche del ramina (la ramina era la rete metallica tra i due confini e una volta il frontaliere italiano veniva chiamato anche mangiaramina) e del ‘taglian: che può essere scherzoso e non. A volte lo capisci, a volte mica tanto.

 

Anch’io ho scritto sul giornale «di quei ‘taglian», ma era solo per prendere in giro un politico locale xenofobo e razzista. Immaginate un politico italiano che gioca con la paura del diverso e del migrante per ottenere consensi (sì, lui): in Ticino c’è chi fa la stessa identica cosa, con gli stessi identici metodi e parole, ma i discriminati sono spesso gli italiani, i cosiddetti frontalieri, gente spesso pagata con stipendi che – se vivesse in Ticino – si troverebbe sotto la soglia di povertà.

 

Un’etichetta per i ticinesi noi italiani – che io sappia – non l’abbiamo. Per commentare qualsiasi notizia dal sapore svizzero, divertente o aberrante che sia (qui un campionario: la mucca che sale sul treno, il permesso di soggiorno negato per un parabrezza sbrinato male, il fornello della raclette che va in fiamme e brucia casa, la recente legge che punisce con la multa i caroselli di auto un’ora dopo le partite) tiriamo sempre in ballo Huber, Rezzonico e Gervasoni, gli Svizzeri di Aldo, Giovanni e Giacomo. Che poi, a dirla tutta, i vecchi filmati del trio su Youtube se li vanno a rivedere anche loro.

 


Alcuni di quei video li ho guardati al lavoro, in redazione, quando il giornale è in chiusura ed è talmente tardi che tanto vale tirare ancora più tardi insieme a quelli che nei quotidiani italiani chiamiamo poligrafici e in Ticino sono l’area tecnica: che no, non è come quella che gli allenatori non potrebbero superare, ma poi superano sempre, ma è dove le pagine prendono forma, dove si scelgono le foto, dove si va per risolvere un qualsiasi problema e si fanno gli ultimi controlli prima di andare in stampa.

 

Loro sono Brian e William, una strana coppia che fin dal nome potrebbe evocare i protagonisti di una sit-com americana. Uno è ticinese doc che più doc non riesco a immaginare: tifosissimo e abbonato dell’Ambrì Piotta, squadra di hockey e orgoglio locale (gli appassionati vengono da tutta Europa per vederli giocare, con la curva infuocata che non ha nulla da invidiare a quelle del grande calcio), gran bevitore di birre, aficionado del Rabadan – il Carnevale locale spalmato su più giorni che fa paralizzare il Cantone – e non fa mai la spesa in Italia (perché «i soldi che si guadagnano in Svizzera meglio spenderli in Svizzera»), anche se è a due passi e ci vanno tutti – io compreso; l’altro, William, è nato e cresciuto a due passi da Malpensa ed è finito in Svizzera per lavoro e per amore.

 

Brian è preciso, sempre curioso, affidabile nonché un falco a scovare imprecisioni e incongruenze nei pezzi che gli passano sotto gli occhi; è uno a cui affiderei senza remore portafoglio, chiavi di casa e anche le mie scellerate decisioni al posto mio.

 

William è sorridente, caotico e perennemente con la testa sulle nuvole come capita a molti artisti: ex rapper con un discreto successo in gioventù (nel duo Palla&Lana) ora dipinge quadri iperrealisti che ti lasciano a bocca aperta e sembrano scatti di grandi fotografi. A lui non affiderei nemmeno le sorti di un pesce rosso, se mai ne avessi uno. Ma quando non c’è, la redazione è meno allegra.

 

Con loro, che non possono essere più diversi anche in come vivono il calcio (Brian lo segue, ma non ha una squadra del cuore, e se c’è l’hockey, priorità all’hockey; William è uno juventino sfegatato mai ripresosi dall’allontanamento di Dybala) ho parlato del significato di Italia-Svizzera.

 

William parte da lontano: «Ho sposato una svizzera con genitori svizzeri, nonni svizzeri, bisnonni svizzeri. Ricordo ancora la delusione nei loro sguardi la prima volta che li incontrai… si vedeva chiaramente. Oramai vivo in Ticino da una decina di anni e ho avuto modo di conoscere un sacco di persone, tutti gentilissimi come i miei suoceri. Ma tutti con la stessa espressione che cambia quando mia moglie dice ‘lui è italiano’. La frase più gettonata in risposta è ‘anche mia nonna era italiana’, giusto per metterti a tuo agio, ma è palesemente una frase di circostanza. Se non conosci l’hockey e ti trasferisci in Ticino sei praticamente tagliato fuori. Scegli una squadra tra Ambrì e Lugano, bevi birra, tra una parola e l’altra tira fuori qualche accenno di dialetto e vedrai che migliora la situazione. Con me ha funzionato, dopo dieci anni direi che mi hanno accettato anche se non bevo birra e capisco poco e niente di hockey. Quando vado a vedere l’Ambrì reagisco alle azioni perché vedo quelle degli altri, ma il disco non riesco mai a capire dov’è  Loro, anche se non sono dipendenti dal calcio come noi, durante Europei e Mondiali diventano hooligan, come la mia vicina di 80 anni, che l’altro giorno mi ha detto: ‘Ramina! Contro di noi andate a casa!’. Sentono molto questa rivalità che io non sento. La vivono come un derby e godono se perdiamo. Ma su quello li capisco, succede anche a me quando perde l’Inter».

 

L’ultima volta che l’ho sentito, due giorni prima della sciagurata partita di Berlino, mi ha detto che se avesse vinto l’Italia gli sarebbe comunque un po’ dispiaciuto per la figlia, per i suoceri, per i nostri colleghi e persino per la vicina. Ora che sappiamo com’è finita, so anche che non avrà nulla di cui dispiacersi.

 

Brian ha visto invece la prima fase dell’Europeo dalla Grecia, dov’era in vacanza. Aveva anche comprato una maglia della Svizzera per il figlio di 4 anni da fargli indossare durante le partite, ma la Grecia ha l’orologio un’ora avanti, le partite iniziavano alle 10 di sera e per il bimbo era troppo tardi. Così ha avuto la bella idea («provocatoria», mi ha detto, ridacchiandosela) di fargliela mettere sul volo che li ha riportati a casa, destinazione Malpensa: «In questi ultimi giorni di vacanza gli ho fatto rimettere anche magliette sporche di gelato, pur di avere quella della Svizzera pulita e intonsa per il viaggio». Quando l’ho sentito il giorno prima della gara, mi ha detto: «Saremo probabilmente gli unici svizzeri in mezzo a un mare di italiani. E atterreremo proprio nei minuti in cui la partita sta finendo. Voglio vedere le loro facce, soprattutto in caso di una nostra vittoria». La rivalità sportiva, per lui, nasce più che altro dalla tendenza italiana alla caciara e ai vari popopopo’ post-vittoria: «Quella è proprio una cosa che il ticinese medio non sopporta».

 

Io ancora non so chi sia questo ticinese medio, ho un paio di vicini che quando mi vedono (ma non lo fanno solo con me, sennò mi preoccuperei) si coprono quasi il volto pur di non incrociare lo sguardo, come fanno quei criminali ammanettati davanti alle telecamere dei tg; il mio (ahimè) ex vicino di pianerottolo, Andrea, invece si era presentato subito con un sorriso largo, mi bussava per offrirmi o farsi offrire la birra, giocare insieme alla Playstation, fare due chiacchiere sul terrazzo. Lavora all’ospedale di Bellinzona e tre anni fa, la sera in cui la Svizzera eliminò la Francia, era così sballottato dalla felicità e dalle birre che avrebbe voluto prendere l’auto per andare a fare i caroselli, ma non si ricordava dove l’aveva parcheggiata e alla fine era andato a festeggiare a piedi. Aveva rischiato di non vedere la partita per via di un turno cambiato (e poi, fortunatamente per lui, cambiato ancora).

 

La stessa cosa stava per accadere questa volta, quando si è accorto che il giorno di Svizzera-Italia era tra gli invitati a un matrimonio iniziato alle 5 di pomeriggio, a un’ora dal fischio d’inizio. «Ma io mi chiedo come si fa a sposarsi il giorno di una partita così? Alla sposa comunque ho detto subito di fare in fretta con la cerimonia e di mettere tante televisioni ben visibili dai tavoli. Sennò mi porto quella di mia nonna e l’attacco da qualche parte». «La rivalità? Si sente, per gli italiani c’è quello spirito di rivalsa di chi è qui, spesso, per costruisi una vita degna che non ha potuto avere in patria. Per noi è più una cosa confinata allo sport, dove l’Italia è l’Italia, che ha vinto tutto. Non mi è sembrato vero, per una volta, aspettare una partita del genere quasi da favoriti».

 

La realtà di oggi è meno netta ed è tutto più liquido, l’immigrazione italiana c’è ancora, ma è meno disperata (nel mio caso, ad esempio, è stato il lavoro a cercare me e non viceversa) e anche ulteriormente annacquata dal successivo arrivo di albanesi e popoli dell’ex Jugoslavia (oltre ai portoghesi, tantissimi, a tal punto che c’è un reparto apposta di portogheserie nei supermercati). Una volta era diverso, e questo te lo raccontano gli italiani che erano qua negli anni Settanta e Ottanta, la generazione di Pane e cioccolata, il film con Nino Manfredi che mostrava la solitudine e il senso di estraneità e impotenza di chi partiva dal nostro sud con la valigia di cartone in mano e un dialetto smozzicato in bocca.

 


Durante i Mondiali del Qatar scrissi un pezzo in cui – ricordando l’Erasmus a Saint-Denis, banlieue nord di Parigi – citavo la gioia sfrenata dei senegalesi dopo aver battuto la Francia nella gara inaugurale del Mondiale 2002: mi soffermai su quanto mi colpì la sovrapposizione tra il loro senso di rivalsa – che è un sentimento adulto, figlio delle delusioni della vita – e una gioia pura, bambinesca. Il giorno dopo trovai la mail di un abbonato che riportava alcune mie parole («la rivincita pacifica di un popolo che si riappropriava di un pezzo di sé»), spiegandomi che da quando lo aveva letto gli era venuto un groppo in gola ripensando a lui bambino, nell’estate del 1982, e al padre pazzo di gioia perché «vuoi mettere domani andare in fabbrica da campione del mondo?».

 

Un altro abbastanza adulto da ricordare il Mundial spagnolo è Mauro, 51 anni, un lavoro all’ufficio di statistica e una casa a Balerna, proprio sul confine, lato svizzero: «Spagna ‘82 è la prima competizione internazionale di cui ho ricordi nitidissimi (oltre all’album Panini con i risultati scritti con un pennarello troppo grosso). In quegli anni la Svizzera non si qualificava mai alle fasi finali sicché da queste parti ci si divideva tra tifosi dell’Italia e del Brasile. Io ero fortissimamente tra i secondi, andavo dal barbiere del paese e mi facevo prestare le forbici per ritagliare le foto di Zico, Eder, Socrates e Falcão dalle copie del Guerin Sportivo e dell’Intrepido Sport che teneva nel suo salone. Ho tifato Brasile nel 1982, nel 1986 e nel 1990, piangendo ogni volta lacrime amare. Nel 1994 finalmente arriva la Svizzera e posso tifare per la nazione dove vivo. Manco a dirlo, quel mondiale lì lo vince il Brasile…».

 

«Svizzera-Italia la sento molto. Ho sempre abitato a due passi dalla frontiera, che attraverso regolarmente, per svariati e buonissimi motivi. Negli anni ho visto molti più concerti in Italia che in Svizzera e il 25 aprile mi sento molto più coinvolto e commosso rispetto al primo agosto, la nostra festa nazionale».

 

«Ma il tifo per la Svizzera non è mai stato in discussione. La passione per il calcio è sempre stato un collante molto forte con mio papà».

 

«La stessa cosa è poi successa tra me e mio figlio, che ora ha 19 anni: con lui condivido il tifo per il Lugano, l’Inter e la Svizzera. Mia figlia è arrivata cinque anni dopo, si è trovata di fronte a questa complicità già costituita e – immagino per reazione – ha da subito manifestato un’indifferenza spocchiosa verso il campionato svizzero e un sostegno provocatorio per la Juventus e l’Italia. Svizzera-Italia è proprio il tipo di partita che ha tutti gli ingredienti per diventare esplosiva, dentro casa nostra, prima ancora che nelle strade, dove un comunicato ufficiale delle polizia ticinesi ha ammonito che ‘i festeggiamenti saranno tollerati, ma solo entro un certo limite’».

 

Proprio mio nipote, quello di «e quindi ora tieni per la Svizzera?» trovò il suo limite la sera della finale di Wembley, quando, per pura casualità, si trovava a casa mia a Bellinzona. Dopo la vittoria dell’Italia sugli inglesi andammo a festeggiare in strada, dove c’era il caos. Più preoccupato che entusiasmato dagli schiamazzi passò in fretta dalla gioia alla perplessità per poi chiedermi di tornare a casa quando un tifoso più esagitato della media tirò mostrò il sedere da un finestrino proprio mentre l’auto in cui si trovava ci passò accanto sfiorando le nostre facce. Ci limitammo infine a guardare i fuochi d’artificio artigianali che comparivano a ondate oltre il mio terrazzo. Ma c’è anche chi, in Ticino, ha sparato fuochi d’artificio per festeggiare una sconfitta azzurra anche se la Svizzera non c’entrava niente.

 

Me lo ha raccontato Gianluca, 36 anni, nato a Locarno, con doppio passaporto e il cuore che batte per l’Italia: «Accadde nel 1994, subito dopo il rigore sbagliato da Baggio a Pasadena contro il Brasile. Una cosa così credo che oggi non succederebbe più, perché c’è consapevolezza di un’affinità che prima non c’era. E questo è subentrato molto da quando ci sono moltissimi giocatori di origine straniera nella Svizzera. Oggi la rivalità c’è, ma è goliardica e folkloristica, una volta era diverso. Anche se io non ho mai capito come un ticinese, all’epoca, potesse sentirsi più legato a una squadra piena di nomi tedeschi e francesi – e se andava bene qualche italofono – piuttosto che all’Italia. Ogni tanto, se ripenso alla sera del rigore di Baggio mi chiedo se oggi chi ha tirato fuori quei fuochi d’artificio è ancora d’accordo con il sé stesso di 30 anni fa».

 

Gianluca poi relativizza il concetto di derby: «È più una questione unilaterale. In Ticino per qualche retaggio storico questa cosa è sentitissima, ma il Ticino se la canta e se la suona da solo». Un esempio è la testimonianza di Manuel, ticinese che lavora per le Ferrovie svizzere e per cui Svizzera-Italia non è una partita di calcio, ma «La partita di calcio, qualcosa che va oltre lo sport e si vive con apprensione. Noi ticinesi ci speravamo un po’ tutti che uscisse fuori dai gironi questo accoppiamento». Magari non proprio tutti: Adam, fisioterapista svizzero con nonni italiani, parla di Svizzera-Italia come dello scontro a cui mai vorrebbe assistere. O Alessio, di Campione d’Italia, anche lui col doppio passaporto, che non sa mai per chi tifare, ma ha una certezza, quella di cantare entrambi gli inni.

 

Aurora, 25 anni, ticinese che lavora per l’ambasciata svizzera a Roma (dove gli sfottò con gli italiani sono all’ordine del giorno, con un’escalation con l’avvicinarsi della partita), la gara l’ha vista in un pub della capitale assieme ai colleghi e agli studenti svizzeri. La ricetta post-partita era semplice, in caso di vittoria azzurra, facilissimo mimetizzarsi per via della lingua comune, in caso di vittoria, esultanza moderata, perché «siamo pur sempre svizzeri e diplomatici in terra straniera».

 

Ora che la frittata berlinese è fatta, che l’Italia torna a casa e io sono sul treno per Colonia, dove si gioca Spagna-Georgia, non so quanto ha esultato Aurora a Roma, non so se a casa di Mauro si è consumata l’ennesima faida calcistico-familiare, né quanto William alla fine – preoccupato per gli altri – sia dispiaciuto per sé stesso.

 

Non so se Adam abbia davvero cantato entrambi gli inni, se la polizia abbia multato davvero gli automobilisti più indisciplinati o se qualcuno ha sparato fuochi d’artificio più per festeggiare una sconfitta altrui che una propria vittoria. Ma so che Brian ha fatto davvero mettere la maglia della Svizzera a suo figlio (ho le prove, la foto del bimbo in aeroporto, con sullo sfondo un aereo) e che a Malpensa, al loro arrivo, c’era «un silenzio tombale», perché me l’ha scritto lui su Whatsapp, aggiungendo, con accanto una faccia che ride, «e mo’ carosello e clacson fino a Locarno». E so anche che Andrea, quello invitato al matrimonio, alla fine si è andato a comprare apposta un proiettore da 400 franchi e se lo è portato dietro. Dopo aver sbirciato come quasi tutti gli invitati il gol dell’1-0 sullo smartphone, seguito da esultanza collettiva, ha preso coraggio, ha acceso il proiettore e permesso a tutti di assistere al loro trionfo. Uno dei pochi casi di nozze in cui la formula «il giorno più bello della mia vita» non vale solo per gli sposi.

 

So infine che un paio di giornalisti italiani hanno strabuzzato gli occhi in sala stampa passando dietro al mio computer e leggendo le mie pagelle: c’è un 2 (Scamacca), un 2,5 (Spalletti), una riga infinita di 3 e un 5 a Donnarumma. Una collega non ha resistito e mi ha detto: «Ma sei proprio cattivo». E invece no, o meglio, non così tanto da dare un’insufficienza a un portiere che, finché ha potuto, ha tenuto in piedi la baracca, praticamente da solo. Il sistema di voto è un’altra delle microdifferenze a cui non pensi tra Italia e Svizzera: il 2 è suppergiù un 4, il 3 un 5, il 5 un 7. Credo siano stati più cattivi altri. Di sicuro più arrabbiati, tra urla contro Spalletti («Dovrebbero stracciargli il patentino») – però quando se n’era già andato, mica quando era lì, in conferenza stampa -, critiche da bar a Scamacca («Quando giocavo io uno così stava in Serie D»), a Di Lorenzo («Sempre stato un bluff, in quel Napoli potevo giocarci io terzino») e perfino qualche appunto all’arbitro, che non ho capito cosa c’entri con ‘sto disastro.

 

Insomma, non tutti ci riescono, ma bisogna saper perdere. Soprattutto se poi devi essere proprio tu a raccontare le cose dal lato dei vincitori.

 

Mentre chiedo l’accredito per il quarto di finale mi torna indietro come un boomerang quella domanda di mio nipote. Ma stavolta me la faccio da solo. «E quindi, ora che l’Italia è fuori, tengo per la Svizzera?».

 

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Roberto Scarcella è nato a Savona. Ha lavorato per 15 anni al Secolo XIX e scritto reportage e inchieste per La Stampa. Oggi è responsabile esteri del quotidiano svizzero La Regione. Viaggiatore compulsivo, ha raccontato i suoi vagabondaggi in "Disavventure nel mondo" sul Secolo XIX e ora su Ticino 7 con "Disavventure latine". Ha giocato in Serie D e una volta, pagando, anche al Villa Park con la maglia dell'Aston Villa.