Adesso che c’è la firma preliminare per la cessione del Milan e la fine dell’era berlusconiana sembra certa, ci possiamo fare la domanda che ai tifosi del Milan sta più a cuore: ci saranno subito soldi per il mercato?
No, è la risposta, o almeno non fino al “closing”, previsto per novembre. Tutto rimandato al mercato invernale, dunque. Se prendiamo per buono il comunicato emesso da Fininvest, l'accordo preliminare di cessione del 99,93 per cento del Milan ai cinesi di Sino-Europe Sports Investment Management per 740 milioni di euro prevede il versamento di una caparra di 100 milioni entro 35 giorni dalla firma (e si va quindi a inizio settembre), con il resto da saldare entro il closing, a novembre-dicembre appunto. Anche i 15 milioni di cui si parla che dovrebbero essere versati in questi giorni come acconto dell'acconto, sono comunque troppo pochi per fare mercato.
Invece fanno ben sperare le condizioni che Berlusconi avrebbe strappato alla controparte per il rilancio del club nel medio-lungo periodo: investimenti per 350 milioni in tre anni come «ricapitalizzazione e rafforzamento patrimoniale e finanziario» (i primi 100, come detto, da versare nelle casse al momento del passaggio di consegne). Insomma, fare l'abbonamento al Milan oggi è un investimento per il futuro. Ma, va aggiunto, sempre incrociando le dita…
Un accordo preliminare non rappresenta ancora il traguardo, tuttalpiù un giro di boa o un gran premio della montagna. Anche se, stavolta, sembra veramente la volta buona: l'accordo preliminare è definito «altamente vincolante» dal Sole24Ore e un articolo comparso su SportMediaset sottolinea che, a differenza di quello sottoscritto con il thailandese Bee giusto un anno fa, si tratta del «primo vero accordo messo a punto dalle parti per il passaggio di proprietà del club rossonero». Ma se c'è abbastanza consenso nel ritenere che sul lato Fininvest i giochi siano ormai fatti (perché la volontà di Marina Berlusconi di vendere il pacchetto di maggioranza si sarebbe imposto sulle resistenze del padre), qualche dubbio rispetto alla parte cinese viene sollevato da Alberto Forchielli, presidente di Mandarin Fund, che dalle pagine di Milano Finanza osserva come un investimento all'estero di tale portata da parte di un veicolo finanziario di Stato abbia bisogno del beneplacito del governo di Pechino che richiederà non meno di tre mesi: i tempi del closing, appunto. Insomma, i movimenti dietro al Sino-Europe Sports Investment Management restano quanto mai opachi e, finché non si arriverà al closing vero e proprio, l'impressione è che tutti i giochi restano aperti.
Chi sono i (quasi) nuovi proprietari del Milan?
Sino-Europe è un fondo registrato ad hoc il 3 giugno 2016 da tale Chen Huashan nella città di Huzhou, provincia dello Zhejiang. Ha un capitale di 100 milioni di Renminbi, cioè circa 13,5 milioni di euro al cambio attuale e avrebbe come scopo proprio quello di velocizzare investimenti cinesi nello sport, in particolare in Europa. Dietro a questo veicolo finanziario c'è Haixia Capital, un fondo controllato dallo Stato che finora si era occupato soprattutto di finanziare infrastrutture nella provincia meridionale del Fujian, quella che fronteggia Taiwan. E, guarda un po', a Haixia parteciperebbe anche il governo di Taipei: sarebbe piuttosto divertente se il Milan unisse ciò che lo stretto di Formosa divide. Ironia a parte, con una proprietà così opaca ed eterogenea è lecito sollevare dubbi sul futuro del club dal punto di vista del management.
Al momento non si sa se facciano parte della cordata anche gruppi privati, né è dato sapere se ne faranno parte in futuro. Se ci fosse dietro solo il governo (di Pechino? O un'amministrazione locale?), l’affare-Milan si discosterebbe radicalmente dai precedenti investimenti cinesi nel Manchester City, nell'Aston Villa, nell'Atletico Madrid e nell'Inter, tutti a opera di gruppi privati. Si tratterebbe di una situazione anomala: non più l'industriale che investe nel calcio europeo per scopi più o meno intellegibili, ma un progetto politico. Ma quale? Dalla risposta, dipendono le sorti del Milan.
La prima ipotesi è che ci sia dietro un preciso disegno riconducibile ai vertici del sistema Cina. Ricordate quando Berlusconi diceva, un anno fa, che al Milan era direttamente interessato il presidente Xi Jinping? Ovviamente abbiamo tutti pensato all'ennesimo delirio di un uomo al tramonto, ma col senno di poi, dal punto di vista della solidità futura del club, questa resta l'ipotesi più ottimistica.
Tuttavia, per quel che ne sappiamo, l'investimento potrebbe anche essere opera di un'agenzia dello stratificatissimo settore statale cinese, o di un governo locale che, in questo caso, si muoverebbe come player «autonomo» in cerca di un buon business – posto che un club calcistico lo sia – o di acquisire crediti (mianzi, «faccia») presso i vertici del potere. In questo caso, i tre mesi da qui al closing non sarebbero solo i tempi per valutare la bontà economica dell'investimento nel Milan, ma anche servirebbero per ottenere i permessi da tutti i dipartimenti che hanno il compito di dare o negare il via libera. In questo caso i rischi che non si arrivi effettivamente al closing aumenterebbero sensibilmente.
Nell'ipotesi più ottimistica, e cioè che il governo cinese abbia deciso davvero di comprare il Milan, l’affare potrebbe fare da catalizzatore per altri imprenditori che intendano partecipare a Sino-Europe Sports Investment Management, sempre che Pechino intenda aprire ai privati. Chiunque voglia fare business in Cina deve cogliere i segnali politici che vengono dall'alto per poi agire di conseguenza, pragmaticamente, cercando di ottenere il meglio dalle circostanze. Ed è vero che in Cina, oggi, il calcio fa tendenza.
Affare di Stato
La decisione del presidente Xi Jinping di trasformare il Paese in «una superpotenza calcistica» risale a circa un anno fa e ha dato il via agli investimenti. Per Xi, questa caccia alla nobiltà calcistica si inserisce nel suo Zhongguo Meng - «sogno cinese» - la ricerca di una nuova centralità politica, economica, culturale della Cina nel mondo. Soft power e consenso in patria. L'acquisizione di club europei finanziariamente alla canna del gas consente trasferimento di tecnologia calcistica in Cina (scuole calcio «firmate» da qualche grande campione del passato stanno proliferando nell'ex Celeste Impero), ma anche di spedire giovani promesse del calcio cinese a fare esperienza nelle squadre giovanili del Vecchio Continente. E chissà che non ne salti fuori uno davvero buono che possa debuttare in Champions League. Nel 2030, la Cina vuole ospitare i mondiali e possibilmente non sfigurare: si lavora sul lungo periodo.
Finora, il messaggio era stato colto da gruppi privati che cercano di attivare un nesso virtuoso tra ragioni del business e ragion di Stato. Innanzitutto, se investi nello sport e contribuisci a elevare lo status internazionale del Paese, dimostri di avere capito il messaggio ed entri nelle grazie della leadership. Quanto agli affari in sé, non riguardano tanto il gettare soldi a palate in quei pozzi senza fondo che sono i club calcistici, bensì tutto quello che ci sta attorno: la promozione del proprio brand su nuovi mercati e il buon vecchio, immancabile, settore immobiliare (stadi, quartieri residenziali attorno agli impianti, etc).
Il business riguarda, però, soprattutto il mercato domestico, dove i grandi conglomerati cinesi competono a trecentosessanta gradi. Il gruppo Wanda, proprietario di un 20 per cento dell'Atletico Madrid, è il caso più esemplare: con l'acquisizione di Infront e l'entrata tra i maggiori sponsor Fifa per i mondiali fino al 2030, ha creato un circolo virtuoso. C'è per esempio da scommettere che durante i prossimi Mondiali avrà una posizione assolutamente privilegiata negli spazi pubblicitari della televisione cinese.
Infine, l'investimento calcistico è un modo pulito di esportare denaro all'estero. Questo punto è controverso, perché il governo cinese sta cercando di scoraggiare la fuga di capitali, l'emorragia di liquidità che svaluta il Renminbi e allarga la voragine del debito. Certo, se però l'investimento all'estero è voluto dalla stessa leadership di Pechino, i problemi si azzerano.
Perché il Milan?
Ragionando sempre all’interno dell'ipotesi ottimistica che ci sia lo stesso governo di Pechino dietro all'affare Milan, diventa necessario chiedersi perché abbiano scelto proprio il Milan? Una prima risposta è che il Milan al momento è il club perfetto per dare impulso alla strategia politico-economico-sportiva: è un «brand» di valore internazionale, particolarmente amato in Cina, ed è finalmente sul mercato. Sull'amore dei cinesi per i colori rossoneri è significativo è il titolo di un articolo comparso su Sina.com lo scorso 31 luglio, dopo la sconfitta in amichevole con il Liverpool, quando ancora non si sapeva dell'imminente accordo preliminare. L'articolo era intitolato: «Disperazione! Il Milan quest'anno è destinato alla tragedia perché non può comprare giocatori da solo». Un titolo del genere ci dice essenzialmente due cose: che la passione è tanta e arriva fino al melodramma; e che la soluzione ai problemi è identificata nella disponibilità a investire, senza troppi ragionamenti o mediazioni.
D'altra parte è la stessa logica che la Cina applica ovunque, anche a casa propria: ci sono disordini etnico-religosi in Xinjiang? Investiamo, facciamo passare di lì la «nuova Via della Seta», diamo sviluppo e ricchezza, e vedrai che ai riottosi musulmani uiguri passerà la voglia di dare ascolto a qualche imam fanatico. I tibetani si danno fuoco per protesta? Finanziamo templi, strade, vie commerciali, pavimentiamo Lhasa, e ci scommetto che le nuove generazioni avranno altro a cui pensare che il Dalai Lama. Questa strategia di problem solving funziona? Non sempre, dato che il successo non è direttamente proporzionale a quanto apri il portafoglio, soprattutto nel calcio ipercompetitivo di questi anni.
Può essere utile immaginare due universi paralleli e distanti: i tifosi del Milan in Italia/Europa e quelli in Cina. I primi vogliono, sì, soldi freschi e giocatori forti, ma comprendono quanto sia importante avere radici, identità, qualità umane. Il Milan dei Gullit, Van Basten, Rijkaard, Savicevic non avrebbe vinto nulla senza lo zoccolo duro dei giovani cresciuti a Milanello e passati dalla serie B: Baresi, Tassotti, Maldini, Costacurta, Galli. Quanto ai secondi, tendono invece a ragionare in termini di investimenti dai ritorni immediati. Sono quantificati in circa 50 milioni i «milanisti» dell'ex Celeste Impero e due milioni sono i follower del club sulla sua pagina Weibo, «il Twitter cinese»; secondo un'analisi fatta dalla Gazzetta dello Sport lo scorso febbraio, il Milan sopravanza tutte le altre italiane nell'indice di gradimento dei cinesi, anche se a dominare in assoluto sono le grandi di Spagna e d'Inghilterra, con l'aggiunta del Bayern. E stiamo parlando di tifosi, non di semplici simpatizzanti.
Ho chiesto a Rowan Simons, che negli anni Novanta è stato il primo commentatore di calcio straniero della CCTV, la tv di Stato cinese, di spiegarmi questo fenomeno. Simons nel 2001 ha fondato ClubFootball, joint venture il cui scopo è quello di promuovere il calcio amatoriale in Cina, e gestisce una ventina di campi da calcio a Pechino in cui fa giocare squadre di bambini e adolescenti, promuovendo concetti come il divertimento e il senso di comunità come antidoto all'ipercompetizione e al successo a tutti i costi (ha anche scritto Bamboo Goalposts - Macmillan, 2008 - un libro pionieristico che cercava di raccontare il calcio non professionistico in Cina).
«I cinesi non fanno come noi il tifo per la squadra della loro comunità», ha detto Simons, che sostiene il West Ham. «Tifano per una squadra locale e poi ne scelgono una europea, a cui dedicano la stessa, identica passione». E questa è una delle ragioni per cui la Cina non diventerà mai la tanto desiderata «superpotenza del football»: secondo Simons l'ingrediente fondamentale di un movimento calcistico d'alto livello è la passione dal basso, locale, delle radici. Il tifo dei cinesi nasce già globalizzato: non comunitario e popolare, bensì proiezione del nuovo ceto medio e dei suoi desideri. Così, si può tifare Manchester United o Liverpool con la stessa se non maggiore intensità del Guo'an di Pechino o del Guangzhou Evergrande: il calcio è un grande scaffale di supermercato dove si sceglie la migliore scatola di pelati. Il che, però, non significa necessariamente che ci sia meno passione. Aneddoto personale: a Pechino ho conosciuto un uomo che ha chiamato il figlio «A Mi», da «Ac Milan» (giustappunto). Ma resta una passione diversa, deterritorializzata, in cui il «brand» conta inevitabilmente più dell'identità.
Oggi i tifosi cinesi pregustano già un derby Milan-Inter nel segno del Dragone e credono che il coinvolgimento del capitale cinese possa far crescere rapidamente la forza del buon vecchio Diavolo, fino a renderlo competitivo con giganti come Barcelona, Real Madrid, Bayern, dai quali ha ormai accumulato un distacco notevole. «La difficile situazione economica dell'Italia e la mancanza di capitali», sosteneva un articolo dello scorso luglio pubblicato su Zongshan News, «imporrebbe altrimenti di far ricorso alle squadre giovanili, il che rende irrealistico il raggiungimento di risultati per una squadra che negli ultimi anni è uscita dal giro delle coppe».
In Cina, gli investimenti devono restituire profitti abbastanza in fretta. Non c'è tempo per vedere i germogli crescere. Un atteggiamento che non combacia perfettamente con quello dei tifosi italiani del Milan, che probabilmente, dopo dieci anni di declino, vorrebbero vedere un progetto serio prendere vita. In ogni caso, come detto, bisognerà aspettare come minimo novembre e dicembre per capire con maggiore chiarezza quali sono le vere prospettive del nuovo Milan.