Quando parliamo dei Chicago Bulls delle ultime quattro stagioni, parliamo di uno dei più grandi “What If?” della storia recente della NBA. Il momento in cui questa squadra ha lasciato il regno di una certa realtà per entrare in quella dei periodi ipotetici ha una data ben precisa e nota a tutti gli appassionati NBA: 28 aprile 2012, il giorno in cui Derrick Rose si ruppe il legamento crociato anteriore e il menisco del ginocchio sinistro.
I Bulls arrivavano a quel giorno con la miglior squadra della NBA, il miglior record della regular season e una concretissima possibilità di vincere il titolo, il primo dell’epoca post-Jordan. Un anno prima, nella stagione d’esordio di Tom Thibodeau sulla panchina di Chicago, la loro stagione si era fermata solamente in finale di conference contro i primi Miami Heat dei Big Three. Ma la squadra del 2012 sembrava avere tutte le carte in regola per fare quel passo in più, dotata com’era di profondità, sistema difensivo e, soprattutto, uno dei primi 5 giocatori della Lega in Derrick Rose, che pure aveva avuto i suoi problemi fisici per tutta la stagione, giocando spesso sul dolore.
L’idea che quei Bulls avrebbero potuto vincere il Larry O’Brien Trophy è talmente radicata nella testa dei suoi membri da diventare quasi una prova di fede. L’anno scorso, in occasione della visita di Rose a Milano, su un cartello di alcuni tifosi si poteva leggere “ROSE NO INJURY = LEBRON NO RINGS”. Nello scorso luglio, quando ho avuto la possibilità di parlare con Joakim Noah, mi ha espresso lui stesso questo pensiero, senza nemmeno premurarsi di usare delle ipotesi: “Se ci fosse stato D-Rose, avremmo vinto il titolo NBA in uno degli ultimi anni”. Nessun dubbio, nessuna incertezza, come se fosse successo davvero e lui stesse solamente citando un dato di fatto.
Ma non è andata così, e la motivazione principale dei Bulls di questa stagione è evitare che quello rimanga per sempre solo e soltanto un “What If?”.
IL PERENNE PSICODRAMMA ATTORNO A DERRICK ROSE
È un pensiero poco più che elementare sostenere che i Chicago Bulls arriveranno dove li porterà Derrick Rose, ma è la realtà dei fatti: dei Bulls senza di lui abbiamo già visto tutto quello che dovevamo vedere, ovverosia una squadra commovente per impegno e dedizione, ma che alla resa dei conti si è rivelata priva di talento necessario per fare strada nei playoff. Prova ne siano le eliminazioni contro Philadelphia nel 2012 (con la squadra sotto shock e privata anche di Noah nelle ultime due partite), Miami nel 2013 (mai realmente impensierita al di là del 4-1 finale) e Washington nella scorsa stagione (con la squadra arrivata distrutta ai playoff, e con un chiaro atteggiamento da “abbiamo dato tutto, non potete chiederci di più di così”).
È chiaro quindi che tutte le attenzioni di quest’anno siano rivolte verso il secondo ritorno — dopo la rottura del menisco destro a novembre 2013, dopo sole 10 partite di stagione regolare — del numero 1 dei Bulls, con delle conseguenze tutt’altro che positive. Per carità, è normale che dopo due infortuni del genere e un’assenza dai campi di gioco di oltre due anni, ogni suo problema fisico o dichiarazione faccia notizia: stiamo pur sempre parlando del più giovane MVP della storia della Lega, è sempre bene non dimenticarselo. Ma le reazioni scomposte dei tifosi, media e appassionati alle sue più piccole difficoltà stanno diventando sproporzionate e anche un po’ imbarazzanti, creando una sorta di psicodramma perenne, toccando livelli — pur considerando le opportune differenze — che non si vedevano da quando LeBron James veniva criticato per ogni singolo gesto, ovverosia prima di vincere il titolo nel 2012.
Derrick Rose cade e ci mette un po’ a rialzarsi? “Ecco, è successo di nuovo, lo sapevo”.
Derrick Rose si sloga una caviglia? “Oh mio Dio, ecco è finito, non tornerà mai più quello di prima”.
Derrick Rose salta una partita? “Non ha più le palle di giocare, non si fida più del suo corpo, i Bulls non possono più farci affidamento”.
L’esempio più lampante di questa enorme pressione attorno a ogni suo piccolo gesto è ben visibile in quello che è successo a seguito di queste sue dichiarazioni: “Quello che la gente non capisce è che quando sto fuori, io non penso solo a questa stagione. Io penso sul lungo periodo. Penso a quando avrò finito la mia carriera. Non voglio ritrovarmi dolorante alle riunioni o alla laurea di mio figlio per qualcosa che ho fatto in passato. Sto imparando a gestirla in maniera intelligente”.
Apriti cielo. La cosa più carina che gli è stata detta è che “ha detto molte cose stupide in passato, ma con le ultime ha rotto lo ‘Stupidometro’ […]. Ha bisogno di un amico che gli dica quanto appaia stupido quando dice queste cose” (sul principale quotidiano di Chicago, nientemeno), e in generale la percezione di queste sue parole è stata che Rose sia un egoista, un viziato e un menefreghista.
Ma — e qui apro una considerazione personale — possiamo davvero biasimarlo per non voler sacrificare ulteriormente (perché Derrick Rose ha già sacrificato la sua salute per questo sport, due volte) il suo fisico? E, allargando il discorso, fino a che punto possiamo chiedere a questi uomini di mettere a repentaglio la loro salute a lungo termine per il nostro divertimento? Ok, guadagnano milioni di dollari nel fare questo sport, ma altrettanti ne fanno guadagnare alle squadre e alle aziende che li pagano, quindi la risposta “beh ma è il loro lavoro, vengono pagati per quello” vale solo fino a un certo punto. Da “esseri umani”, si può veramente biasimare Rose per pensare alla sua salute sul lungo periodo? L’ex MVP ha già provato sul suo corpo cosa voglia dire giocare infortunati: per l’intera stagione 2011-12 ha dovuto giocare sul dolore, mettendo gli interessi della squadra al di sopra dei suoi, e i risultati si sono visti quel 28 aprile. Possiamo davvero biasimarlo se decide di saltare qualche insignificante partita di novembre per risparmiare al suo corpo in vista dei playoff (perché D-Rose non avrebbe saltato quelle partite ad aprile per una caviglia slogata, badate bene) e, sì, tenendo in mente anche della sua vita da qui a 20-30-40 anni?
Forse la differenza è che queste cose vengono pensate da molti giocatori (voglio dire, la loro stessa salute a lungo termine DEVE essere una preoccupazione, no?) ma non vengono dette, nascoste dietro a quelle dichiarazioni da “Bisogna dare sempre il 100%, decide il mister e la palla è rotonda” che tanto abbiamo imparato ad odiare. Quindi, perché dobbiamo massacrare Derrick Rose per aver espresso un suo pensiero che, dal punto di vista umano, non può non essere comprensibile?
In realtà, questo è solo l’ultimo episodio di una lunga serie di situazioni incomprensibili attorno a Derrick Rose e, soprattutto, alla comunicazione legata al suo stato fisico. La dirigenza dei Bulls ha creato attorno al suo rientro un gran casino mediatico già dopo il primo infortunio, quando sarebbe bastato dire che Rose sarebbe rimasto fuori per tutta la stagione successiva invece di trascinare per mesi il teatrino del “gioca o non gioca?” a cui Thibodeau era costretto a rispondere ad ogni allenamento, facendo diventare una cosa serissima — il recupero da un infortunio grave della stella della squadra su cui si erano appena investiti 95 milioni di dollari — in una farsa. O anche in occasione della conferenza stampa in stampelle di un anno fa, dopo il secondo infortunio, quando Rose disse “Forse torno per i playoff, vedremo” nonostante fosse chiaro a tutti — specialmente alla dirigenza — che non sarebbe tornato, dando adito a incomprensioni e confusione che un qualsiasi ufficio stampa decente non avrebbe mai dovuto permettere. E dire che i Bulls non devono neanche far fronte ad una stampa arrembante e maliziosa come quella — per fare l’esempio più comodo — di New York. Anzi, i principali beat writer che seguono la squadra sono sempre stati molto onesti nel trattare la squadra senza montare grossi casi attorno ad essa, pur avendo materiale su cui poter sguazzare. Come a dire: han fatto tutto da soli ai Bulls (come potrebbe testimoniare Luol Deng), il che rende ancor più incomprensibile tutto quello che è successo.
A mettere una pietra sopra la questione legata agli infortuni di Rose e alle reazioni attorno ad essi ci ha pensato Joakim Noah, con un rant a seguito della vittoria con Toronto di qualche settimana fa: “È frustrante vedere che Derrick viene dipinto come uno che in realtà non è. Ogni volta che gli succede qualcosa, la gente si comporta come se fosse la fine del mondo. È fottutamente patetico. Rilassatevi. È tornato da due operazioni importantissime. È ovvio che dovremo andarci cauti, e quando le cose non vanno bene, deve ascoltare il suo corpo più di chiunque altro. Perciò, tutti quanti devono darsi una cazzo di calmata". Amen.
I MIGLIORI BULLS DEL POST JORDAN
Al di là delle vicende extra-cestistiche di Rose — che al momento in cui scrivo è appena rientrato da un problema muscolare, giusto per non farsi mancare nulla — quella di quest’anno potrebbe benissimo essere la squadra dei Bulls più forte degli ultimi 16 anni, ovverosia dal giorno in cui Michael Jordan dipinse la sua personale Cappella Sistina a Salt Lake City nei 42 secondi che cambiarono il mondo.
Se sani in tutti i suoi componenti (a partire dal numero 1 di numero e di fatto, ça va sans dire), è difficile non considerare questi Bulls come la squadra favorita a vincere la Eastern Conference. Il sistema difensivo di Thibodeau, che così tanti imitatori ha trovato in giro per la Lega con il suo “sovraccarico” del lato forte, il contenimento sui pick and roll e l’enormità di tiri dal mid-range forzati (solo i Magic ne costringono di più), è a prova di bomba, e basterebbe solo quello per garantirsi un posto ai playoff, come dimostrato negli ultimi due anni senza Rose.
La differenza di quest’anno rispetto al passato è che il talento e la profondità sono nettamente superiori: se nelle ultime stagioni i Bulls vincevano principalmente con la difesa, combattendo con le unghie e con i denti per rendere la partita la più brutta e sporca possibile aggrappandosi all’energia inesauribile di Joakim Noah, questi Bulls sono un po’ più raffinati in attacco, non solo per il ritorno di Rose, ma anche — se non soprattutto, almeno in questo inizio di stagione — per l’arrivo di Pau Gasol sotto canestro.
Si può dire che i Bulls non abbiano mai avuto una presenza del genere in post basso: Carlos Boozer, che era stato strapagato nel 2010 proprio per ricoprire quel ruolo, negli anni si è rivelato un’enorme delusione, venendo spesso lasciato in panchina a metà terzo quarto per fare spazio al ben più solido Taj Gibson. Con Gasol questo non può più succedere: la sua presenza in post basso è troppo importante per rinunciarvici, perché permette di avere una dimensione interna che gli altri lunghi non possiedono e, con le sue doti di passatore, può tenere in piedi la circolazione di palla creando insieme a Noah quella che è la coppia di lunghi-passatori migliori a est di Zach Randolph & Marc Gasol. Oltretutto (e qui sta finora il capolavoro di Thibodeau), il due volte campione NBA non è dannoso in difesa: Pau avrà molti difetti nella sua metà campo — primo tra tutti una mobilità laterale pachidermica — ma è pur sempre un 2 metri e 16 che sa leggere il gioco, e in un sistema conservativo come quello di Thibs, farsi trovare in mezzo all’area con i tempi giusti per contestare i tiri avversari è già metà del lavoro. Non è un caso che Gasol sia tra i migliori difensori del ferro in questo inizio di stagione: nessuno in NBA affronta più tentativi in area di lui (12.1 a partita, staccando il fratello Marc di ben 2 tiri), che difende con un eccezionale 42.1%, 7° miglior dato in NBA. Per uno che veniva considerato ed etichettato come “soft”, un dato tutt’altro che marginale.
Oltre a Gasol, l’altra grande notizia di queste prime partite è l’esplosione di Jimmy Butler nel ruolo di guardia tiratrice. La sua parabola è del tutto particolare: al college giocava sostanzialmente da lungo, ma Thibodeau, con un lavoro straordinario, lo ha plasmato in un esterno capace di difendere sul miglior attaccante avversario senza danneggiare in attacco, disegnando per lui schemi per mandarlo in post basso contro avversari meno fisici di lui. In questo inizio di stagione, complici i problemi di Rose, Butler è stato il miglior realizzatore dei Bulls a oltre 20 punti di media sfiorando il 50% dal campo, ricoprendo una sorta di ruolo “alla Kawhi Leonard” nella sua capacità di difendere alla morte sul miglior esterno avversario e di segnare parecchi punti senza che tutto l’attacco debba passare necessariamente da lui.
Il quintetto base formato da Rose, Butler, Mike Dunleavy, Gasol e Noah finora ha distrutto le squadre avversarie, con un rating di +29 punti su 100 possessi — per dare un’idea, i Dallas Mavericks, miglior squadra in NBA, si fermano a +12.9. Certo, purtroppo Thibodeau lo ha potuto schierare per sole due partite (entrambe vittoriose contro Pistons e Raptors), ma questo non gli ha impedito di concedergli 43 minuti insieme, il secondo più utilizzato dell’intera stagione. Non appena potrà schierarlo di nuovo, ci sono pochi dubbi che questo quintetto possa diventare uno dei migliori in assoluto della Lega.
Come se già i titolari non fossero già abbastanza forti, i Bulls di quest’anno possono godere di una delle migliori panchine della NBA, che già ha fatto nascere paragoni con la celebre “Bench Mob” che due stagioni fa entrava in campo e spaccava in due le squadre avversarie. I principali protagonisti di quest’anno sono Aaron Brooks e Taj Gibson: il primo, che solo due anni fa giocava in Cina e sembrava fuori dai giri importanti, è solo l’ultimo esponente di una schiera di point guard la cui carriera è stata rivitalizzata da Thibodeau (CJ Watson, John Lucas III, Nate Robinson, DJ Augustin — nessuno di loro ha mai giocato tanto bene quanto come con Thibodeau, né prima né dopo); il secondo, invece, è probabilmente il giocatore preferito dal coach, uno che l’anno scorso poteva legittimamente aspirare al titolo di Sesto Uomo dell’Anno, dando una presenza interna offensiva e difensiva impressionante. Poi si aggiungono anche i tiratori, un’altra delle nuove armi a disposizione di Thibodeau: oltre al sempre fido Kirk Hinrich (che spesso sostituisce Rose in quintetto quando questi è fuori) e al mai-del-tutto-convincente Tony Snell, i due rookie Doug McDermott e Nikola Mirotic sono due tiratori giovani che in passato non c’erano, e potrebbero rivelarsi particolarmente utili come armi tattiche per aprire le difese avversarie alle penetrazioni di Rose, Brooks e Butler e i possessi in post di Gasol, Noah e Gibson. Questo porta gli elementi che potrebbero legittimamente richiedere minuti a 11, un numero che pochissime squadre NBA possono permettersi.
QUEL TALEBANO DI COACH THIBS
La domanda che sorge spontanea di fronte a tutta questa profondità è: coach Thibodeau sarà in grado di fidarsi di così tanti giocatori e di farli ruotare adeguatamente in regular season, senza spremerli troppo per arrivare freschi e sani ai playoff? Pur con i suoi enormi meriti e pregi, questo è sempre stato il suo più grande difetto: nella sua logica perversa non c’è spazio per il dubbio, per l’incertezza e per tutto ciò che viene fatto sotto il livello di perfezione, specialmente in difesa. Il problema è che Thibodeau tende ad essere talebano sul concetto di fiducia: nella sua testa, o si può fidare di te — e a quel punto ti potrebbe spremere anche per 45 minuti a sera, come può ben testimoniare lo stremato Luol Deng, o più recentemente Butler e Hinrich — oppure non ti vede proprio — e a quel punto non si fa alcun problema a lasciarti in panchina per interi mesi, come successo a suo tempo anche a Jimmy Butler da rookie o al nostro Marco Belinelli, che sotto Thibs ha giocato tantissimo più per le assenze dei compagni che per reale fiducia del coaching staff, pur essendo straordinario nel farsi trovare pronto e sfruttare la sua occasione. Thibodeau pensa sempre al presente, al vincere una partita alla volta per davvero, non come dichiarazione di facciata da allenatore di calcio — e, come dice un vecchio detto di coach Butch van Breda Kolff, “Everyone’s strength is their weakness”.
Per questo avere una rotazione potenzialmente da 11 giocatori è un vantaggio più per l’organizzazione dei Bulls che per Thibodeau stesso, che nel momento della verità continuerà a fidarsi dei 7/8 “fedelissimi” e a farli giocare dai 35 minuti in su, senza alcun calcolo a lungo termine, risparmio di energie o mezze misure. “La scienza non ci dà una risposta precisa su quale sia il giusto approccio, se far riposare le stelle aiuti oppure no” sostiene lui, a volte evasivamente. “Guardate alle squadre di Phil Jackson: le stelle giocavano tutte 82 partite per tantissimi minuti anche in età avanzata. Eppure hanno vinto. Ogni squadra si comporta in maniera diversa”.
In inglese si dice che “you take the good with the bad”, e se questo è il prezzo da pagare per avere uno dei migliori allenatori della NBA, i Bulls si sono sempre mostrati disposti a farlo, anche se le divergenze tra la dirigenza e il coach è uno dei segreti peggio tenuti della Lega.
CONCLUSIONI
L’inizio di stagione dei Bulls è stato inevitabilmente legato alle condizioni fisiche di Rose, e solo attraverso esse si potranno prevedere le lune future della squadra: con lui in campo i Bulls segnano 15.4 punti su 100 possessi in più degli avversari (8° miglior dato nell’intera NBA tra quelli che hanno giocato almeno 5 partite), mentre quando è stato fuori quel dato scende a +1.0, il quarto peggiore di squadra dopo Dunleavy, Gasol e Butler. I Bulls, anche senza Rose, rimangono una squadra con una base ottima, capace di vincere tranquillamente 50 partite a Est grazie alla difesa e un attacco basato sull’esecuzione. Ma per vincere il titolo ci vogliono le stelle e, come mi ha detto Noah a seguito di quella considerazione su Rose, “Derrick è la differenza tra la vittoria e la sconfitta per la nostra squadra”. Se si vogliono superare i Big Three di Cleveland e raggiungere le 12 vittorie necessarie per giocarsi le Finali NBA, i Bulls non possono fare a meno del loro leader.
Perciò, se vi piace il basket NBA e non vi piacciono i “What If?”, i Chicago Bulls di quest’anno sono la squadra che dovreste seguire con maggiore attenzione, perché stanno cercando di cambiare quel destino che gli si è rivoltato contro quel maledetto 28 aprile 2012.
Per la stesura di questo pezzo si ringraziano Andrea Beltrama e Carmine D’Amico.