Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Perché iniziare a giocare a tennis
26 mar 2021
Un estratto di "Tardi sulla palla" di Gerald Marzorati, pubblicato da add editore.
(articolo)
10 min
Dark mode
(ON)

Pubblichiamo un estratto dal libro "Tardi sulla palla", scritto da Gerald Marzorati e pubblicato da add editore.

Il giorno successivo, poco dopo essermi svegliato, scrissi una mail ad Alexandra, cosa che ormai facevo da diversi mesi. Alexandra Guhde teneva un blog di tennis con lo pseudonimo di Arienna Lee. Usava un alias perché era anche un’importante psicoterapeuta junghiana della Bay Area, e voleva tenere separate le due identità, anche se a qualsiasi avido lettore del blog – come me, per esempio – era evidente che non c’era riuscita. Il blog si chiamava Extreme Western Grip, in onore del modo in cui Rafael Nadal, il suo paziente preferito sul campo, impugna la racchetta quando sferra i suoi violenti dritti e, forse, anche per via della sua prospettiva decisamente non ortodossa.

Nel blog scriveva dei match professionistici, che guardava in tv dal suo appartamento di Berkeley, inserendo anche riferimenti sagaci alla mitologia greca, a Jane Austen, alla cultura pop e alla psicologia. Tempo prima le avevo inviato una mail di complimenti, e ne era nato uno scambio epistolare telematico. Parlavamo delle partite che guardavamo, e di quelle che giocavamo (lei aveva praticato tennis al liceo, e stava ricominciando dopo una pausa di qualche anno), ma con il passare del tempo, man mano che ci conoscevamo meglio, ero sempre più interessato a sapere cosa lei pensasse della mia decisione di darmi al tennis.

Gli junghiani, come lo stesso Jung, parlano molto della “seconda metà della vita”, un concetto espresso con la massima chiarezza nel best seller di James Hollis, Finding Meanings in the Second Half of Life: How to Finally, Really Grow Up (Dare un senso alla seconda parte della propria vita: come crescere finalmente e per davvero). Nel sottotitolo l’autore allude apertamente a ciò che si è combinato nella prima parte della vita. Ho attraversato una fase in cui leggevo manuali di auto-aiuto, più o meno nel periodo in cui dovevo decidere se allenarmi sul serio con Kirill e raddoppiare le ore di lezione. Erano libri di cui non avrei mai parlato con qualcuno (abbiamo tutti le nostre vanità), sebbene avessi scoperto che David Foster Wallace, il più grande scrittore di tennis che l’America abbia mai prodotto, era un attento e vorace lettore di John Bradshaw, Alice Miller, M. Scott Peck e non solo. (Era anche un depresso con tendenze suicide). Il mio problema con questi manuali, oltre al fatto che tendono a essere astrusi e ridondanti, è che, per semplificare, non ero insoddisfatto della vita che avevo vissuto o che stavo vivendo allora.

Secondo Jung, la seconda metà della vita inizia intorno ai trentacinque anni, ma era improbabile che i suoi pazienti vivessero quanto vivrò io (facendo gli scongiuri). È dunque nella mezza età che, a detta di Jung, un uomo o una donna si rendono conto che la loro esistenza non ha un senso, che stanno vivendo la vita (matrimonio, carriera) che qualcun altro (la madre negativamente interiorizzata) ha scelto per loro: che l’anima soffre e necessita di cure.

Ma quale anima non ha bisogno di cure? E siccome a questo punto mi immagino una psicologa che scuote la testa, sì, ci sono cose sepolte nel subconscio – sede di impulsi oscuri e di desideri insoddisfatti – di cui non sono consapevole, e forse dovrei cominciare ad annotare quello che ricordo dei miei sogni, ma al buio, come un altro junghiano mi consigliò di fare a una cena, perché la luce finirebbe con il sottrarre parte della loro essenza.

Secondo Alexandra, c’erano forze inconsce che mi esortavano a prendere più sul serio il tennis, a raddoppiare le ore di lezione con Kirill, a giocare. Ne ignorava la natura, né sapeva se fossero ancora all’opera, ma la riteneva una gran cosa: un inconscio irrequieto significava che erano in atto forti tumulti interiori cui io permettevo di «farsi gli affari loro», come mi disse una volta a cena a Oakland, la prima volta che ci incontrammo di persona. (Mi trovavo nella Bay Area per assistere alla laurea del mio primogenito, evento accompagnato da numerosi tumulti interiori…).

Mi disse inoltre: «Personalmente, non vedo alcuna ragione per cui una persona appagata non possa essere anche inappagata, nella misura in cui è ancora in cerca di qualcosa», e furono parole che mi suonarono così vere, il che potrebbe essere un’altra conferma che non ero in grado di esprimere ciò che stavo pensando. Fu come quella volta che lessi da qualche parte che si può essere felici e infelici allo stesso tempo, perché la felicità e l’infelicità, secondo una recente scoperta neuroscientifica, sono situate e vengono innescate in aree diverse del cervello, sono due emozioni distinte che non si annullano a vicenda. Alcune persone possono essere molto felici e anche molto infelici. Io mi ero sempre considerato un malinconico solare. Adesso, invece, sapevo di essere un cercatore appagato.

«Il punto sta tutto nella ricerca di un senso», mi disse Alexandra con molta convinzione. «E nella vita ci sono parecchi sensi da trovare».

Aveva ragione. Per esempio, volevo scoprire quali significati potevo estrapolare dal mio corpo che stava invecchiando. C’è un passaggio nella meditazione epigrammatica di Cyril Connolly, La tomba inquieta – un’opera che amo –, che recita: «La libertà suprema è la libertà dal corpo». Connolly era uscito di senno (almeno secondo i secolari canoni di pensiero classico e cristiano)? Come lui, avevo trascorso gran parte della vita a leggere, rivedere e cercare significati nelle parole, ma adesso ero in cerca di un nuovo tipo di attenzione, e volevo muovermi, arrivare da qualche parte il più velocemente possibile; su una pallina da tennis, per esempio. Volevo capire come funzionavano i miei muscoli, e volevo irrobustirli. Volevo inoltre dominare quei muscoli e quei movimenti, raggiungendo una forma fisica e una tecnica adeguate: volevo essere parte di una struttura, di una disciplina, e arrivare a fare qualcosa nel modo corretto, che si dà il caso sia anche qualcosa di meraviglioso.

Sarei riuscito a trascendere ciò che la filosofa ed ex ballerina Maxine Sheets-Johnstone ha definito “cefalocentrismo” – la vita della mente con tutte le sue involuzioni, risonanze e soddisfazioni riposte in noi –, e a scoprire cose che non conoscevo attraverso il movimento corporeo? Sarei riuscito a rallentare la mente per raggiungere questi obiettivi, per arrivare a quella presentezza che gli sport assicurano, ciò che un altro filosofo (e tennista), Colin McGinn, ha descritto come la piacevole solitudine esistenziale che un’attività sportiva può garantire, un certo “solipsismo muscolare”? (Va bene, non riesco a non cercare significati nella scrittura…). Esiste, in ultima analisi, un’esame della vita fisica?

Ovviamente, per giocare bene a tennis non basta soltanto un buon fisico. Occorrono anche strategia e giudizio. Avrei dovuto acquisire competenze, e questo avrebbe richiesto allenamento, che a sua volta avrebbe voluto una forte motivazione personale. E le competenze necessarie per l’apprendimento del tennis avrebbero richiesto una precisa padronanza percettiva (quella palla che arriva dall’altra parte della rete è carica di topspin o backspin?) e una rigorosa coordinazione di diversi muscoli (comincia ad avanzare e ad abbassarti per prendere quella palla che si alzerà appena da terra). Quel muscolo che è il mio cervello si sarebbe dovuto sviluppare in modi nuovi.

Volevo fare qualcosa di difficile. Alla fine, forse era questo il motivo per cui volevo giocare a tennis.

Desideravo migliorarmi in qualcosa, ero consapevole di questo. “Migliorare” era un verbo che ormai utilizzavo poco nella vita. Ero stato un ottimo lettore sin da bambino, e negli anni avevo continuato a leggere fino a farne un lavoro. Probabilmente ho smesso di migliorare come lettore mezza vita fa. Smettiamo così presto di migliorare, almeno nelle cose tangibili.

Per concludere, forse per l’ultima volta volevo mettermi alla prova con qualcosa su cui potevo avere il controllo, perché non sarei riuscito a fare altrettanto con le ultime vere sfide che avrei affrontato nel prosieguo della vita. Spingere al limite il mio corpo prima che questo spingesse me al mio. Avevo la sensazione che mettermi alla prova potesse essere il modo definitivo per conseguire la libertà, la libertà percepita. Mi sarei allenato per anni, dedicando al tennis quanto più tempo potevo: lo consideravo lo sport più difficile da padroneggiare, perché richiedeva velocità, perseveranza, coordinazione occhi-mano e resistenza psicologica.

Ed era la mia resistenza psicologica a preoccuparmi quella mattina che scrissi ad Alexandra. Mi ero preso un giorno libero dal lavoro, ma ero tutt’altro che rilassato. Più tardi, avrei incontrato e palleggiato con una leggenda del tennis senior, ed ero agitatissimo.

Bob Litwin è uno dei migliori dilettanti senior che l’America del tennis abbia mai avuto. La USTA comincia a considerarvi un senior intorno ai trentacinque anni, e organizza tornei regionali e nazionali in tutto il Paese, i cui partecipanti – uomini e donne – vengono raggruppati in base all’età a intervalli di cinque anni: dai quaranta ai quarantaquattro, dai quarantacinque ai quarantanove e così via, fino ad arrivare ai novantenni (che Dio li benedica). Litwin aveva preso parte ad alcuni tornei regionali sulla costa orientale prima di partecipare al suo primo torneo nazionale USTA, il campionato nazionale su terra battuta over 35, dove era stato sconfitto in un lampo. Aveva continuato a partecipare ai tornei nazionali, fino ad arrivare, nel 1990, al campionato nazionale sull’erba per uomini dai trentacinque ai quarant’anni. Litwin ne aveva quarantuno. (La USTA consente di “ringiovanire” di un anno). Da allora non ha più smesso di vincere.

Stando alle ultime statistiche, conta diciassette titoli nazionali e innumerevoli titoli regionali. Ha vinto per undici anni di fila tutti i match disputati nei tornei regionali sulla costa orientale. Ha militato in numerose squadre statunitensi di Coppa Davis senior e, nel 2005, a Perth, in Australia, ha vinto il campionato mondiale over 55 indetto dalla Federazione internazionale di tennis (sì, il tennis senior è un fenomeno mondiale). Quell’anno è diventato il numero uno al mondo nella sua categoria, e da allora ha continuato a competere ai massimi livelli, tanto negli USA quanto all’estero, fino a raggiungere quell’età – sessantacinque anni – in cui si viene considerati anziani dalla Social Security Administration (la previdenza sociale americana). Un mio collega che lo conosceva per questioni di lavoro – Litwin era performance coach per investitori di Wall Street e analisti finanziari – aveva organizzato una partitella di un’ora al club di cui Litwin è socio: Shelter Rock, a Manhasset, sulla North Shore di Long Island, a mezz’ora da casa mia.

Ero in ansia perché avevo paura di fare brutta figura con Litwin, e mi sentivo a disagio per l’invidia che temevo avrei provato una volta constatato che lui era un tennista molto più in gamba di me.

Scrissi ad Alexandra per esporle le mie preoccupazioni. Lei fu come al solito rassicurante… in un certo senso.

«Perché non dovresti godere del fatto di condividere il campo con un uomo con queste capacità?» mi rispose. «Sai quanto è faticoso diventare bravi in una data disciplina, è qualcosa che stai sperimentando in questa fase della tua vita».

Le riscrissi spiegandole che non mi piaceva provare invidia. Era un sentimento sbagliato, cosa che aggiungeva il senso di colpa all’invidia, e a me estraneo.

«Ho sentito da poco un’intervista a Linda Ronstadt su Fresh Air, il programma della radio pubblica», replicò Alexandra. «Ha ricordato la prima volta che ha sentito cantare Emmylou Harris. Lei, la Ronstadt, ha detto qualcosa del tipo: “Aveva una voce incredibile. Potevo restarmene in disparte e invidiarla, o provare a incontrarla e cantare con lei”. Mi è piaciuto il modo in cui lo ha detto. L’invidia è la presa di coscienza di una capacità. E non c’è nulla di male in questa consapevolezza».

E aggiunse: «Ovviamente, andare al di là della consapevolezza iniziale è qualcosa che non tutti fanno».

Ora è facile capire perché prima ho scritto che era stata rassicurante, ma solo in un certo senso.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura