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La stagione della verità per il "Taty" Castellanos
28 ago 2024
28 ago 2024
Con Baroni l'attaccante argentino avrà finalmente più spazio.
(foto)
IMAGO / Giuseppe Maffia
(foto) IMAGO / Giuseppe Maffia
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La partita di Udine, per la Lazio, si è messa male già da un quarto d’ora: i bianconeri sono in vantaggio e soffocano costantemente la manovra degli uomini di Baroni, che non riescono a trovare spazi. Zaccagni viene chiuso in fallo laterale, l’inquadratura ruba un suo sbuffo di disappunto. Marusic rimette la palla verso il centro del campo, al limite dell’area, e “Taty” Castellanos, con un colpo d’anca – uno di quei corpo-a-corpo sporchi nei quali eccelle, e che lo caratterizzano – ruba qualche millimetro al marcatore: quel pallone a mezz’altezza può essere il preludio a uno stop o a un tiro al volo in girata. Cos’è che fa di un calciatore un calciatore ambizioso? La fiducia nei propri mezzi o l’aspirazione a trascendere i propri limiti?

Castellanos sceglie il tiro al volo: ne esce fuori una conclusione sbilenca, che ricorda i tanti calci di punizione che Cristiano Ronaldo sta spedendo dalle parti delle dune nell’ultimo malinconico spezzone di carriera araba. Se scomodo CR7 è perché se volessimo abbracciare la macrocaratterizzazione dei calciatori dell’epoca (e dell’epica) moderna, figlia di un riduzionismo manicheista, Castellanos rientrerebbe senza dubbio tra i cristianoronaldici: giocatori a tratti spocchiosi, che sembrano giocare una partita in primis contro se stessi, poi contro gli avversari, e solo in fondo per la loro squadra.

Nel prosieguo della partita con l’Udinese, “Taty” cercherà altri colpi a sensazione: un pallonetto rigido, di cui maschera l’insuccesso con una protesta plateale per un presunto fallo da rigore. Tiracci strozzati. Colpi di testa riottosi. Fiammate intervallate da lunghe, marginali peregrinazioni.

Nella testa, forse, aveva ancora la coda lunga dell’entusiasmo suscitato nell’esordio stagionale, davanti al suo pubblico, dove si era preso la scena da mattatore vero, quello che aveva sognato – e nel quale i tifosi laziali neppure speravano – diventasse: un gol, un rigore procurato, due pali colti con due conclusioni, ancora una volta, ambiziose. La costante sensazione di pericolo che ha saputo far aleggiare a mezz’altezza, come la nebbia nelle mattine piene d’afa, tra i difensori del Venezia.

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A Udine, invece, Castellanos non è stato il re della milonga, come si direbbe in Argentina, nonostante abbia cercato in ogni maniera di salvarsi dal naufragio biancazzurro. L’ha fatto, però, più per sottrazione. Prima della partita Baroni di lui aveva detto «è un giocatore forte, ma ha bisogno di giocare. Quest’anno avrà più spazio, e la squadra lavorerà per lui». È stato quello il momento in cui Castellanos si è sentito finalmente al centro del progetto?

Diventare un attaccante

Castellanos lo sa bene, che nessuno ti regala niente. Lo ha capito anche e soprattutto l’anno passato, quando, nonostante Immobile non fosse già più Immobile, non è comunque riuscito a giocarsi le sue carte come avrebbe voluto nella prima stagione con la Lazio, ad avere le chance che invece quest’anno Baroni sembra disposto a concedergli. Ma lo sapeva già, fin dagli albori della sua carriera, quando River Plate e Lanús non hanno creduto in lui. I primi, semplicemente, lo hanno liquidato con un le faremo sapere: ma erano nella loro drammatica parentesi della retrocessione, c’è da capirli. I secondi lo hanno ritenuto inadeguato fisicamente: troppo migherlino. “Taty” non si è dato per vinto, appena diciassettenne ha attraversato il confine e da Mendoza si è trasferito in Cile, a Santiago, dove viveva il padre che non vedeva e con cui non parlava da sette anni, per giocare con la Universidad de Chile.

C’è un particolare, di questo momento della carriera di Castellanos, che secondo me è eloquente del suo approccio al calcio, e forse anche a tutto il resto. Nonostante il suo fisico lo renda più adatto per il ruolo che ha ricoperto fino ad allora, quello da esterno d’attacco, lui decide di lavorarci su, perché vuole essere un centravanti. Uno che vuole sempre «fare gol ed essere il migliore in campo», nelle sue parole. Quando lascia la Universidad per trasferirsi al Torque Montevideo, nella seconda serie uruguayana, dice di riconoscersi «nella garra di Lucho Suárez, e in Falcao». Tre mesi prima del suo arrivo, la squadra ha cambiato il suo nome in Montevideo City Torque in seguito all’acquisto da parte del City Football Group. “Taty” non può ancora saperlo, ma sarà uno snodo fondamentale nella sua carriera.

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Il periodo della muta del Taty, da esterno filiforme ad attaccante irriverente.

Castellanos, da questo punto di vista, è infatti un caso di studio: il prodotto eloquente di quel preciso fenomeno che è la scalata di un giocatore all’interno delle dinamiche di multiproprietà del calcio moderno. Brian Marwood, direttore responsabile dell’area sportiva del Football City Group, in un’intervista alla BBC ha detto che a rendere Castellanos appetibile agli occhi del gruppo è stato il suo essere giovane, dinamico, aggressivo. Un investimento interessante per varie squadre del gruppo. Un profilo intercambiabile in contesti diversi grazie alle sue caratteristiche attitudinali più che tecniche.

Il primo salto che fa Castellanos nella sua carriera è verso gli Stati Uniti: in tre stagioni al centro dell’attacco del New York City FC si mette in mostra per quello che è, un calciatore vistoso, sì, ma anche molto concreto. Che (si) delizia con rabone e colpi a sensazione, ma che poi segna, anche, e tanto.

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Così tanto che, nel 2021, vince la scarpa d’oro come miglior marcatore, trascinando il New York City Football Club alla prima vittoria del titolo in MLS. In totale negli States colleziona 50 gol tondi tondi in 106 presenze, praticamente un gol ogni due partite. Una media da attaccante di razza, che a ventiquattro anni gli vale un interessamento del River (ironia della sorte!) di Gallardo che ha appena venduto Julián Álvarez al Manchester City. Per “Taty” sarebbe una rivincita importante, l’occasione di giocare per la prima volta in Primera entrando dalla porta principale, ma la sua strada rimane ancora all'interno del City Football Group, scegliendo il Girona.

L'approdo in Europa

La stagione in Catalogna è stata un po’ un bignami della sua mancanza di continuità. Castellanos non è costante, spesso non è decisivo: al Granada è il terminale offensivo della squadra di Michel ma nel girone d’andata segna soltanto 4 reti. Non è il cecchino implacabile che vorrebbe essere, però mette in mostra movimenti profondi, un dinamismo nervoso che esaspera gli avversari (e spesso i suoi stessi tifosi), gioca di raccordo. La Lazio, che aveva cominciato a mettergli gli occhi addosso, probabilmente si è fatta convincere soprattutto da questo: la capacità di mettersi a disposizione della squadra, anche col palleggio, che abbina alla profondità degli affondi. Non è Immobile, ma può costituire una buona soluzione per sostituirlo: ai tifosi piacerebbe che fosse un nuovo Crespo, ma sembra più probabile che Sarri possa farne, con le dovute proporzioni, una specie di nuovo Higuaín, perno delle manovre offensive, regista avanzato oltre che finalizzatore implacabile.

Poi arriva la primavera. L’exploit che “Taty” vive a cavallo tra la fine di aprile e l’inizio di maggio 2023 è più un miraggio che una promessa, lo scintillio delle lucciole che presagisce la magia onnipotente dell’estate prima di lasciare spazio all’aria torrida e bollente della realtà. E quell’exploit è tutto nel poker che rifila al Real Madrid.

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Segna di testa, attacca la profondità, si fa trovare al punto giusto al momento giusto: neppure due settimane prima, però, al Camp Nou, di fronte al Barcellona ha sbagliato un gol sanguinoso, che lo ha ridotto in lacrime e l’ha portato, per ripicca – o per naturale meccanismo di difesa contro gli hater che lo stavano massacrando sui social – a chiudere la sua pagina Instagram. Chi è, davvero, “Taty" Castellanos? L’onnipotente in potenza che segna un poker al Madrid o il fallibile centravanti con le polveri bagnate che rosica quando non incide?

«So di essere un giocatore di carattere, bravo ad aiutare la squadra e a capire bene il gioco con o senza palla», si è presentato lui all’arrivo a Roma. Da bravo paraculo ha capito che c’era da conquistare la benevolenza – prima che la fiducia – dei tifosi: «Ho l’aquila tatuata», racconta più per imbonire che per raccontare. Sceglia la maglia numero 19 perché il taxi che lo porta a Formello è “Aquila 19”. I tifosi sono combattuti: sui forum c’è chi ne elogia la «faccia da fijo de na…» e chi è più titubante: "Caro Taty, ci dicono tu sia arsugo. Potresti specificare se di cinghiale o di lepre?".

Intendiamoci: capisco la titubanza per un calciatore giovane che arriva per provare a fare le scarpe al giocatore più rappresentativo, capitano, bandiera, leggenda della tua squadra. Il fatto è che Castellanos non riesce mai davvero a mettersi in mostra. E di certo non lo aiuta Sarri, che continua sistematicamente a preferirgli Immobile – pur nella peggior stagione della sua carriera.

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A ottobre, con l’Atalanta, segna un gol (il primo in Italia) e serve un assist. Si ripete a dicembre con il Frosinone. A gennaio, nel derby di Coppa Italia, brucia sullo scatto Huijsen e si guadagna il rigore che permetterà ai biancocelesti di passare al turno successivo. Per ritrovarlo nel tabellino dei marcatori servono due mesi: doppietta al Frosinone. Sulla panchina della Lazio siede già Martusciello, che prende il posto di Sarri fresco di dimissioni. Di lì a poco arriverà Tudor.

«Io, alle critiche, rispondo sul campo», dice Castellanos, che però è spesso goffo, confusionario, tutto preso da una frenesia, da una voglia matta di strafare, di mettersi al centro della scena, proprio sotto al fascio di luce proiettato dall’occhio di bue.

Tudor lo capisce subito: «A volte pensa troppo al gol, pensa troppo. Il mio obiettivo è renderlo più spensierato. Ha quella voglia di aggredire lo spazio, di muoversi che io apprezzo tanto». Tudor motiva Castellanos, e il gioco sembra funzionare: contro la Juventus, nella doppia sfida di Coppa Italia, prima lo carica (riferendosi a Bremer, deputato a marcarlo, gli dice: «è il difensore per me più forte al mondo. C’è una cosa più bella di giocare contro il più forte al mondo? No, non c’è»), e poi lo lascia detonare: segna la doppietta che quasi mette in equilibrio la doppia sfida, e il secondo gol è proprio Tatyesque nella maniera in cui, con un colpo d’anca, si scrolla dai morsi di Bremer come una vittima sul punto di soccombere da quello dei lupi.

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Ma a Taty la ferocia non basta. Vuole essere l’uomo più interessante nella stanza, la – come dicono in Argentina – figura, sempre. Per questo cerca la giocata che faccia divertire – più che lo faccia divertire. Forse il picco massimo, sotto questo punto di vista, della sua carriera laziale è il gol – poi annullato per fuorigioco – contro il Napoli.

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«È più bravo coi piedi per l’aria che per terra», mi ha detto di lui un tifoso della Lazio. Le acrobazie, in effetti, sono sempre una soluzione ponderabile, mai esclusa a priori, per Castellanos: un gol sensazionale, in mezza rovesciata, l’ha segnato anche in precampionato contro il Southampton, e pure a Udine, con la sua squadra sotto di due reti, subito dopo il colpo del potenziale KO di Thauvin, si è coordinato per raccogliere in sforbiciata un pallone che però non è mai arrivato dalle sue parti.

“Taty”, insomma, è – gli piace essere – eclatante. Vistoso. Rumoroso. Con i gesti tecnici o con gli accenni di rissa, con i tocchi sporchi e con le provocazioni, con le discussioni con l’arbitro, con gli sguardi di sfida lanciati ad avversari e compagni.

«Deve giocare con ferocia», ha detto di lui Baroni dopo l’esordio spumeggiante con il Venezia «E lo sa, e lo fa». Con quella ferocia “Taty” induce all’errore l’avversario, e si prende in mano una leadership sporca, più con l’aura meticcia del gaucho che con il carisma imbrillantinato del milonguero.

Come un gaucho, il Castellanos di Baroni si autoconfina nella pampa della metà campo avversaria, con le bolas sotto al poncho mentre attende palloni giocabili sorseggiando mate, spalancando la brughiera alle sortite dei centrocampisti e pronto a sferrare attacchi con i coltelli negli occhi quando il centrocampo, invece, riesce a imbeccarlo in profondità.

La mappa dei tiri di Castellanos in queste prime due partite, grafico StatsBomb.

Quest’anno, nelle due partite che ha finora disputato da titolare e punto di riferimento dell’attacco, ha tirato in porta più di chiunque altro in Serie A (insieme a Leao: in totale 11 volte), producendo 1,14 Expected Goals, meno solo di Zapata e Mosquera (dati StatsBomb).

Ma ha soprattutto continuato a essere il giocatore intenso, sucio, l’ultimo a mollare, l’ultimo a smettere di crederci. Non è un caso che il gol della bandiera della Lazio, a Udine, sia arrivato sugli sviluppi di una respinta a un suo tiro, l’ennesimo.

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La partita flamboyante con il Venezia – unitamente a una serie di defezioni contingenti, come quelle di Messi e Di Maria – ha spinto Scaloni a convocarlo per le due partite di qualificazione ai Mondiali 2026 che la Selección giocherà a settembre contro Cile e Colombia.

Non è la prima volta che il tecnico lo convoca – era già stato inserito nelle preliste tre volte –, ma stavolta è nella rosa che si distribuirà tra campo e panchina. La sfida agli andini, peraltro, avrà per lui un sapore speciale, pieno di premesse di parricidio. Certo, non sarà facile ritagliarsi uno spazio minimo, in un ruolo tradizionalmente appannaggio, dall’inizio del ciclo Scaloni, di Lautaro Martínez e Julián Álvarez – che per di più Scaloni utilizza in staffetta. Eppure, chissà se anche in virtù di questa prospettiva futura, per “Taty” non sia arrivata l’ora di scegliere a quale archetipo rifarsi: l’attaccante associativo o il punto di riferimento solitario? Il costruttore di trame o il finalizzatore senza scrupoli?

A Udine, Baroni – ovviamente in maniera contingente, visto che c’era da recuperare il risultato, o almeno provarci – ha schierato Castellanos e Dia, appena arrivato, in tandem. Seppure dettata dall’urgenza, la convivenza è parsa possibile, ovviamente a fronte di una distribuzione dei ruoli. Il franco-senegalese è subito sembrato prendersi sulle spalle la responsabilità di abbassarsi, mentre Castellanos ha continuato a perseguire l’isolamento ascetico di chi lascia intendere di voler tenere per sé le chiavi delle soluzioni finali.

Chissà che alla fine Castellanos non abbia già scelto di essere gaucho. Come gli fa dire José Hernández nel Martín Fierro, il poema che ha definito meglio di qualunque questa figura, il gaucho è chi si sente «toro en mi rodeo y toraso en rodeo ajeno», toro nel mio rodeo e fuoriclasse in quello degli altri. Magari anche per Castellanos vale lo stesso: se l'area ti fa sentire solo un toro in un rodeo perché non concedersi ogni tanto la libertà di uscire fuori per essere davvero se stessi?

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