Questo articolo è uscito una settimana fa in anteprima su Stili di Gioco, la newsletter de l'Ultimo Uomo. Per iscrivervi andate qui.
Cara redazione,
Berrettini ha vinto a Budapest mostrando un gran tennis. È il secondo anno di fila che il torneo viene vinto da un italiano, dopo Cecchinato lo scorso anno. Mettiamoci pure la vittoria di Fognini a Montecarlo e i buoni risultati di Sonego. Si può parlare di rinascita del tennis maschile italiano o è ancora troppo presto?
Un saluto,
Domenico
Risponde Federico Principi
Caro Domenico,
in effetti i recenti successi in sequenza dei nostri tennisti si incastrano in un filone che potremmo far partire dalla semifinale di Marco Cecchinato al Roland Garros dello scorso anno e dal suo successo contro Novak Djokovic. Nel frattempo ci sono state anche le due finali Slam junior di Lorenzo Musetti – quella persa allo US Open e quella vinta agli Australian Open – oltre ai ripetuti successi dell’altro giovanissimo Jannik Sinner. È chiaro, quindi, che tutti questi risultati così incastonati contribuiscono a creare l’ormai celebre – e spesso irrisa – immagine del movimento in salute, ma bisogna provare a tracciare un quadro più ampio per andare a fondo.
Innanzitutto la vittoria di Fognini a Montecarlo è un evento a sé, che arricchisce la bacheca di una generazione ormai andata, il cui bilancio è già stato ampiamente tracciato – Fognini va per i 32 anni, gli stessi di Murray che inizialmente aveva annunciato il ritiro dal tennis – ed è un successo dovuto più a sue determinate caratteristiche personali che non a un vero e proprio movimento. Il movimento che si sta creando nelle generazioni più giovani, con i successi di Berrettini, Sonego, Musetti e Sinner come punte dell’iceberg, parte da basi differenti.
Dal 2015 si è cercato di creare un’organizzazione più capillare del nostro sistema giovanile. Si era notato che al centro di Tirrenia - dove si è formata la generazione di Fognini - qualche ragazzo di troppo rischiava di subire il feroce impatto con la preparazione al professionismo, oltre che la lontananza da casa, e si è deciso di creare strutture più decentrate e calibrate in relazione alle fasce di età: i Centri di Aggregazione Provinciale (CAP) dai 9 agli 11 anni; passando poi per 26 Centri Periferici di Allenamento (CPA) sparsi per tutto il territorio, per ragazzi dai 12 ai 14 anni; per poi arrivare ai 4 Centri Tecnici Periferici (CTP) di Vicenza, Foligno, Bari e Palazzolo sull’Oglio. «Ho lavorato al CPA a Foligno e noi non ci sostituiamo al maestro che ogni ragazzo ha come riferimento», mi ha spiegato Alessio Torresi, «a ogni raduno, tre weekend al mese, il maestro è presente e noi creiamo una collaborazione tra lui e una figura tecnica di riferimento nazionale».
A Tirrenia ora ci si arriva dopo i 17 anni, mentre nel frattempo è stato varato anche il progetto Over 18 – con sussidi erogati per atleti meritevoli dai 18 ai 24 anni – per accompagnare a un professionismo dove i giocatori hanno un'età media sempre più alta. Curiosamente, tra i gruppi di lavoro creatisi qualche anno fa nell’Over 18, i giocatori da te citati – Berrettini e Sonego – lavoravano insieme, sotto la supervisione di Umberto Rianna e Filippo Volandri, che dal punto di vista dei risultati ottenuti si sono rivelati i migliori tecnici all’interno di quel progetto.
Ora, giustamente qualcuno potrebbe far notare che questa rivoluzione è avvenuta nel 2015, quando cioè Sonego compiva 20 anni e Berrettini 19, per cui il loro attuale successo è da considerarsi solo parzialmente frutto della nuova organizzazione della nostra formazione tennistica, ma quanto meno una buona cartina di tornasole dell’efficacia del progetto Over 18. Il primo vero banco di prova per la nostra scuola avverrà con la generazione di Lorenzo Musetti, Jannik Sinner e Giulio Zeppieri – classe 2002 il primo, 2001 gli altri due. Per il momento, nel ranking ATP, tra i giocatori nati dopo il 2001 Sinner, Musetti e Zeppieri sono rispettivamente primo, terzo e quarto, ma di enfant prodige italiani persi dall’élite la nostra storia recente ne è piena – Matteo Trevisan e, per il momento, Gianluigi Quinzi sono gli esempi più lampanti – per cui per tracciare un bilancio sull’efficacia del nostro movimento giovanile nel professionismo bisognerà aspettare ancora parecchi anni.
La partita giocata la settimana scorsa tra Sinner e Musetti.
Di certo questa tendenza recente sta dissipando i dubbi sulle scelte della nostra Federazione. Dalle dichiarazioni rilasciate dal presidente FIT Angelo Binaghi, in un’intervista a Il tennis italiano del dicembre 2016, sembrava emergere l’immagine di una figura interessata quasi unicamente ad aspetti organizzativi su cui ha lavorato con molto successo – come l’aumento dei tesserati e gli Internazionali di Roma – ma che sembrava invece incurante degli aspetti tecnici. Anche nei tornei organizzati dalla FIT, frequentati da noi amatori, sono state fatte sia scelte per abbassare un po’ il livello e ampliare il campo di partecipazione – togliendo le riduzioni nei tornei under, che hanno un po’ gonfiato le classifiche soprattutto in quarta categoria – sia per invogliare o costringere i giocatori a partecipare a più tornei, togliendo il cosiddetto “capitale di partenza”, una mossa nefasta soprattutto per i tennisti di seconda e terza categoria che sono ora chiamati a un’attività molto più intensa – e quindi a spese maggiori, con più incassi per la FIT – per mantenere la propria classifica
Tuttavia molti, a mio parere ingiustamente, hanno preso alcune dichiarazioni di Binaghi a Il tennis italiano («Non ho mai visto giocare Quinzi, Sonego solo un set a Roma, Caruso e Mager non li conosco») come un segnale del mancato interesse della Federazione a creare giocatori di successo. Credo invece che molti giudizi siano influenzati anche da pregiudizi sulla persona di Binaghi. Ci si lamenta a ragione, ad esempio nel calcio, di un’eccessiva ingerenza dei padroni sulle questioni tecniche e il fatto che invece per una volta un presidente ammette le proprie lacune, decidendo di delegare un intero settore, si dovrebbe accogliere con positività.
Forse si potrebbe obiettare che la gestione Binaghi sia ormai arrivata al diciottesimo anno e che gli investimenti più importanti nel settore tecnico siano stati stanziati un po’ tardi – nel 2016 sono aumentati del 14% rispetto al 2015, nel 2017 del 5% rispetto al 2016 e nel 2018 del 4% rispetto al 2017, per arrivare ai circa 6,7 milioni attuali – ma come ha spiegato lo stesso Binaghi «quando sono arrivato c’erano 120 cause di lavoro e la crisi era al suo punto massimo». Per cui non è poi così da biasimare la scelta di voler risanare le casse prima di partire con investimenti più onerosi nel settore tecnico, che a loro volta dovrebbero creare un ulteriore circolo virtuoso grazie ai risultati nel circuito maggiore.
Certamente restano alcune ombre, non tanto sulla volontà di creare giocatori di successo – si conosce molto bene il potere trainante di un campione sui giovanissimi – e nemmeno sull’organizzazione delle strutture, la cui capillarità non ha molti eguali in giro per l’Europa. Piuttosto la Federazione non ha mai spiegato – nonostante investimenti annuali di oltre 6 milioni all’anno sul settore tecnico e utili che sommati hanno generato un tesoretto di oltre 20 milioni – per quale motivo i tecnici federali prendano stipendi inferiori a 2mila euro mensili, che in una pura logica economica li invoglierebbero a relegarsi nei circoli di provincia dove, tra stipendi dichiarati della SAT e incassi in nero con le lezioni private, un maestro quasi sempre supera – spesso abbondantemente – i 2mila euro mensili.
Emerge anche quindi un problema di qualità dell’insegnamento a livello federale, che ha portato ad esempio Silvia Farina e Barbara Rossi in coro – in un’interessantissima inchiesta sul settore femminile realizzata da Federico Ferrero su Il tennis italiano – a sostenere che le nostre giovani tenniste abbiano carenze tecniche, anche a livello di insegnamento di base. Un altro problema generale sembra essere quello dell’eccessiva importanza data al risultato immediato in età giovanile a discapito della programmazione a lungo termine. Forse è da questo che nasce l’attuale demarcazione tra le prospettive nel tennis maschile e in quello femminile, molto più in difficoltà. Tra le ragazze – con i ritmi più bassi di gioco e punti deboli più marcati – è più facile ottenere risultati in età giovanile, perfino arrivando alla seconda categoria, senza esprimere un tennis di qualità ma con la sola e semplice regolarità, che però man mano che ci si avvicina al professionismo è sempre meno sufficiente per emergere.
L’eccessiva tensione ai risultati giovanili potrebbe aver anche giocato brutti scherzi nei confronti dei tennisti italiani più promettenti. Gli ultimi ad essere arrivati in alto nel maschile – Vanni, Cecchinato, Berrettini e Sonego – sono tutti giocatori a non aver avuto gloriose carriere da juniores e per questo motivo potrebbero essere cresciuti in modo più sano e lontano da pressioni, in modo decisamente diverso da Gianluigi Quinzi, ma anche da Filippo Baldi. A riguardo dello stesso Cecchinato, suo zio Gabriele Palpacelli mi disse che su di lui hanno lavorato «sulla costruzione del ragazzo, sia dal punto di vista tecnico che personale, non avendo il risultato come obiettivo immediato. Marco a 13-14 anni era il terzo o quarto miglior giocatore in Sicilia, non in Italia, era insomma un tennista "normale". Oggi invece già a 9-10 anni se un ragazzino non ottiene risultati il genitore tende a storcere il naso e a cambiare circolo, si tende a dare un’importanza esagerata al risultato immediato».
Forse, al di là del fatto che non sono ancora arrivati i prodotti della nuova rifondazione del nostro sistema di crescita giovanile, sono proprio gli esempi di Cecchinato, Berrettini e Sonego che, più che rappresentare la cartina di tornasole sulla salute del nostro tennis, tracciano la strada sul futuro. Quella formale, sulla riorganizzazione capillare dei centri, sembra essere già stata intrapresa: ora si tratta di riformare anche il nostro sistema culturale in senso più ampio.