Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Tadej Pogacar ha portato il ciclismo in una nuova era
22 lug 2024
22 lug 2024
La doppietta Giro-Tour non è storica solo per il ciclista sloveno.
(foto)
IMAGO / Photo News
(foto) IMAGO / Photo News
Dark mode
(ON)

Sono passati 26 anni da quando Marco Pantani riuscì a compiere l’impresa più iconica nel mondo del ciclismo: la doppietta Giro d'Italia - Tour de France. Più di un quarto di secolo in cui abbiamo pensato che non fosse più possibile riuscirci, che nel ciclismo moderno fatto di picchi di forma e iper-specializzazione, di grandi corazzate dominanti e preparazioni curate al millimetro, fosse ormai un’idea da lasciare chiusa nel cassetto, nel passato.

Chi ci ha provato, in questi 26 anni, si è ritrovato davanti a una montagna troppo alta da scalare. Alberto Contador, nel 2015, vinse il Giro solo per scontrarsi con la durezza della realtà al Tour de France. Chris Froome e Tom Dumoulin ci provarono di nuovo nel 2018 andandoci entrambi molto vicini ma senza portare a compimento l’impresa. Forse un po’ pestandosi i piedi a vicenda. Froome fu primo al Giro e terzo al Tour, Dumoulin fu secondo in entrambe le occasioni. A rubar loro la scena ci pensò Geraint Thomas, vincitore a sorpresa di quel Tour de France 2018, da compagno di squadra di Froome alla Sky.

Forse ci aveva provato anche Ivan Basso in quel 2006 in cui aveva dominato in lungo e in largo il Giro d’Italia, vincendo con distacchi abissali e registrando prestazioni fuori dal comune. Il Tour de France era alla ricerca di un padrone dopo il ritiro di Lance Armstrong, e così Ivan Basso - che già era stato terzo nel 2004 e secondo nel 2005 - sembrava l’uomo giusto al momento giusto, il superuomo in grado di riportare il ciclismo italiano là dove l’aveva lasciato Pantani, che era morto in un triste giorno di febbraio due anni prima.

Poi la "Operacion Puerto", lo scandalo che gravitava attorno alla figura mitologica di Eufemiano Fuentes. Le sacche di sangue, gli appassionati di tutto il mondo che diventano improvvisamente esperti di auto-emotrasfusioni e doping ematico. Una tempesta perfetta, un uragano che arriva a scoperchiare un palazzo di segreti nascosti e ipocrisie diffuse. Ivan Basso è in mezzo a quei nomi, la sua rincorsa a Pantani si ferma lì, dove il tentativo più credibile fra tutti quelli citati finora si spegne. Sì, perché se Contador nel 2015 era già al tramonto della sua carriera, se Froome nel 2018 partecipa al Giro d’Italia più per chiudere un cerchio (e per aggirare un presunto caso di doping in cui era rimasto invischiato, uscendone poi pulito) al termine di un quinquennio d’oro, se Dumoulin stava distruggendo il suo corpo e la sua mente nel tentativo di diventare ciò che non era, Ivan Basso invece nel 2006 era all’apice della sua carriera, nel pieno delle sue forze, superiore a ogni suo possibile avversario.

Il dominio di Armstrong dal 1999 al 2005, poi quello del Team Sky dal 2012 al 2019 - con Wiggins, Froome, Thomas e Bernal, a parte il piccolo intermezzo di Nibali nel 2014 - e forse in parte quello di Alberto Contador nel mezzo avevano tarpato le ali a ogni possibile tentativo avversario. E loro stessi, i protagonisti di quel dominio, mai avevano provato a forzare la mano così tanto. Impauriti, forse, dalle difficoltà di quell’impresa; dai risvolti inaspettati che poteva riservare, dal terrore di andare a toccare una macchina che sembrava perfetta per arrivare allo scopo.

Poi, però, sono arrivati i fenomeni. I nuovi ciclisti epici, chiamiamoli così. Hanno rivoltato il ciclismo come una tovaglia a fine pranzo, prendendo per i lembi la storia recente di questo sport e sgrullando le briciole dalla finestra. È così che siamo arrivati a oggi. A guardarci indietro sul lungomare di Nizza chiedendoci dove eravamo, dove siamo stati tutti questi anni. Cos’abbiamo fatto, se siamo cresciuti, dove sono finiti i nostri amici, i nostri parenti; chi c’è ancora, chi non c’è più; i nostri ricordi e ciò che abbiamo dimenticato per sempre. Ventisei anni che non torneranno più e che pensavamo non avrebbero avuto importanza. Che non hanno avuto importanza.

Fino al momento in cui è arrivato Tadej Pogacar.

Il tempo è relativo

Tadej Pogacar ci ha riportati su una linea temporale che pensavamo chiusa per sempre. L’ha riaperta, giocando con i secondi e con i minuti come ha imparato a fare, dilatando a suo piacimento lo spazio intorno a sé, piegando la realtà per farla tendere all’inverosimile. Eppure è tutto vero: Tadej Pogacar ha vinto il Tour de France 2024, poco meno di due mesi dopo essersi vestito di rosa di fronte al Colosseo sul podio finale del Giro d’Italia. Così facendo, è entrato nella storia del ciclismo dalla porta principale, come si dice. Una porta che prima di lui avevano attraversato solo sette persone: Fausto Coppi, Jacques Anquetil, Eddy Merckx, Stephen Roche, Bernard Hinault, Miguel Indurain, Marco Pantani. Tadej Pogacar è l’ottavo nome che si aggiunge a questa filastrocca che per 26 anni è rimasta uguale a se stessa.

In quei sette nomi ci sono i più grandi ciclisti di sempre. C’è il più forte di tutti i tempi, Eddy Merckx. C’è Fausto Coppi, che alcuni definiscono “il più grande”. Ci sono Jacques Anquetil e Bernard Hinault, i due campionissimi francesi, i volti vincenti del ciclismo transalpino. C'è Miguel Indurain: l’uomo bionico, il primo essere umano meccanico ad essersi seduto su una bicicletta. C'è Marco Pantani: "il pirata" che con la sua tragedia ha fatto innamorare il pubblico. C'è anche Stephen Roche, l’irlandese che chiuse la sua doppietta nel 1987, nel mezzo di una carriera strana, fatta di grandi promesse infrante, tanti gravi infortuni, pochi trionfi.

Certo, ci sono dei grandi nomi che mancano all’appello: non c’è Gino Bartali, uno dei ciclisti più straordinari di ogni epoca. Non c’è Felice Gimondi, per restare in Italia, ma nemmeno Laurent Fignon che invece la doppietta la sfiorò in un paio d’occasioni. Non ci sono gli americani Greg Lemond e Lance Armstrong, che non ci provarono neppure a compiere quell’impresa. Non ci sono i già citati Alberto Contador o Chris Froome.

Tadej Pogacar entra in questo piccolo novero di ciclisti, insomma, e lo fa con una dimostrazione di forza che forse non ha eguali nella storia del ciclismo, almeno quello degli ultimi trenta o quarant’anni.

Sembrava che il ciclista sloveno non avesse rivali, eppure nell’arco dei due grandi giri disputati ha affrontato tutti i possibili protagonisti per le corse a tappe del momento: al Giro non c’erano grandissimi nomi a contendergli la vittoria, e il secondo in classifica - Daniel Martinez - è arrivato a quasi 10 minuti di distacco nella generale. Al Tour invece la storia era diversa: c’era Primoz Roglic in cerca di riscatto, Remco Evenepoel in rampa di lancio, Carlos Rodriguez a caccia di conferme. E soprattutto Jonas Vingegaard, il danese capace di batterlo al Tour nelle due precedenti edizioni.

Il talento di Tadej Pogacar ha annullato tutti i suoi avversari, respingendo i meno avvezzi a distanze siderali (Carlos Rodriguez, capitano della Ineos, in questo Tour è finito settimo a 25 minuti di distacco). Ma anche i più agguerriti e preparati hanno sofferto le sue sfuriate in queste tre settimane. Primoz Roglic il Tour de France non l’ha nemmeno concluso, costretto al ritiro dopo una brutta caduta nella seconda settimana, quando però navigava ormai lontano dalla maglia gialla. Jonas Vingegaard era reduce da una terribile caduta al Giro dei Paesi Baschi a metà aprile che l’aveva costretto in un letto di ospedale per settimane con un polmone danneggiato. La sua preparazione non era stata delle migliori, quindi, eppure si era presentato al via da Firenze con intenzioni bellicose, pronto a difendere il numero 1 che aveva attaccato sulla schiena.

I numeri, quelli che contano davvero, erano pure buoni: le sue prestazioni in salita sono state sovrumane, almeno per ciò che fino a un paio d’anni fa abbiamo sempre considerato “umano”. Eppure nemmeno questo è bastato, non solo a battere Pogacar ma neanche a tenergli testa, a stargli vicino fino in fondo. Lo stesso discorso vale per Remco Evenepoel: il belga era al suo primo Tour de France, in cui doveva dimostrare di poter competere con i grandi. L’ha fatto, ha dimostrato di essere un corridore solido, maturato, cresciuto nelle prestazioni e nella mentalità. La sua squadra l’ha supportato al meglio affiancandogli un uomo esperto come Mikel Landa (quinto in classifica generale a 20 minuti). Lui ha risposto con alcune delle prestazioni migliori della sua vita finora, ma anche questo non è bastato.

Evenepoel ha dato 16 minuti in classifica generale al capitano avversario più vicino in classifica (Carlos Rodriguez). Un distacco senza precedenti, senza senso logico, mai visto prima, che certifica una prestazione mostruosa del belga in queste tre settimane. Eppure la classifica generale lo vede solo al terzo posto, staccato di 9’18” da Pogacar e a 3’01” da Jonas Vingegaard, secondo.

L'importanza della preparazione

Sottolineare le grandissime prestazioni dei suoi avversari non ha solo lo scopo di mettere in luce la straordinaria vittoria di Tadej Pogacar, serve anche a mettere tutto in prospettiva. Questa, in altre parole, non è solo una grande vittoria del Tour de France: è la porta d'accesso a una nuova epoca del ciclismo, fatta di prestazioni che ritenevamo impossibili. Chi vorrà sopravvivere, adesso, dovrà trovare il modo di entrarci, in questa porta, o verrà relegato al passato.

È un'era in cui la quantità di talento non ha eguali nella storia recente del ciclismo. Per doti atletiche, per la capacità di essere competitivi su più terreni, per il loro percorso di crescita sin dalle categorie giovanili: tutti i più grandi ciclisti di questa epoca hanno già dimostrato di essere superiori a chi li ha preceduti.

Certo, le tecniche di allenamento sono migliorate drasticamente negli ultimi anni. Ci sono nuovi metodi, nuove strategie. Anche nuove pratiche che si sono affermate recentemente, come l’uso del monossido di carbonio per misurare le risposte del corpo durante i ritiri in altura e poter quindi personalizzare gli allenamenti in base ai dati riscontrati.

Tadej Pogacar ha quindi dato un colpo di spugna al passato, ha superato le difficoltà del 2023, quando una caduta alla Liegi-Bastogne-Liegi gli causò una frattura al polso che spezzò una primavera fino a quel momento perfetta con le vittorie al Giro delle Fiandre, Amstel e Freccia Vallone (fra le altre). Anche la preparazione al Tour ne risentì, e nonostante alcune delle sue prestazioni alla Grande Boucle fossero già allora sovrumane, bastò un singolo giorno di crisi per mandare all’aria tutto. E così sul Col de la Loze ci regalò un messaggio radio che un tempo sarebbe diventato una citazione da riportare nei libri di storia del ciclismo mentre oggi è diventata un meme. Ma anche questo è un po’ il segno dei tempi.

Quest’inverno Tadej Pogacar, dopo la delusione della sconfitta al Tour, ha annunciato che avrebbe provato la doppietta Giro-Tour. Un annuncio più strano di quanto oggi non ci sembri. Pogacar non era il vincitore uscente al Tour de France, anzi era alla seconda sconfitta consecutiva contro Jonas Vingegaard. Non aveva mai nemmeno partecipato al Giro d’Italia e in più nella sua carriera (che non è più nemmeno così tanto breve) non aveva mai corso due grandi corse a tappe nella stessa stagione. E ancora: l’annuncio arrivava al termine di una stagione in cui i suoi grandi avversari della Visma avevano trionfato in tutti e tre i grandi giri. Sembrava non esserci molto spazio per riuscirci, nessun gancio a cui appendere le sue speranze.

Eppure Tadej Pogacar sembrava convinto di potercela fare, per qualche motivo. A novembre 2023 decide di cambiare allenatore lasciando Iñigo San Millán e passando sotto la guida di Javier Sola. Fra i due ci passano 15 anni di differenza, con tutto ciò che questo può comportare a livello di aggiornamenti, metodi ed elasticità nel provare nuove strade. Con Javier Sola, Tadej Pogacar ottiene risultati in allenamento ancor più straordinari rispetto al passato. Il tecnico imposta per lui un calendario studiato nei minimi dettagli per avere la massima possibilità di riuscita: si corre pochissimo al di fuori di Giro e Tour. L’obiettivo è arrivare al via della corsa francese al top della condizione e sfruttare il Giro d’Italia - dove la concorrenza sarà minore e più gestibile - come banco di prova.

Tadej Pogacar arriva al Giro con pochissimi giorni di corsa nelle gambe e domina come raramente era capitato alla "Corsa Rosa". A vederle oggi con il senno di poi, le sue azioni suonano in effetti come un allenamento in corsa; Pogacar attacca anche quando non serve, vince tappe in ogni modo: ora facendo lavorare la squadra e battendo tutti in volata, ora sferrando un attacco solitario dalla lunga distanza; ora andando via in progressione, aumentando gradualmente il ritmo, ora lanciandosi in uno scatto secco.

L'impresa al Tour

Al termine del Tour de France, il ciclista sloveno ha confessato di aver avuto un giorno di difficoltà durante il Giro, fortunatamente forse non sfruttato dai suoi avversari ormai già alle corde. Al Tour, invece, non ha avuto cali: l’unico momento di difficoltà è arrivato alla tappa che si snodava per 211 chilometri fra i vulcani del Massiccio Centrale da Évaux-les-Bains a Le Lioran. Pogacar attacca anche in quell’occasione molto presto, cercando di approfittare del finale nervoso ed esplosivo, con salite più brevi che ben si adattano sulla carta alle sue caratteristiche.

Il piano funziona, la maglia gialla va via in solitaria e sembra pronta a un nuovo assolo; ma da dietro invece Jonas Vingegaard inizia a recuperare terreno, gli mangia ogni centimetro di vantaggio e si riporta sotto. Poi lo studia fino alla volata finale. Vingegaard parte davanti, lancia lo sprint sapendo che sulla carta non ha speranze; Pogacar si alza sui pedali, le mani basse come sempre. Le prime pedalate sono aggraziate e potenti, ma subito si capisce che qualcosa non va perché lo sloveno si rimette subito seduto, cerca di spingere più con le spalle che con le gambe. Cerca di alzarsi di nuovo ma non ha forze per farlo. Fra lo stupore generale, Jonas Vingegaard alza le braccia al cielo: è tornato, sembra avere ancora una chance di riprendersi ciò che aveva lasciato.

In realtà è solo un fuoco di paglia: le difficoltà sul Massiccio Centrale erano dovute a errori nell’alimentazione che avevano lasciato Pogacar senza forze nel finale. Sui Pirenei la storia cambia e stavolta non c’è partita: Vingegaard pensa di potersela giocare alla pari, sente che la gamba è buona e in effetti viaggia su numeri che non ha mai fatto, nemmeno negli anni in cui ha vinto. La prima tappa pirenaica arriva a Pla d’Adet, al termine di una tappa di 151 km con il Tourmalet abbastanza lontano dal traguardo. Una tappa breve ma intensa, dove però Pogacar si sente favorito. Sull’ultima salita lancia Adam Yates all’attacco a fare da punto d’appoggio e anche per sparigliare le carte della Visma - Lease a Bike. Uno schema provato anche l’anno scorso più volte durante il Tour con alterne fortune. Stavolta però Yates va e guadagna terreno; dopo pochi minuti arriva l’attacco di Pogacar: è uno scatto secco, inizialmente, con il quale la maglia gialla fa un buco di pochi metri prima di mettersi seduto e spingere in progressione e dilatare quel buco fino a creare una voragine. Raggiunge Yates che lo aiuta come può (poco) e poi va via da solo. In cima, al traguardo, ha guadagnato 39 secondi su Vingegaard e 1’10” su Evenepoel. È un bel distacco, ma è ancora tutto aperto.

Il giorno dopo la Visma vuole pareggiare i conti: c’è un’altra tappa pirenaica, stavolta più lunga e più impegnativa, quasi 200 chilometri di su e giù fino al Plateau de Beille, una salita che è 5 chilometri più lunga rispetto al Pla d’Adet del giorno prima e su cui Vingegaard sente di poter avere un po’ di vantaggio rispetto al rivale.

La Visma fa il ritmo sulle salite precedenti, sgretola il gruppo, vuole isolare Pogacar e mettergli fatica nelle gambe, ingolfare il motore dello sloveno. Dopo solo un terzo della salita finale, nel gruppo maglia gialla restano solo Jorgenson davanti a tirare con a ruota Vingegaard. Dietro di loro ci sono Pogacar con Adam Yates, Remco Evenepoel con Mikel Landa. Tre coppie di ciclisti, i primi tre della generale e i loro più fidati gregari. Tutti gli altri sono già dispersi da qualche parte, saltati per aria lungo i Pirenei, chi prima e chi dopo.

Vingegaard attacca a poco meno di 11 chilometri dal traguardo. Pogacar risponde, Evenepoel si stacca ma continua a martellare col suo ritmo. Dietro di loro si apre un buco nero che inghiotte qualunque cosa. Vingegaard e Pogacar continuano ad andar su in coppia: il danese davanti a fare il ritmo per cercare di sfinire lo sloveno a ruota, di cucinarlo a fuoco medio per poi staccarlo più avanti. Pogacar però gli rimane aggrappato. «La Visma sapeva che la salita finale era abbastanza ripida da rendere inutile lo stare a ruota, e probabilmente speravano che non sarei sopravvissuto al ritmo forsennato di Jonas fino all’arrivo», ha detto Pogacar dopo il traguardo. «Ero un po’ al limite quando ha attaccato la prima volta, ma dopo sapevo che anche lui stava soffrendo. Ha provato a staccarmi di nuovo e ho visto che non aveva le gambe per riuscirci, quindi ci ho provato io anche se sapevo che sarei potuto crollare».

Watch on YouTube

Lo scatto di Pogacar arriva a cinque chilometri e mezzo dal traguardo. Pogacar si alza sui pedali, scarta sulla destra e va in affondo. Vingegaard lo guarda, sembra quasi pensare di volerlo seguire ma il suo corpo non reagisce e rimane seduto a macinare lo stesso ritmo regolare. Gli ultimi 5 chilometri della salita di Plateau de Beille sono l’ennesimo one man show di Tadej Pogacar. Stavolta, però, c’è qualcosa di diverso e quel qualcosa è la sensazione che oggi Pogacar era davvero al limite, che davvero ha spinto fino allo stremo per mostrare al mondo di essere il più forte. La sensazione è che la vittoria di tappa ma anche la classifica generale del Tour de France, in quel momento, fossero solo un pensiero laterale, quasi ininfluente. Sembra, Pogacar, spinto da motivazioni più alte e profonde, che travalicano la singola competizione. Quasi la dimostrazione di forza di una divinità greca. Pogacar vuole mostrare al mondo di essere davvero il più forte di sempre e dall’altro lato vuole infliggere a Vingegaard e alla sua squadra - la Visma - una sconfitta che sia inappellabile e memorabile.

In cima alla salita, Pogacar ha 1’08” su Vingegaard, 2’51” su Remco Evenepoel. Quarto arriva Landa a 3’54” seguito da Almeida a 4’43”. Buitrago è settimo a 5’08” insieme a Carlos Rodriguez; Ciccone arriva insieme a Derek Gee a 6’29”. Distacchi che nel ciclismo contemporaneo ci stiamo piano piano riabituando a vedere ma che erano scomparsi dal nostro orizzonte mentale tanto che si diceva che bisognava accorciare le cronometro per compensare il fatto che in salita non si facevano più distacchi, guardando il dito anziché la luna.

È questa la prestazione più sovrumana di sempre. Tadej Pogacar disintegra il record di scalata di Marco Pantani, uno degli ultimi ancora in piedi. Lo abbassa di quasi quattro minuti portandolo da 43’12” a 39’42”: si grida al miracolo, si analizza la prestazione notando come sia probabilmente la miglior performance di sempre nella storia del ciclismo.

Ci sono due aspetti che però, forse, sono passati sotto traccia. Il primo è che, se Pogacar è lassù a quasi 4 minuti da Pantani, anche Vingegaard è lì vicino. E anche Remco Evenepoel, perdendo 2’51”, è comunque più veloce di Pantani sulla stessa salita. Insomma, Pogacar è la punta di un iceberg che è un'intera generazione di ciclisti che è fuori scala rispetto al recente passato. Allargando ancora un po’ lo sguardo, tutte e tre le squadre hanno messo in mostra una forza dirompente, occupando ben 7 posizioni nella top-10 finale, lasciando agli avversari solo le briciole (7°, 9° e 10° posto, nello specifico).

Qual è il segreto di questa nuova epoca? Il talento, certo, ma anche gli investimenti, che significano nuove tecniche di allenamento, nuove sperimentazioni, che significa arrivare prima degli altri sulle novità e avere sempre un vantaggio di prestazione che si traduce sulla strada in quello a cui stiamo assistendo non solo quest’anno ma in tutti questi ultimi anni.

Pogacar e Vingegaard a Plateau de Beille sono quei due puntini bordeaux che si staccano abbastanza nettamente dagli altri in mezzo al grafico. Potete vedere gli altri a questo link.

Le Alpi, poi, servono a Tadej Pogacar per sottolineare ancor di più la sua grandezza e per far sprofondare ancor più giù le speranze dei suoi rivali, per distruggerne ogni ambizione. Pogacar attacca anche quando non serve, anche quando sembra deleterio farlo, tanto che dopo l’inutile scatto sul Col du Noyer alla tappa 17 con arrivo a Superdévoluy sarà Pogacar stesso ad ammettere di non sapere perché abbia attaccato: «Credo fosse solo perché mi stavo godendo la salita, molto ripida e molto carina, e ho pensato di attaccare per provare la gamba in vista della terza settimana e vedere se riuscivo a fare un buco o qualcosa del genere. Alla fine Remco ha fatto un grande attacco e se n’è andato. Senza i Visma, avrebbe potuto guadagnare di più su me e Jonas».

I suoi attacchi a volte così inutili e insensati gli portano in dote commenti meno entusiasti di quanto si potrebbe aspettare. Da un lato si dice che quegli attacchi servono solo a umiliare un avversario già a terra - Vingegaard, nello specifico. Dall’altro si rimprovera a Pogacar di non lasciare la vittoria ai fuggitivi, di voler cannibalizzare la corsa come ha fatto nei giorni successivi a Isola 2000 e poi sprintando in faccia al danese in cima al Col de la Couillole.

La risposta in parte la dà il suo direttore sportivo Matxin: «This is competition», risponde a chi gli chiede un’opinione sull’atteggiamento di Pogacar. «Forse qualcuno pensa che sia meglio fermarsi durante la corsa per far passare un avversario. Ma non è gara così». Matxin ha ragione fintanto che ci sono alcune cose che abbiamo sempre dato per scontate, leggi non scritte, si diceva sempre. Il confine fra ciò che si può fare e ciò che non si dovrebbe fare è molto labile, sottile, un terreno scivoloso e impervio dove ognuno pone i propri limiti etici o morali dove meglio crede.

Tadej Pogacar non lascia nulla ai suoi avversari, meno che mai a Jonas Vingegaard che è senza alcun dubbio il suo più grande rivale, l’avversario più duro che abbia mai incontrato nei vari terreni su cui si è trovato a competere. Quando può batterlo lo fa; quando può staccarlo lo stacca; senza voltarsi indietro e senza false cortesie, che non gli appartengono.

In questo Tour de France, Pogacar ha vinto 6 delle 21 tappe disponibili, portando a 17 il conto totale delle tappe vinte in carriera alla "Grande Boucle" ed entrando nella top 10 di tutti i tempi. Nel mirino ora può mettere Bernard Hinault al terzo posto con 28 vittorie di tappa al Tour alle spalle di Merckx e Cavendish, che quest’anno ha portato il record a 35. Per dare un’idea del cambio di passo di Pogacar rispetto al passato, vi basti pensare che Chris Froome nei suoi anni di dominio al Tour ha vinto solo 7 tappe in totale; Alberto Contador in tutta la sua carriera ne ha vinte 3.

Tadej Pogacar non è solo un fortissimo ciclista, è anche il figlio di una generazione che vuole vincere ogni volta che può, che ha fame di vittorie e vuole prendersele finché ha la possibilità di farlo. Quando annunciò la sua volontà di provare la doppietta Giro-Tour, disse abbastanza chiaramente che sentiva il peso degli anni avanzare, che aveva paura che se non l’avesse fatto ora poi sarebbe stato troppo tardi. In parte aveva ragione: la carriera di un ciclista ai vertici può essere decisamente molto breve, ad alti livelli anche solo 5 o 6 anni. I più fortunati reggono qualcosa in più, o magari abbassano un po’ il livello continuando comunque a essere competitivi.

Su ogni carriera, inevitabilmente, c’è appesa la data di scadenza. Quella di Tadej Pogacar non la conosciamo, forse non la conosce nemmeno lui. Forse è molto lontana o forse è dietro l’angolo, dietro la prossima curva. Per il momento però la carriera di Tadej Pogacar è entrata in un’altra dimensione, forse aprendo la strada a una nuova epoca del ciclismo, un’epoca d’oro che fino a pochi anni fa non potevamo nemmeno sognare di poter vivere. Dal 1949 al 1998, in quelle 50 stagioni ciclistiche che vanno dalla doppietta di Fausto Coppi a quella di Marco Pantani, 7 ciclisti hanno conquistato la doppia corona riuscendoci per un totale di 12 volte, praticamente in media una volta ogni 10 anni. Negli ultimi 25 anni nessuno ci era andato nemmeno particolarmente vicino, o almeno non così convintamente vicino. Nessuno, prima che arrivasse Tadej Pogacar, aveva davvero pensato che fosse possibile farlo, e riuscirci così in grande stile, con così tanta eleganza e bellezza.

Oggi, invece, siamo qui a pensare che forse in fondo si può fare. Che forse l’anno prossimo ci potrebbe riprovare, o ci potrebbe provare Vingegaard, perché no. Perché Tadej Pogacar ha aperto la strada a un mondo nuovo, tutto da scoprire, come archeologi alla ricerca di Machu Picchu. È tutto così bello che si fa fatica a crederci.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura