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The Hateful [NB]Eight
03 feb 2016
Gli otto giocatori più odiosi della NBA.
(articolo)
14 min
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Fuga da Waiters Island

di Dario Vismara

Qualche mese fa ti hanno parlato di un isolotto sperduto in mezzo all’oceano di cui nessuno sapeva molto. All’inizio sei scettico, ma dai depliant si vedono solo spiagge bianchissime, chiringuitos in riva al mare, un’oasi di relax che non sembra nemmeno appartenere a questo mondo. Certo, per arrivarci bisogna spendere molto, e ci sarà un motivo se nessuno ne parla, ma vuoi mettere che vacanza?

Una volta arrivato, poi, ti godi una prima giornata meravigliosa. L’acqua è talmente azzurra che non vorresti uscirne mai più. È solo dal secondo giorno in poi che ti accorgi che piove sempre, in stanza ci sono dei ratti grossi così e che il personale, oltre a non parlare una parola d’inglese, è anche scontroso e antipatico. E la vacanza che aveva così tante promesse di grandezza si rivela un disastro.

Con Dion Waiters, almeno per me, è andata più o meno così. Quattro anni fa, quando i Cleveland Cavaliers lo hanno scelto con la numero 4 al Draft, ero scettico ma mi sono fatto convincere da quelli che lo descrivevano come un nuovo Dwyane Wade con un tocco di Joe Dumars. Ero addirittura contento che lo avesse scelto in prima persona Byron Scott, che giurava e spergiurava che sarebbe stato “un giocatore molto speciale”. L’esordio da 17 punti contro gli Wizards e la partita da 28 in casa dei Clippers qualche giorno dopo sembravano promettere tutto questo. Ma è con l’andare della stagione che la Vera Faccia di Waiters ha iniziato a palesarsi, un long-2-contestato-con-20-secondi-sul-cronometro alla volta.

Sì, è difficile la vita dei rookies. Ma pensa a quanto è difficile la nostra, Dion

Quello che rende Waiters estremamente odioso è il farti credere che possa diventare un giocatore con un senso nella NBA. È un convincimento che parte da lontano, fin dall’estate: spesso mi ritrovavo in stazione ad aspettare il treno e leggevo sulla mia timeline di Twitter che Waiters aveva appena completato un allenamento alle 3 del mattino e prometteva che quello sarebbe stato “il suo anno”, che dovevamo solo “aspettare e vedere”, che sarebbe stato buono e bravo, che era cambiato. Poi iniziava la stagione ed era sempre la stessa storia: una partita bene, due male, una prestazione difensiva incoraggiante e due giorni dopo una serie impressionante di mattoni a scalfire i ferri della Quicken Loans Arena.

Di sicuro la convivenza con Kyrie Irving non è mai migliorata, anche perché Dion era convinto di essere più forte di lui e che i Cavs non gli stessero dando le stesse opportunità per avere successo. Il ritorno di LeBron James non ha fatto altro che accelerare un addio che era diventato inevitabile — anche perché il rapporto col 23 non è che fosse decollato, anzi: alla terza partita, chiusa da Waiters con più falli e palle perse (4+3) che punti (6), LeBron passò tutto il secondo tempo in angolo a fissare Dion e Kyrie che sparacchiavano senza ritegno, parlando nel post-partita di “cattive abitudini da sradicare”.

La cosa più brutta di Waiters è che ora i tifosi dei Thunder devono provare le stesse cose che ho dovuto sopportare io, provando a convincersi che Waiters possa trovare il giusto spazio a fianco di Durant e Westbrook, che possa diventare un giocatore produttivo anche ai playoff, il 3&D che la squadra non è mai riuscita a trovare o costruire finora. Vorrei lanciare un messaggio ai tifosi dei Thunder là fuori: non fatelo. Prendete il primo battello per lasciare Waiters Island. La Speranza ha abbandonato quelle spiaggie, ve lo assicuro.

L’insopportabile Jason Terry

di Lorenzo Neri

Con un’affermazione dal forte carattere narcisista, posso affermare di essere fiero di due aspetti del mio modo di vivere lo sport. Il primo è l’equilibrio nella valutazione dei giocatori, difficilmente influenzata da simpatie e antipatie del personaggio o del suo modo di stare in campo; il secondo invece è l’essere un pessimo tifoso, mai stato condizionato dai risultati della mia squadra preferita, i Miami Heat.

Ecco, tutti questi bei discorsi vanno a farsi benedire quando si parla di Jason Terry. Io odio Jason Terry. Non avevo mai fatto caso a questa sensazione fino alle Finali NBA nel 2011, quelle durante le quali i Mavericks sono riusciti a mettere le mani sul Larry O’Brien Trophy proprio a discapito di Miami — una squadra ancora troppo sbruffona e acerba per arrivare al titolo alla prima occasione.

Quei Mavs invece erano bellissimi, soprattutto dal punto di vista tattico, un capolavoro di Rick Carlisle che intorno al miglior Dirk di sempre faceva ruotare tanti giocatori con meno talento, ma ognuno con una peculiarità diversa da sfruttare. Jason Terry fino ad allora non era mai sembrato un giocatore capace di fare la differenza in una squadra da titolo – le sue prestazioni nelle Finals del 2006, non a caso, sono piuttosto dimenticabili. Ma in quella serie venne fuori pure lui, tiratore piedi-per-terra sottodimensionato che viveva di folate. E lo fece a modo suo: segnando, sì, ma anche provocando sempre e comunque, usando il flopping e quell’esultanza con l’aeroplanino che gli sono valse il soprannome di Jet (rubato a Kenny Smith, tra l’altro). Riuscì a farmi odiare quei bellissimi Mavs, che lo salvarono da una fesseria indelebile.

La parte soddisfacente di questo hating l’ho provata in tutto il resto della carriera di Terry, il quale è riuscito a farsi ridere dietro quando sputava sentenze contro gli avversari storici, eseguiva del patetico flopping contro ex-compagni a cui dovrebbe essere grato per tutto e ha sempre trovato il modo per dimostrare per il proprio odio verso gli Heat e LeBron, i quali però hanno risposto a modo loro.

Dopo questo “STACCE!” epocale, Terry garantì la vendetta nei PO. Peccato che quei C’s non passarono neanche il primo turno…

Jason Terry è questo: un bad guy che non ha la caratura per esserlo. E per questo lo odio. Così come odio la sua fascetta - una fascetta come le altre, ma che portata da lui mi procura un fastidio che nemmeno riesco a spiegare.

Non fatevi ingannare da J.J. Hickson

di Fabrizio Gilardi

Va beh, ma chissenefrega di J.J. Hickson”… eh no. No! Perché è proprio su ignoranza e superficialità che entità maligne come il J.J. sbagliato (quello giusto è Redick, ovviamente) basano il proprio successo. Conoscere a fondo il proprio nemico è fondamentale, lo ha scritto anche Sun Tzu ne L’Arte della Guerra, opera che Phil Jackson usava regalare ai propri giocatori (ultimo Carmelo Anthony) e quindi è estremamente pertinente.

Hickson è un fenomeno al fantabasket (che è uno dei mali del mondo), perché in carriera sui 36 minuti ha 15 punti (inutili), 11 rimbalzi (rubandoli ai compagni) e il 50% dal campo. E allora? Eh, allora basta guardare tutto il resto. La sua carriera in breve: a Cleveland sotto la guida di Byron Scott (e già potremmo fermarci qui) macina statistiche irrilevanti; i Sacramento Kings senza alcuna ragione cedono Omri Casspi e una prima scelta futura per lui (che ora è passata ai Bulls e ancora pende sulla testa della franchigia californiana) per poi, nel giro di pochi mesi, tagliarlo per quanto fa schifo. Dopo che aveva clamorosamente fallito anche in Israele durante il lockout. Tagliato. Dopo 50 partite. Dopo aver ceduto una prima scelta. Sono certo che avrete notato anche che Casspi a Sacramento c’è tornato. E non vale sempre prendersela con i Kings perché sono i Kings.

Ancora: Hickson finisce a Portland, una stagione da centro titolare in disastrosa mancanza di meglio, 12+10 con il 56%, 33 vittorie. Defenestrato. Nella successiva il titolare diventa Robin Lopez (bravo, ma non esattamente Shaquille O’Neal), cifre individuali inferiori… 54 vittorie. A parità di roster, per quanto giovane e quindi in crescita.

Ultima tappa, ci casca Denver: contratto triennale da 15 milioni di dollari. 27 minuti a partita il primo anno. 19 il secondo. 16 all’inizio di questa stagione. Ora marcisce giustamente sul fondo della panchina. Forse è la volta buona. La Cina lo aspetta a braccia aperte. Statene certi, al prossimo remake dei Puffi sentirete Brontolone borbottare “Io ODIO J.J. Hickson”. La maggior parte delle persone non capirà, ma ora voi sì.

Lo chiamavano Ron Artest

di Dario Costa

Telecamere distrutte, arresti per violenza domestica, avversari brutalizzati a gioco fermo e spediti al pronto soccorso, una serie infinita di falli tecnici ed espulsioni. Ron Artest ha modellato la figura del cattivo nell’NBA contemporanea. Dentro e fuori il campo da gioco, è stato il Mr. Blonde de Le Iene, lo psicopatico da cui è lecito aspettarsi l’eccesso di rabbia, l’eruzione improvvisa, l’insensato gesto violento. Bersaglio ideale per critici e tifoserie rivali, catalizzatore di cori e insulti che l’hanno indotto al tentativo di pacificazione anagrafica.

Anche il rapporto con allenatori e compagni non è mai stato dei più semplici. Artest, proprio come Mr.Blonde, ha sempre avuto la tendenza a uscire dalla parte assegnata, andando oltre i limiti tracciati dal buonsenso. Dalla richiesta di un mese di vacanza, in piena regular season, per smaltire le fatiche accumulate durante la promozione del suo progetto discografico, alle frequenti divagazioni fuori dal copione del piano partita. Persino Phil Jackson, sommo ammaestratore di personalità complesse e serafico maestro zen, con lui ha dovuto alzare le mani in segno di resa.

La rissa di Detroit è il culmine di una carriera da villain proseguita anche in Cina e Italia. L’irresistibile attrazione verso il caos e la barbarie ha finito per oscurarne anche il talento, nonché l’impegno concreto per cause come la prevenzione e il trattamento del disagio mentale. Già perché l’anello vinto nel 2010 ha fruttato più di 500.000 dollari in un’asta benefica a favore di diverse associazioni che si occupano di assistenza in età scolastica.

Il bullo di periferia

di Nicolò Ciuppani

Anakin Skywalker era il prescelto destinato a distruggere i Sith, ma che poi si unisce a loro. Markieff Morris era l’ala grande giovane con il miglior rapporto qualità/prezzo della NBA che doveva portare equilibrio nella Forza, ma che invece ha deciso di fregarti la ragazza, lamentarsi con te perché non lo inviti più a bere una birra e piangere in pubblico della cosa.

Nel suo Curriculum Odii abbiamo:

- Schernire pubblicamente un avversario dopo una vittoria.

- Processo per aggressione in vista.

- Lamentarsi con i fan

- Minacciare su Twitter la franchigia perchè ha ceduto il proprio gemello:

https://twitter.com/Keefmorris/status/616698278789263361

(A margine ma non troppo, gemello che aveva espresso il suo apprezzamento nei confronti del suo coach così).

- Giocare a fare il passivo-aggressivo in conferenza stampa (Hornacek pare compiaciuto)

- Esprimere i propri sentimenti attraverso il lancio dell’asciugamano all’allenatore.

Altre abilità utili ogni giorno sono:

- Allargare le braccia dopo ogni schiacciata del diretto marcatore;

- Rifiutarsi di consegnare la palla al playmaker, condurre lui l’attacco in punta di piedi a mo’ di donzella nel prato fiorito, perdere palla lanciandola negli spalti e pretendendo che fosse un passaggio;

- Accumulare falli tecnici, lamentarsi che il mondo ce l’ha con lui;

- Presentarsi alla prima partita con il nuovo allenatore e fare il career high, far credere a tutti che non era colpa sua, ma di quello che c’era prima.

Ma la sua vera forza, come quella di ogni personaggio odioso che si rispetti, è quella di non morire mai. Markieff è ancora nei Suns mentre Hornacek se ne è andato prima di lui. Non se ne va, vuole andarsene ma non lo fa, ci sarà sempre e tu non lo vuoi vedere. È il bullo che tu cerchi di evitare: è lui che viene a darti una spallata nei corridoi, ed è sempre lui che ti denuncia al professore perché non sei gentile con lui.

Mr. Cheap Shot

di Francesco Andrianopoli

Cercheranno di convincervi dei motivi per cui il giocatore X o il giocatore Y dovrebbero guadagnarsi il titolo di most hated NBA player: non credeteci. Al di là delle antipatie personali, c’è un solo giocatore che riesce ad essere universalmente odiato, se non addirittura disprezzato, da compagni e avversari: The Big Ticket, Kevin Garnett.

Pochissimi giocatori possono vantare il suo curriculum in questo ambito, e se volete le prove, c’è solo l’imbarazzo della scelta: basta chiedere ad allenatori (Alvin Gentry e Phil Jackson), compagni di squadra (da Ray Allen a Szczerbiak, da Glen Davis a Rick Rickert, colpito in faccia a tradimento), e ovviamente avversari.

Ad esempio Anthony Peeler, ex compagno che, pur in svantaggio di parecchi centimetri e chili, non si fece remore a presentare allo zigomo di KG il suo gomito, oppure a Blatche, Noah, Dwight Howard, LaMarcus Aldridge, Bonner, Carmelo Anthony, Pachulia, Bargnani, tra i tanti.

Per farvi un’idea.

Una specialità della casa è il colpo basso, come in questo caso con Frye; un’altra è fare il grosso contro un avversario a gioco fermo (in questo caso McDyess, a cui tira una soffice pallonatina sul petto), salvo esibire sguardo atterrito quando quello reagisce male (qui McDyess reagisce MOLTO male) e chiudere con una fulminea ritirata in retromarcia, preferibilmente mascherata da “se questo signore alto un metro e ventisette non mi fermasse, verrei lì da te a fartela pagare, mentre ti trattengono in sei”: chiedete anche a Quentin Richardson, per una dinamica analoga.

Il peggio del peggio, però, lo ha raggiunto con gli insulti più bassi e degradanti: Charlie Villanueva si sentì apostrofare come “cancer patient”, mentre a Tim Duncan riservò un ancor più squallido “Happy Mother’s Day” nel 1999, allorché TD, che ha perso la madre a 14 anni, stava tirando dei liberi.

Provocazioni, giocate sporche, risse scatenate e invariabilmente eluse, insulti gratuiti e degradanti, nonnismo verso i compagni, il tutto condito da una notevole dose di vigliaccheria: vi serve dell’altro, o siamo a posto così?

Il candidato repubblicano che non vorreste

di Daniele V. Morrone

Doveva essere la soluzione alla rotazione lunghi di una contender come i Clippers lo scorso anno, ma è stato scaricato subito dopo una stagione che può essere riassunta tutta in questo video:

Adesso è nella sua giusta dimensione di riserva di una squadra con molte meno ambizioni, dove però non mancano i borbottii in fase di rientro in difesa, la faccia cattiva quando inquadrato, i palloni chiamati sbracciando e una meccanica di tiro orrenda che porta un lungo definito in grado di allargare il campo a tirare sotto il 40%, il tutto corredato dal gesto della pistola dopo un canestro da tre. Se fosse solo per quello che fa sul parquet, più che da odiare Spencer Hawes, sarebbe da compatire per quello che sembra solo un ragazzone troppo cresciuto perennemente bisognoso di attenzioni. Peccato che il vero Spencer Hawes da odiare è soprattutto quello fuori dal campo: qui da il meglio di sé per sembrare il personaggio perfetto per una puntata di South Park, incarnando tutto il peggio degli stereotipi sugli americani.

Tranquilli che ci sono foto di Hawes ancora più ‘mmerricane in rete.

Spencer è uno di quei Repubblicani troppo assurdi per essere veri e che appunto uno pensa possano esistere solo in televisione nel 2016: ha la carta igienica con la faccia di Obama, aveva attaccato alla macchina l’adesivo con “Dio benedica George Bush” e non crede nel riscaldamento globale («è una grande bugia, sono i media liberal che esagerano su tutto»). È solito partecipare attivamente a radioshow ovviamente conservatori (che non ho avuto il coraggio di ascoltare per raccogliere altro materiale) e non disdegnerebbe un futuro in politica, dove ha ben chiaro le cose veramente importanti per cui lottare: “Cosa importa più di quando le tasse federali sono aumentate del 4%? Cos’è più importante dei soldi?”. Se odiate lo Spencer Hawes panchinaro megalomane, immaginatevi lo Spencer Hawes presidente degli USA nel 2040 alle prese col riscaldamento globale a cui non crede.

L’inopportuno, Marcelinho Huertas

di Francesco Anichini

È accanimento terapuetico, me ne rendo conto. Basta guardarlo per capire che non c’entra niente, rendersi conto del disagio lampante del tutto. Parliamo di un giocatore che nel corso della sua carriera in Europa si è attirato degli strali d’odio che a confronto Steve Bartman è semplicemente un passante leggermente antipatico. Strali d’odio giustificatissimi, dovuti a uno stile di gioco che potremmo definire “particolare” (tiri su un piede solo, costante esasperazione di alcune situazioni ecc...), ma che alla fine in Europa aveva diritto di esistere. Ecco, trasliamo il tutto nella lega più fisica e atletica del mondo e il risultato è più o meno questo.

Che poi uno pensa: “Vabbè, è un giocatore mooolto particolare, sicuramente se fa il salto dall’altra parte dell’oceano sceglierà con attenzione una squadra in grado di esaltarne le caratteristiche e nascondere i difetti che inevitabilmente verranno fuori”.

I Lakers.

No dai Marcello, dillo che lo fai apposta.

Il titolo dice tutto.

Non c’è niente di male, basta ammettere che ti piace l’imbarazzo invece di prendertela con chi fa giustamente notare che la tua stagione non è propriamente riconducibile a quelle di Oscar Robertson.

Per carità, posso sbagliare e magari domani Marcellino comincerà a dominare il Gioco. A me basta la consapevolezza che, nel mare dei problemi dei Lakers di quest’anno, la sua presenza non aiuta particolarmente. E parlo da persona che ha sempre apprezzato i pick and roll Huertas-Tomic: quello era “il suo”, la sua dimensione. Ed era comunque una dimensione da top player europeo, senza alcun dubbio.

Quindi, riassumendo: Marcello, perchè l’hai fatto? Ne sentivi l’esigenza? Era davvero necessario? Non ci pensi a noi? E non ci pensi ai poveri tifosi Lakers che hanno già sofferto abbastanza? Che ti hanno fatto di male? Prendiamo questa stagione per quello che è: il farewell tour della carriera NBA di Marcelinho Huertas. È stato mediamente brutto finchè è durato.

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