Quando fa capolino dal tunnel e si affaccia sul prato, La Bombonera prorompe in un’eruzione entusiasta. Trotterella, sembra rimbalzare sulle gambe come se stesse ballando una cumbia. Non possiamo sapere se è solo il peso del fardello che si trascina dietro o c’è anche una punta d’emozione, per questa tappa del farewell tour che oggi lo porta in quella che è stata la sua casa più importante in Argentina. Diego Armando Maradona alza le braccia, incita la Doce, la curva del Boca. Juan Román Riquelme, dalle tribune lo osserva imperturbabile, tra le mani il suo mate. C’è un’insolita concentrazione di diez, di miti, di leggende. È l’8 Marzo, si gioca l’ultima giornata di Superliga Argentina e il destino ha voluto che il calendario mettesse di fronte Boca e Gimnasia proprio nel giorno in cui, per un plausibile ma imprevedibile incrocio di risultati, gli xenéizes potrebbero anche vincerlo, il campionato. A patto che battano proprio lui, Diego Armando Maradona, il mito ma anche l'allenatore del Gimnasia, e che il River non vinca a Tucumán.
Poco prima del calcio d’inizio, al trittico di diez s’aggiunge il più recente, ma non per questo meno mitico. Quello che indossa la fascia di capitano e trascina il Boca nell’oggi: Carlitos Tévez.
«Diego è il più grande giocatore che abbiamo mai avuto, non si può paragonare a niente. Lo saluterò, lo abbraccerò, gli darò la maglia, tutto. La fascia, qualsiasi cosa. Anche sotto gli occhi di Román. Dobbiamo smettere di essere egoisti, pensare che Diego ci ha fatto felici, a noi e ai nostri vecchi», ha detto poco prima della partita. Lo ha raggiunto, infatti. E sotto gli occhi di Román - che in passato è stato molto polemico con entrambi - gli ha stampato un bacio in bocca.
Foto di Marcos Brindicci/Getty Images
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Il giorno in cui Carlitos Tévez ha fatto ritorno in Argentina, nel 2015, undici anni dopo aver lasciato il Boca, ad attenderlo alla Bombonera c’erano sessantacinquemila persone. Anche se era una giornata feriale e non si sarebbe giocata nessuna partita: la dimostrazione popolare più imponente, forse, nella storia del calcio argentino.
A dargli il bentornato, quel giorno, c’era anche Diego Armando Maradona. «Ho il privilegio di sapere cosa sentono i tifosi, per questo voglio darglielo» dice in una delle puntate di Boca Juniors Confidential. Per questo ha fatto ritorno a casa, in un momento che può comunque essere considerato ancora nel prime della sua carriera, giusto l’anno della finale di Champions League raggiunta con la Juventus: per dare al suo pubblico, e prendere per sé - in un interessante sdoppiamento della personalità -, la gioia di una vittoria che è anche un’ossessione. «Con questa maglia non puoi rilassarti mai».
Sarebbe dovuto essere l’inizio di un tramonto pacifico? In parte lo è stato. Ma l’ultimo lustro di Tévez in Argentina, impronosticabile nel 2015, è stato soprattutto un percorso di glorificazione, per di più accidentato: la sua personalissima maniera di scolpire il proprio volto nel Mount Rushmore de La República de La Boca.
L’ultima partita di questa stagione è stata una serie ben ordinata di colpi di scalpello con cui ha smussato gli angoli, ingentilito i tratti. Innanzitutto il gol, arrivato al 72’, quando il River era incastrato sull’1-1. Un gol pesante, risolutivo, che Tévez ha festeggiato con una corsa iconica verso la Doce, prima di arrampicarsi sulla rete di recinzione in un’immagine che ha ricordato il suo avatar più giovane, che nel 2003 faceva sfaceli in Libertadores. E poi la maniera in cui ha vissuto gli ultimi secondi, gli sguardi all’arbitro, «termínalo», «fischia la fine», e quelli di incredulità fanciulla per il miracolo che gli stava accadendo intorno.
Quando la partita finisce, e il Boca è campione, Tévez mette automaticamente in bacheca il suo decimo titolo con gli xenéizes. Che lo faccia di fronte ai diez che l’hanno preceduto, e di cui non sta insidiando ma sposando la mistica, sembra già meno una coincidenza.
Nacido en Fuerte Apache, querido en todas partes
«A me il Mondo Boca mi ha divorato», dice Carlitos. Perché è molto di più di una squadra, di una famiglia, di una casa. Es un sentimiento. Al Boca non ha mai smesso di pensare, Tévez. Neanche quando, con la maglia della Juventus, dopo le stagioni di Manchester, stava per scendere in campo, contro il Barcellona, nella finale di Champions di Berlino del 2015. «Mi voleva l’Atletico, il Bayern, tutti mi volevano. Ma io sentivo di voler tornare a casa e vincere qualcosa con questa maglia». Nell’ultima frase ci sono due realtà non necessariamente antitetiche, ma neppure così scontate. Tornare è un desiderio rincuorante, e prima poi abbraccia ogni argentino emigrato in Europa. Vincere, invece, perpetua l’irrequietezza che è soprattutto dell’hincha del Boca.
Il ritorno a casa sembra più puntale per Tevez, che non per la società. «Il denaro non compra la felicità», aveva giurato lui. «Più che un idolo è un super eroe», chiosava La Nación. «È tornato nel momento migliore della sua carriera, senza pensare a nient’altro che a quel vestito gialloblù tatuato sulla pelle, con un mantello invisibile e la 10 sulle spalle». Eppure ad aspettarlo, undici anni dopo l’esordio - a Córdoba nel Día de la madre, con il nome di Fabiana (la madre biologica, ma non quella che l’ha cresciuto) sulla maglia -, c’era una società nel pieno di un processo di ricambio, con difficoltà anche strutturali. «Finivamo l’allenamento e non c’era l’acqua fresca». Ma non era questo, il punto: il giocatore del popolo era tornato per riprendersi il suo popolo.
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Non era solo - ma era soprattutto - la parabola da romanzo del pibe carasucia uscito dalla villa miseria di Ciudadela per conquistare il mondo e tornato non tanto per fare i conti col passato, ma per chiudere il cerchio: l’infanzia nel barrio Ejército de los Andes (noto ai più come Fuerte Apache), dove «a volte stavamo giocando e cominciavano a sparare, i proiettili ci volavano sulla testa, poi ridevamo, ci guardavamo e scherzavamo: ti sei cacato sotto!» era il brodo cosmico in cui aveva sobbollito il mito, ovviamente. Ma Carlitos al Boca, in un periodo in cui un titolo nazionale mancava da quattro stagioni e uno continentale da quasi un decennio, è soprattutto un tentativo di «tornare alla normalità», come disse dopo aver vinto il primo Superclásico dal suo ritorno.
Un processo più umano che divino, perché in fin dei conti Carlitos - nato dal popolo, che vive tra il popolo - non ha mai avuto la pretesa di ergersi a Dio.
Ha vinto subito, Carlitos, al suo ritorno. Primera División e Copa Argentina. Nel 2016 è tornato a giocare la Libertadores, l’agrodolce obsesión di ogni tifoso del Boca, segnando un gol pazzesco, assurdo, massimamente tevezesque con il Bolivár.
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Ha distrutto il River - in coppia con un Centurión incontenibile - con una doppietta al Monumental: cosa sarebbe potuto andare storto? Cosa avrebbe potuto mai interrompere l’idillio con la sua gente, con i suoi colori, con sua madre, la donna della sua vita, la sua casa, e cioè il Boca?
Sono i soldi, sempre, a rovinare tutto.
Nel mese di dicembre, dopo un addio strappalacrime alla Bombonera, Carlitos si trasferisce in Cina, allo Shanghai Shenhua. Ad attenderlo c’è un ingaggio di 40 milioni di euro, che fanno di lui il calciatore più pagato al mondo. Allora non è vero che «il denaro non compra la felicità»?
Nel docufilm Boca Juniors Confidential, Tévez racconta che la parentesi cinese era diventata necessaria, per lui. Una finestra di descanso, dice. Di riposo, di relax. Già sapeva che non sarebbe stato per sempre. Che sarebbe tornato. Il rischio, concreto, era solo quello di aver rovinato per sempre la sua immagine di idolo.
In Cina Tévez gioca solo 16 partite. Vince la Coppa nazionale, certo, ma non è proprio la sua stagione più brillante. Wu Jingui, che si siede sulla panchina dello Shenhua in sostituzione di Gustavo Poyet, lo tiene fuori dai titolari perché «è grasso». Sarebbe stato lecito aspettarsi che, dopo la Cina, avrebbe potuto smetterla con il calcio, per sempre. Che senso avrebbe avuto tornare a mettersi in gioco, farlo in quel contesto massimamente fagocitante, anche emotivamente, che è il Boca?
32, el dinero
Nelle quinielas argentine, le lotterie locali che costituiscono il gioco d’azzardo più popolare del Paese, esiste un codice, derivato dalla Smorfia Napoletana, secondo il quale ogni numero - nell’ottica dell’interpretazione dei sogni - è associato a un significato. Il numero 32 rappresenta el dinero, i soldi. È il numero che Tévez ha scelto di indossare nella sua prima stagione europea, al West Ham, e anche a Shanghai. Destinazioni nelle quali è sbarcato, essenzialmente, per soldi. Mi piace pensare che la scelta di farlo suo anche alla prima stagione del secondo ritorno - dopo 357 giorni di assenza - sia stata, in qualche modo, una provocazione.
Foto di Marcelo Endelli/Getty Images
«So di essere agli sgoccioli della mia carriera. Voglio soltanto godermi ogni volta che entro in campo», dice al suo rientro. Secondo la sua stima, gli rimangono due anni ad alti livelli. Avrebbe resistito almeno per il doppio. E vinto, anche, il doppio. Il Carlitos del secondo ritorno è un giocatore ancora fuori dimensione per gli standard della Superliga. All’eleganza riesce ad associare una certa continuità nelle prestazioni, non più tanto la giocata estemporanea, ma la costanza. È come se il tempo, anziché consumarlo, l’avesse scolpito, forgiato, vulcanizzato.
Obsesión
I soldi non sono, e non potranno mai essere, l’unica vera ossessione di Carlitos. «È andato in Cina, ha riempito il sacco di Babbo Natale. Però poi è tornato al Boca, mi pare perfetto», lo ha difeso Maradona. Solo l’imbecille, dopotutto, non cambia idee tre volte al giorno. Tornare, ma per chi? Per cosa? La Copa Libertadores: quella sì, che è un’ossessione per la quale può valere la pena di immolarsi. Carlitos forse non sa, per quanto possa desiderarlo, e sperarlo, che quello del suo ritorno è l’anno giusto per provare a vincerla. Arriverà in finale, nonostante il suo rapporto con Guillermo Barros Schelotto - compagno di squadra, ai tempi del suo esordio - non sia proprio dei più solidi. Schelotto che lo schiera attaccante, sebbene «lo sanno tutti che non sono un 9», come si schernisce Carlitos. In quella finale, che avremmo imparato a riconoscere come storica, nei presupposti e negli effetti, Tévez recita esattamente il ruolo che ci si potrebbe aspettare reciti, quello di Masaniello a testa in giù, capopopolo proprio perché hombre del pueblo.
Dopo la finale d’andata, giocata alla Bombonera, conclusasi in parità per 2-2, i giocatori del Boca stanno abbandonando il campo con la testa bassa, delusi per la rimonta subita. Tévez lascia che il suo carisma strabordi: «Vamos… non siamo ancora perduti, la puta que los parió… La concha de su madre, testa alta!». Ma il carisma, a volte, può non bastare. O meglio, non essere sufficiente. La maniera in cui il Boca vedrà sfuggirgli di mano quella Libertadores, dopo l’assalto al pullman durante il trasferimento al Monumental, la doppia sospensione, la sconfitta a Madrid, avrà una portata storica per la società di Avenida Brandsen, 805. Getterà un velo di disfacimento. Appannerà ogni mistica, inclusa quella di Tévez.
Resurrezione, Assunzione
La rinascita, l’ultima forse di Carlitos, è stupefacente proprio perché inattesa.
Eppure, ha la luminosità della fenice che risorge dalle proprie ceneri.
Il disfacimento dei sogni, e più prosaicamente quello della società retta da Angelici che di Carlitos aveva perorato il ritorno, compianto la dipartita, abbracciato l’ennesimo ripensamento, avrebbe potuto recidere ogni filo della narrazione dell’amore tra Carlitos e il Boca. Invece, con l’arrivo della nuova presidenza di Riquelme e del tecnico Miguel Ángel Russo, che eredita la squadra dalle mani di Gustavo Alfaro a metà stagione, Tévez sperimenta una specie di resurrezione. Recupera la fame di gloria, e soprattutto dimentica i microfoni, le polemiche. Torna a essere leader soprattutto in campo.
Le statistiche ci restituiscono i connotati di un giocatore nuovamente decisivo: 9 gol e 2 assist in 17 presenze, di cui 6 da subentrato. Praticamente un gol ogni due partite, con una media di due tiri a partita. Tévez è il vero fulcro - non solo un totem posticcio - di questo Boca: solo Salvio e Zárate, in questa stagione, hanno tirato più volte di lui verso la porta avversaria, e solo Reynoso ha collezionato più passaggi chiave.
Cielo
Per quanto, in ogni carriera - e in generale in ogni vita - la regressione sia qualcosa da cui guardarsi, un sintomo di puerilità, ci sono momenti in cui un ritorno alla fanciullezza è l’unica maniera per rinverdire fasti che rischiano di assopirsi. Vale soprattutto per la componente ludica delle nostre vite, e quindi per il gioco: la regressione del calcio di Carlitos, in fin dei conti, è la miglior cosa che sarebbe potuta accadere al Carlitos giocatore.
Ed è massimamente poetico che l’ispiratore di questa regressione, nell’ultimo trimestre, sia stato Riquelme. «Con Román litigavamo attraverso i giornalisti. Soprattutto per quello che Román significava per il Boca. Quando criticava la squadra, a me che ero alla testa della squadra non faceva piacere: mi dispiaceva soprattutto che i ragazzi pensassero che fosse qualcosa che non è. Mi sta aiutando a divertirmi, a tornare il Carlitos che la gente vuole vedere. Mi ha detto che gli piacerebbe che io terminassi la mia carriera come non ha potuto fare lui».
Foto di PIERRE-PHILIPPE MARCOU/AFP via Getty Images
“Rayuela”, il romanzo componibile di Julio Cortázar che è anche il suo libro più conosciuto, racconta la storia in due parti di Horacio Oliveira, intellettuale argentino che dopo un esilio autoimposto in Francia torna in Argentina per ritrovarsi. Dalla sua casa osserva il mondo che gli si spiega sotto i piedi, e nella vicina di casa, Talita, cerca il riflesso del vero unico grande amore della sua vita, la Maga.
Tévez, come Horacio, ha girovagato l’Europa corteggiando il successo, la Maga. Ma poi è tornato in Argentina, a casa, cercando in Talita, il Boca, la fiamma che più compiange, e che più gli manca.
C’è un passaggio, in “Rayuela”, in cui Horacio osserva dei bambini giocare a campana. «È molto difficile arrivare con il ciottolo al Cielo, quasi sempre si calcola male e il sasso esce dal disegno. Poco a poco, tuttavia, si acquista l’abilità necessaria per superare le diverse caselle, e un giorno si impara a uscire dalla Terra e a far salire il ciottolo fino al Cielo. [...] il brutto è che proprio a questo punto [...] finisce di colpo l’infanzia e si va a finire nei romanzi, nei problemi del cavolo, nelle speculazioni su un altro Cielo che bisogna imparare a raggiungere. E siccome si è usciti dall’infanzia, si dimentica che per arrivare al Cielo ci vogliono, come ingredienti, un ciottolo e la punta della scarpa».
Per la conquista del sessantanovesimo titolo della sua storia, il Boca ha avuto bisogno, fondamentalmente, che Tévez tornasse a manifestare il talento, e la fame, che ne hanno accompagnato gli esordi. Secondo Roger Ruiz, il suo primo allenatore alla squadra di barrio Santa Clara, il Tévez ragazzino era capace di fare magie «persino con i sassolini». Alla Bombonera, dopo un lustro dal suo ritorno, Carlitos ha vinto la Superliga semplicemente riportando alla memoria gli ingredienti fondamentali, come se stesse giocando a campana: un ciottolo, la punta della scarpa, la voglia di raggiungere il Cielo.