Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Il re della montagna
24 ott 2024
Come uno sconosciuto ciclista danese ha scritto la storia di una gara ciclistica unica al mondo: la Taiwan KOM Challenge.
(articolo)
21 min
Dark mode
(ON)

Poche terre sono state oggetto, come Taiwan, di una rivoluzione improvvisa, in grado di svuotare intere campagne, di mettere in crisi un inveterato sistema valoriale, di minare alle fondamenta le certezze di un regime. E pochi registi, come Hou Hsiao Hsien, sono stati capaci di issarsi sulla cresta di quest'onda dirompente e di cavalcarla con sguardo contemplativo, percorrendo la modernità e riversandola sulla memoria di un intero paese.

Per anni Chen Huai En è stato il naturale prolungamento di Hou; come direttore della fotografia è stato al suo fianco nella fase più audace del suo cinema; i suoi movimenti di macchina hanno inseguito storie metropolitane di smarrimento, di egoismo, di delinquenza; storie permeate dalla forza corruttrice del denaro. Poi le strade si sono divise: Hou si è rarefatto insieme alle sue opere in nome di un'autorialità sempre più spinta; Chen, dal canto suo, ha continuato ad abitare quel mondo: come produttore, aiuto regista, tecnico delle luci. Prima di trovare, finalmente, una storia da raccontare.

È il 2004 e Chen, in una delle sue peregrinazioni, si imbatte in un giovane alle prese con una sfida singolare: da solo, in sella alla sua bici, chitarra in spalla, sta percorrendo il giro dell'isola. Chen rimane folgorato e ci si butta a capofitto. Prende in mano quella vicenda e decide di rimanerle fedele, sopprimendo qualsiasi licenza cinematografica: nessuna storia d'amore, nessun crimine, nessun conflitto. Il risultato è Island Etude, un road movie atipico e un po' insipido, che la critica accoglie tiepidamente. Qualcuno, malignamente, lo derubrica a spot pubblicitario confezionato per il Ministero del Turismo.

Eppure il film centra il bersaglio e diviene fonte di ispirazione, specie per le generazioni più giovani. A Taiwan nasce un nuovo fenomeno sociale; in mandarino lo chiamano huan-dao, letteralmente: il viaggio. Da quel momento sempre più taiwanesi decidono di imbarcarsi nella stessa impresa raccontata da Chen: chi per il gusto della sfida, chi per compiere un rito di passaggio, chi per provare a scoprire l'identità storica e culturale del Paese, provando a scrollargli di dosso l’etichetta di provincia ribelle creata dal partito comunista di Pechino.

Oggi il termine huan-dao è divenuto uno dei capisaldi della cultura taiwanese e ha cominciato a circolare anche tra i turisti. Taiwan si sta trasformando sempre più in un piccolo paradiso per le biciclette e in una terra di conquista per gli appassionati, facendo eco all'attuale decentramento del ciclismo verso lidi un tempo impensabili. E oggi l’isola, pur non avendo squadre World Tour o atleti di caratura mondiale, è il palcoscenico di una delle corse ciclistiche di un giorno più dure e uniche del pianeta: la Taiwan KOM Challenge.

Tra soft power e brand reputation

Cinematografia e romanticismi a parte, questa new wawe taiwanese ha anche implicazioni economiche: l'industria ciclistica a Taiwan non è esattamente una questione da due soldi, tutt'altro. Giant e Merida, due dei più grandi colossi mondiali nella fabbricazione di biciclette, battono proprio bandiera taiwanese e rappresentano due delle più importanti aziende del paese. Più in generale, oltre l'80% di tutte le biciclette e della componentistica di fascia medio-alta sono prodotti a Taiwan o, altrove, in fabbriche di proprietà taiwanese.


È un primato che affonda le sue radici dalla fine degli anni settanta, quando l'economia a Taiwan conosce il suo boom. Merida e soprattutto Giant, solo qualche anno prima umili produttori di grezze biciclette, fanno il botto portando innovazione e avanguardia, come i primi telai leggeri in alluminio, e in poco tempo si issano in cima al mercato. Già in quegli anni di monopolio assoluto, però, inizia a emergere una contraddizione lampante: quella sorta di Silicon Valley delle due ruote, dopo tutto, non è niente di più che una grande miniera in un deserto, perché a Taiwan del ciclismo non importa quasi a nessuno. È vero, il Paese ospita una piccola corsa internazionale - il Tour of Taiwan, che si tiene nel mese di marzo - ma in fin dei conti è poca roba. In pochi riconoscono il potenziale del ciclismo o addirittura possiedono una bicicletta; nelle luci e nei rumori frenetici delle città, sono le motociclette il mezzo prediletto per sgusciare nella sarabanda di automobili.

Ma in fondo, finché le esportazioni in Europa e in America rimangono gonfie come la rana di Esopo, non c’è molto di cui preoccuparsi: all'asfalto possono continuare a preferire i verdi prati dei campi da golf e con aria di superiorità possono continuare a osservare i grafici delle vendite salire benevolmente. È una situazione paradossale che dura fino alle soglie del nuovo millennio, quando l'economia del Paese va incontro a una recessione e le esportazioni ad una inevitabile contrazione. Come se non bastasse, anche quell'avanguardia tecnologica che tanto faceva le fortune del settore non è più un tratto saliente delle sole aziende taiwanesi. È chiaro che la soluzione più semplice sarebbe quella di spremere una volta per tutte il mercato interno, rimasto fino a quel momento immacolato.

E invece arriva una svolta, il vero cambio di passo verso nuovi tempi felici. I principali brand dell'industria ciclistica nazionale decidono infatti di prendere la loro immagine e di ribaltarla, sul modello dei propri competitor occidentali. È una rivoluzione che permea tutti gli apparati delle aziende, a cominciare dagli impiegati. Quest'ultimi da semplici venditori che passeggiavano inamidati tra gli stand delle fiere, tra una sigaretta e l'altra, si trasformano nei primi entusiasti fruitori e promotori del prodotto. Ecco che Giant, per esempio, inizia a chiedere ai suoi dipendenti di rivoluzionare il proprio stile di vita, rendendo il ciclismo una parte imprescindibile del proprio tempo libero. Da allora lunghe carovane di ciclisti diventano sempre più frequenti in ogni angolo dell'isola. La missione è chiara, fidelizzare gli appassionati a un brand che trasudi passione e attaccamento da ogni suo membro interno.

Manca ancora qualcosa però. Un progetto di più ampio respiro, un evento che possa indirizzare l’attenzione non tanto sul singolo brand, ma su un intero Paese che vive di ciclismo quotidianamente e autenticamente, o almeno dare questa impressione. Da questo punto di vista, le aziende trovano una sponda provvidenziale nel governo. Dopo anni di torpore, o semplicemente indifferenza, la politica si rende conto della naturale capacità del ciclismo di promuovere il territorio e di attirare nuovi visitatori. Si inizia a investire nelle infrastrutture: le piste ciclabili, un tempo sconnesse, si moltiplicano, arrivando a cingere l'intera isola in unico abbraccio.

In questo clima, che si interseca con l’inquietudine crescente verso l’atteggiamento sempre più aggressivo della Cina comunista, nasce il “Taiwan cycling festival”, un appassionato inno al ciclismo che dal 2010, tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre, continua ad aggregare gli eventi più curiosi e disparati. Un evento che si aggiunge alla “Formosa 900”, un tour dell'isola in 9 giorni di bicicletta che attira giovani giornalisti e travel blogger da tutto il mondo, e la “two towers in one day”, 500 chilometri da percorrere in un solo giorno, con il favore dei venti stagionali, dalla punta più settentrionale del paese, il faro di Fuguijiao, fino all'estremo sud dell'isola, il faro di Eluambi. Tra tutti, però, la Taiwan KOM Challenge rimane il fiore all'occhiello nonché l'unico vero evento agonistico del festival. Una manifestazione atipica, in grado di riunire nella stessa arena uomini e donne (ma con classifiche separate), ma anche amatori e professionisti di ogni categoria, quest'ultimi assolutamente in competizione e non soltanto ammessi alla gara a titolo puramente promozionale, come in tante corse a cui la KOM è stata impropriamente accostata.


Nonostante rimanga tutt'ora ignorata dall'UCI (l'organismo mondiale a capo del ciclismo), la Kom ha saputo sedurre nel corso degli anni un numero crescente di vecchie glorie ma anche ciclisti di alto livello in attività, spesso legati ai grandi marchi taiwanesi. Come Cadel Evans, ex campione del mondo e vincitore del Tour de France, o Marianne Vos, probabilmente la più grande ciclista di tutti i tempi, o anche Vincenzo Nibali, che ha partecipato alla Kom nel 2017 , soltanto qualche settimana dopo il suo trionfo al Lombardia (e durante la sua militanza nell'allora Bahrain Merida).

Attraverso le nuvole, fino al cielo

L'acronimo KOM è semplice ma non per questo meno evocativo. Tre lettere che racchiudono un compito impegnativo: eleggere il king of the mountain, il re della montagna. Vero, non è l'unica competizione a volersi arrogare questo diritto, ma nel corso del tempo ha saputo scalare posizioni e divenire probabilmente la più affascinante, se non la più dura. Per rendersene conto basta pensare che, in genere, un terzo dei partecipanti non riesce a terminare la corsa. Domare la KOM significa andare oltre la dimensione fisica e mentale dello sforzo. Si tratta innanzitutto di affrontare una natura scontrosa, irrequieta. Che racconta di tifoni che tagliano a fette il mare. Di pareti rocciose rovinate al suolo. Di distese di quarzo che ora disegnano il profilo di piccole insenature, ma che un tempo, prima di essere rigurgitate dall'oceano, appartenevano alle vicine catene montuose.

Una natura che ha saputo ammantare di magia la genesi di questa corsa: leggenda vuole che nel 2010 Rita Ho, l'allora segretario capo della federazione ciclistica di Taiwan, fosse alla ricerca di una corsa accattivante e della cornice ideale per ospitarla. Gli scalatori e i turisti la attirano nelle gole di Taroko, un monumentale complesso roccioso levigato dalle acque pazienti del fiume Liwu. Stretta tra quelle mura naturali, si perde in contemplazione: foreste rigogliose, ponti sospesi a mezz'aria, cascate impetuose. E in quella atmosfera onirica, al culmine di una visione quasi biblica, la donna immagina una processione di corridori in lunga fila riemergere da quelle foreste e ascendere alle montagne circostanti. L'idea convince anche gli sponsor che accorrono numerosi; il percorso prende forma nei suoi definitivi 105 chilometri, da completare in un tempo massimo di 6 ore e mezza. Due anni più tardi la KOM muoverà ufficialmente i suoi primi passi.

Un piccolo drappello di corridori stretto tra le pareti rocciose delle gole di Taroko (Foto: Taiwan Cyclist Federation).

A distanza di un decennio e rotti, nonostante gli interessi economici già raccontati, la KOM continua a rivolgere uno sguardo ingenuo e primitivo nei confronti del ciclismo. A cominciare dalla partenza, sì in riva all'oceano, ma nascosta tra le prime luci dell'alba, con le strade ancora buie e impregnate di umidità. Impossibile non pensare al ciclismo delle origini; alle traversate omeriche di inizio Novecento; alle prime Parigi-Roubaix corse nel candore delle notti di Pasqua.

A dire il vero, nelle fasi iniziali, quelle strade appena accarezzate dal sole non raccontano imprese epiche; i primi 18 chilometri sono di trasferimento e nei successivi 12 l'altimetria non regala grandi sbalzi, mentre i corridori si lasciano alle spalle il Pacifico puntando verso l'entroterra. Ciò che allora contribuisce ad alimentare quel senso di meraviglia è la conformazione di una delle salite più assurde al mondo: il passo Wuling. Lunghissimo ed enigmatico. Esagerato. Quasi irriverente nei suoi circa 70 interminabili chilometri.

Entrare nel suo ventre significa rimanere incatenati a una danza ipnotica e al contempo sfibrante, che muove lenta e sinuosa i suoi primi passi attraverso oscure gallerie e che indugia dinanzi alla splendida natura delle gole di Taroko, dove ciclicamente si ripete il miracolo che ha ingabbiato Rita. «Mentre cavalcavo il ciglio di questi precipizi e vedevo le montagne, era proprio come una scena di un film o qualcosa del genere», ha detto una volta Cadel Evans «Alcuni scenari, i vecchi templi, la vegetazione che sovrastava tutta la strada... qualcosa che ho visto soltanto nei film asiatici». Arrivati a questo punto, la strada, dopo un inesorabile inerpicarsi, prende un'inspiegabile china discendente per una manciata di chilometri, regalando un illusorio momento di respiro. Poi, ad un tratto, mentre la vegetazione diviene bassa e arruffata, scompare. Inghiottita in una cortina di nubi, torna a salire, stavolta vertiginosa (negli ultimi chilometri la pendenza media non scende mai sotto al 10%, con terribili rampe al 27%), fino a una meravigliosa terrazza naturale, gli oltre tremila metri del monte Hehuan. Acquattate sul ciglio della carreggiata, le ambulanze se ne stanno pronte a rifornire di ossigeno chiunque possa capitolare sotto i colpi dell’altura.


Lungo quelle strade, nella sua cinquantennale occupazione dell'isola, il governo giapponese era solito stroncare le rivolte indigene – proprio di quelle tribù che oggi battezzano la partenza al suono di enormi tamburi- e ora si materializza la perentoria risposta asiatica allo Zoncolan, al Mortirolo, all'Angliru e ai suoi innumerevoli cloni disseminati in giro per la Spagna. Tutte cime che hanno scritto una buona fetta di storia del ciclismo, ma che ultimamente fanno storcere il naso a più di un appassionato.

Una delle ultime vertiginose rampe del Passo Wuling; lentamente la vegetazione cede il passo alle nuvole. (Foto: Taiwan Cyclist Federation)

Si dice che i vecchi tapponi di montagna, con i loro estenuanti colli da scalare in successione, stiano progressivamente perdendo appeal. Che gli ultimi Tour de France siano stati una piccola finestra sul futuro del ciclismo: tappe più brevi, salite pedalabili sui vulcani spenti del Massiccio Centrale, arrivi in quota distribuiti con parsimonia.

Piaccia o meno, a Taiwan, l'estetica ha ancora un gusto decisamente anacronistico. Del resto, come raccontava Hou Hsiao Hsien in uno dei suoi innumerevoli ricordi d'infanzia: “Il tempo scorreva. Sentivo il vento scuotere l'albero, percepivo l'ambiente circostante. L'economia era prevalentemente agricola e a mezzogiorno si faceva la pausa. Facilmente ti accorgevi di quanto lento fosse lo scorrere della vita. Quanto lenti fossero i movimenti degli uomini per strada”.

Piccolo mondo antico

Con l'avvicendarsi delle edizioni, la KOM non solo è entrata nel cuore degli appassionati, ma ha saputo ottenere l'ammirazione anche dei piani più nobili del ciclismo. Emma Pooley l'ha definita senza esitazione «il giorno più duro in sella a una bicicletta», e la stessa Marianne Vos non ha lesinato complimenti, oltre che un pizzico di ironia: «Mi avevano detto di godermi il panorama, ma non ne ho avuto occasione. Ad ogni modo è stata un'esperienza unica, una delle cose più belle che abbia mai fatto nel ciclismo».

L'ingresso nel calendario UCI rappresenterebbe ovviamente la consacrazione definitiva per questa corsa; un'eventualità che sta cominciando a serpeggiare da più parti, ma che fortunatamente o meno appare ancora lontana. La benedizione dell'UCI costringerebbe inevitabilmente gli organizzatori a dare vita a due eventi separati, privando gli amatori della possibilità unica di competere o anche solo pedalare al fianco di corridori di fama internazionale. Ma, soprattutto, ribalterebbe radicalmente il suo spirito, portando l'ipercompetitività delle gare World Tour e stravolgendo completamente l'atteggiamento dei professionisti, che dopo un anno fitto di impegni, si approcciano a questa corsa quasi disorientati dalla torma di amatori, con aria trasognata.I ricordi di Vincenzo Nibali traducono perfettamente questo senso di spaesamento e di genuina meraviglia. «Passammo una settimana in quella parte del mondo, tra le aziende. Andammo anche in Giappone. Fu quasi una vacanza con questa Taiwan Kom Challenge nel mezzo», ha detto una volta «Ricordo che si partiva prestissimo al mattino, del tipo che avevamo le luci sulla bici per andare dall’hotel alla partenza. Bisognava stare attenti perché era buio e c’erano anche delle gallerie, ancora più buie. Non si vedeva nulla. Ed erano umide, bagnate. In corsa c’era anche mio cugino Cosimo. Ad un certo punto gli dissi: dai Cosimo, ma non mi posso mica mettere a rubare la gara agli amatori!» E invece, prima spronato dalle parole proprio del cugino Cosimo, e poi pilotato dal fratello Antonio, Nibali abbandonerà ogni sorta di timore reverenziale vincendo nettamente la KOM e stabilendo il record di scalata. Al termine dell'ascesa incoronerà il Passo Wuling come la salita più dura mai affrontata.

Il podio della Kom 2017: al centro Vincenzo Nibali, contornato da alcune mascotte di dubbio gusto; alla sua sinistra John Ebsen. (Foto di Ru-Jing Chang)

Anche quando i corridori più blasonati giungono alla KOM investiti di grandi responsabilità e aspettative, quel mix così naïf di amatori e professionisti non manca di riservare sorprese. Basti pensare a Simon Yates, spedito sull'isola da Giant soltanto un anno fa, proprio per battere il record di Nibali, in una sorta di guerra a distanza con Merida. Come raccontato dallo stesso Yates, è stato il tratto iniziale di trasferimento a tradirlo, il momento in cui tutti i corridori sono ammassati in gruppo e inevitabilmente emerge l'inesperienza di alcuni partecipanti nel condurre la bicicletta in una simile baraonda. Coinvolto in uno scontro fortuito che ha danneggiato sensibilmente il suo telaio, non è riuscito a cambiare bicicletta e ha dovuto proseguire la sua gara, anche se ormai pregiudicata. «Normalmente, in quella situazione, mi sarei girato, sarei scivolato indietro verso l'ammiraglia e sarei tornato a gareggiare», ha detto il ciclista britannico «Istintivamente ho fatto la stesso, mi sono girato, ma dietro di me ho visto un gruppo di settecento corridori. Non sapevo davvero come comportarmi». Un'indecisione che gli è costata cara. Il record di Nibali è durato sei anni, quando è stato infranto da Ben Dyball, una piccola leggenda del circuito asiatico.

Più che le vicende dei professionisti, comunque, l’epica della KOM si è costruita sugli innumerevoli diari di bordo che raccontano le esperienze degli amatori. Una giovane giornalista canadese, per esempio, ha partecipato alla KOM soltanto pochi mesi dopo la morte della madre e ha scalato l'intero passo Wuling con la sua immagine appesa al telaio della bici. Una sorta di ascesa catartica e liberatoria che si è conclusa solamente due minuti prima del tempo massimo.

Ciò che accomuna tutti questi piccoli memoriali è il forte senso di appartenenza a un evento speciale e a una collettività leale, animata dal desiderio di superare il proprio limite; un sincero cameratismo che possiede la goliardia dell'amatore francese che ha riempito di vino una delle sue borracce per festeggiare il suo approdo al traguardo. O la tenerezza della comunità filippina a Taiwan che ha aiutato una connazionale a partecipare alla gara – e a salire sul podio- nonostante la sua precaria situazione finanziaria. Piccole storie che non meritano di essere spazzate via e che devono continuare a godere di piena cittadinanza nella narrazione di questa corsa.

Goodbye North, goodbye

Nel 2012, quando la KOM apre per la prima volta i battenti, in centinaia accorrono da oriente e occidente. Tra questi già non mancano i nomi illustri: c'è Paco Mancebo, una vecchia volpe che nei primi anni duemila abitava i piani alti del gruppo, rincorrendo Armstrong con la sua andatura incomprensibile, a mo di periscopio. E ci sono anche l'esperto cacciatore di tappe Jeremy Roi e Antony Charteaux, che solo due anni prima, dopo aver scollinato in testa il col de la Madeleine, veniva incoronato miglior scalatore al Tour de France.

Tra i professionisti delle divisioni inferiori, assiepati lungo le spiagge di Chisingtan ad ascoltare il ruggito dell'oceano, compare però anche un giovane danese, John Bohn Ebsen da Hostelbro. Il suo profilo ha ben poco da spartire con le prime pagine: secco, pelle chiara da riflettere, occhi tormentati da una rara forma di ambliopia. Una patologia che lo costringe a non separarsi mai da un cappellino e da un paio di occhiali da sole che per via della loro sottile montatura nera gli conferiscono uno strano aspetto da guardia del corpo su un fisico rachitico.

Nell'estate del '96, poco più che bambino, sfilava in parata per le strade della Danimarca con la maglia della Telekom, in onore di Bjarne Riis, il primo danese nella storia a vincere il Tour de France. Il tutto prima che l'infamia del doping cancellasse quella stagione di gioia sconsiderata. Cresciuto nel mito di Riis, Ebsen ha finito, ironia della sorte, per sviluppare una singolare somiglianza fisica con un altro scalatore danese, Michael Rasmussen, meglio conosciuto in patria come “il pollo”. Un altro che al Tour de France ha impresso il suo marchio, prima di essere rispedito a casa a poche pedalate da Parigi. Uno che Riis lo ha incontrato per davvero, seppur di passaggio, durante la sua militanza in Csc, giusto il tempo di venire introdotto ai cortisonici e di vuotare il sacco dieci anni più tardi nella più classica delle operazioni di pentimento.

A differenza dei suoi predecessori, John Ebsen, prima di giungere al 23° parallelo, è stato alla larga dal Tour de France e dalle sue tentazioni; in quel momento è un grimpeur che ha girovagato qua e là per il pianeta e ha conosciuto le cime più esotiche. In Messico ha persino fatti i conti con un'ascesa di quasi 50 chilometri. Le rampe del Passo Wuling, però, sono una novità anche per lui.

Nei primi chilometri la corsa è sostanzialmente una dolce passerella; poi, una volta varcate le gole di Taroko, inizia a delinearsi il gruppo di testa. Ebsen rimane coperto, ben al riparo dal vento. Placido si lascia trasportare dalla corrente. Sa bene che è importante risparmiare le energie per gli ultimi dieci chilometri, il momento in cui le gambe inizieranno a bruciare e il cuore a scalciare nel petto. Qualcosa però va storto: la strada non ha esattamente le sembianze di un morbido tappeto e i ciottoli gentilmente rigurgitati dalle pareti rocciose rendono infida la carreggiata. Puntualmente, a pochi chilometri dal tratto cruciale, una gomma si affloscia lasciando Ebsen a piedi.

Quel che segue è un piccolo compendio delle sue qualità. Aiutato dal cambio ruote, si rimette in sella e inizia a mulinare pedalate. Il suo incedere non è eclatante, ma inesorabile. Uno ad uno affianca e sorpassa i corridori sparpagliati tra i tornanti: tanto basta per arrivare in cima in solitaria, sotto un insolito sole ottobrino. Il podio, dopo tutto, non sembra rendergli molta giustizia: Peter Pouly ha un bel passato nel Cross Country e poco altro. David Mccann è un pluricampione irlandese a cronometro, ma con tanta polvere addosso. Nulla che faccia gridare all'impresa, insomma. Eppure anche agli avversari più blasonati le cose non vanno decisamente meglio: Paco Mancebo sopraggiunge al traguardo dopo una dozzina di minuti. Antony Charteaux e Jeremy Roi ne prendono addirittura più di trenta.

La vittoria di Ebsen, in Danimarca, non fa molto rumore. E la cosa, a conti fatti, non sorprende più di tanto: fin dalle sue prime esperienze giovanili come cicloamatore, ha sperimentato il sapore delle peregrinazioni e il distacco dai luoghi d'infanzia; con la terra natale non ha mai sviluppato un legame viscerale, quasi vivesse costantemente sul filo di un perenne esilio.

A dire il vero, le cronache nazionali non provano nemmeno a cercarlo. E, in ogni caso, in patria, non lo troverebbero.Trascinato dai festeggiamenti in un bar, Ebsen si è innamorato di una delle sue cameriere. E così la donna e l'isola lo hanno sedotto.

Dall'Europa qualche sparuto reporter di settore si mette sulle sue tracce e riesce a intercettarlo nei caffè di Taichung, sereno e raggiante. Come immerso nel languore di una giornata in piena estate, si scioglie in una dichiarazione d'amore: «Taiwan è una terra splendida. Il cibo è buono, il tempo è magnifico. E pedalare qui è perfetto».

Da quel momento Ebsen diventerà ancora più inafferrabile: un'avventura nell'Androni di Gianni Savio mai decollata, qualche altra comparsata in Europa, per brevi corse a tappe e per i campionati nazionali, e altre piccole vette, ma sempre nello sconfinato territorio asiatico. Di anno in anno, però, ricomparirà alle pendici del passo Wuling, come in un personalissimo pellegrinaggio.

Per altre quattro volte sarà il re della montagna, costruendo un'epopea irripetibile e diventando la leggenda vivente di questa corsa. Il danese è forse uno dei meno noti prodigi della genetica. Come lui stesso racconta in una serie di video dedicati alla KOM, il suo fisico già esile si può concedere il lusso di rinsecchire ulteriormente, senza per questo pregiudicare la potenza. Al picco della forma, è in grado di sprigionare, anche per un'ora, poco più di 6 watt per chilo. Un valore ben al di sopra della media che rende quella salita un abito disegnato su misura per lui.


È lecito quindi chiedersi per quale motivo un atleta con simili numeri non sia riuscito a lasciare un segno tangibile anche nei palcoscenici più noti del ciclismo. La sua parabola, probabilmente, è semplicemente figlia dei tempi moderni, in cui gli scalatori purissimi sono per lo più feticci di un ciclismo che non esiste più e in cui imperversa una generazione di corridori eclettici e dominanti.

Chissà, magari è stato meglio così. Catapultato in un'epoca più propizia, non avrebbe avuto la statura di un personaggio letterario. Calcolatore e scientifico nell'approccio alle corse, difficilmente sarebbe stato in grado di diventare un generoso combattente, capace di incendiare le folle a bordo strada. È prodigioso che la sua storia tuttora rimanga intrappolata in un labirinto di ideogrammi; che la lontananza culturale (e non solo) di quelle terre sia stata in grado di tenerlo al riparo, di mascherare le sue fragilità. E, di fatto, di lasciarlo nell’ombra.


Tra i piccoli frammenti che provano a raccontarlo, non è difficile scegliere quello più emblematico: un breve video di YouTube, che lo ritrae di spalle, poco prima di agguantare il suo quarto successo alla Kom.

Mentre scorrono i secondi, è inevitabile essere pervasi dalla loro atmosfera ovattata: accartocciato sulla sella, al centro della carreggiata, Ebsen procede zizzagando in un deserto di curve e nubi; dietro di lui una motocicletta sferraglia nervosamente. Tutto intorno la pioggia imperversa, ma le immagini sgranate rendono le gocce finissime, quasi impercettibili. Un improvvisato fotografo, imbacuccato in un bomber arancione, prova a rincorrerlo e a immortalare gli ultimi attimi della sua ascesa. Insieme alle urla indistinte di qualche spettatore è l'unica presenza umana riuscita a spingersi fino in vetta. Oltre il guard rail malandato e quel mare di nebbia, il monte Hehuan gli tributerà il suo omaggio per l'ennesima volta.

Da più di cinque anni John Ebsen si è ritirato dal ciclismo professionistico. Tre anni fa, ha conquistato la sua quinta e ultima KOM chiudendo definitivamente quel capitolo della sua vita. Abilmente ha saputo mercanteggiare la fama guadagnata nel continente che più lo ha compreso, diventando brand ambassador di un importante marchio di biciclette. La Danimarca, nel frattempo, ha riscoperto una nuova età dell'oro: un piccolo pescivendolo è diventato grande.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura