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Kawhi ai confini della realtà
03 mag 2019
Dopo il trasferimento a Toronto e una regular season interlocutoria, Kawhi Leonard è entrato nella sua zona playoff.
(articolo)
16 min
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Tra i fenomeni che non sembrano subire l’incuria del tempo, la fascinazione del pubblico per il mistero, il lato oscuro delle cose, è uno dei più curiosi e interessanti. Prova ne sono le inesauribili produzioni cinematografiche e televisive a tema, forti di un successo costante. “The Twilight Zone”, nota in Italia come Ai confini della realtà - leggendaria serie creata da Rod Sterling a fine anni ‘50 e oggetto di successive, devote rivisitazioni tra cui buon ultima quella recentissima del premio Oscar Jordan Peele -, è uno degli esempi più fulgidi della sempiterna attrazione verso l’ignoto, verso ciò che non trova spiegazione razionale.

A differenza dell’intrattenimento, tuttavia, lo sport non può avvalersi della sospensione dell’incredulità e, presto o tardi, esige che venga data risposta agli interrogativi aperti dal corso degli eventi. In questo senso, la stagione vissuta di Kawhi Leonard ai Toronto Raptors ha mantenuto una trama coerente e allo stesso tempo ermetica, in linea con la personalità del protagonista. Il momento della verità, però, è arrivato - e Leonard ai playoff è tornato a mostrare la versione migliore di se stesso, quella capace di prendere una partita e di sottometterla al suo volere come se fosse inevitabile, giocata dopo giocata dopo giocata. Che è poi il marchio di una vera superstar della NBA, o quantomeno quello di un giocatore che sembra essere il migliore della Eastern Conference.

Verso nord

A ben vedere, già dalle premesse lo sbarco di Leonard in Canada non si discostava troppo dai canoni del mistery. Reduce da un’annata indecifrabile, caratterizzata dall’altrettanto indecifrabile problema al quadricipite, risultato di una lacunosa gestione da parte dello staff medico degli Spurs a cui ha fatto seguito una ancor più lacunosa gestione mediatica dell’intera vicenda, con sullo sfondo un personaggio inafferrabile e solo all’apparenza secondario noto al pubblico come “lo zio di Kawhi”, l’ex San Diego State si è ritrovato in marcia forzata verso una destinazione piuttosto distante, non solo geograficamente, da quella per cui aveva espresso una palese preferenza.

Per quanto ovvio, lo scambio tra Toronto e San Antonio non è il primo nella storia della lega ad avvenire contro la volontà del diretto interessato, ma a renderne particolari i contorni era il fatto che la nuova squadra di Leonard, al di là del mero fattore climatico, non poteva certo essere considerata meta sgradita. Presenza fissa ai piani alti della Eastern Conference ormai da un quinquennio, con il suo arrivo i Raptors hanno puntato a un posto in prima fila nella lunga corsa al titolo di sfidanti dei campioni in carica dei Golden State Warriors. Dopo aver rotto con Gregg Popovich, insomma, Kawhi non finiva nella tanto agognata città degli angeli, ma la sua nuova casa si presentava dotata di ogni comfort, non ultima un’ampia finestra con vista sulle Finals.

Pilota automatico inserito

Quella in maglia Raptors è stata sin qui una stagione bislacca, vissuta da Leonard con il pilota automatico inserito. La sensazione è che l’ex Spurs non abbia mai davvero schiacciato il piede sull’acceleratore e che lo staff tecnico si sia ben guardato dal chiederglielo. Le modalità con cui Nick Nurse ne ha dosato la presenza sul parquet vantano pochi precedenti se paragonate al trattamento riservato alle stelle della lega nel pieno della propria carriera.

Con la scusante ufficiale della “gestione dei carichi”, alternata a un più sporadico “problemi personali”, pur in assenza di concrete problematiche a livello fisico l’ala ha marcato visita in 22 delle 82 partite disputate da Toronto. Assente annunciato ogni seconda sera di un back-to-back, Leonard ha saltato in media una partita alla settimana e solo da febbraio in un paio di occasioni è sceso in campo per più tre consecutive. Si tratta di un percorso impensabile per qualsiasi altro uomo-franchigia NBA, una bizzarria passata tutto sommato sotto silenzio grazie al relativo interesse mediatico suscitato dai Raptors al di fuori di Toronto e dalla saggia gestione della situazione da parte di tutta la franchigia.

D’altro canto, nelle gare in cui ha vestito la maglia biancorossa numero 2, Kawhi ha registrato il massimo in carriera per minutaggio (34.2). Anche per quanto riguarda lo Usage rating (29.8%) è andato molto vicino al massimo in carriera da 30.5 nel 2016-17, la sua ultima annata significativa in maglia Spurs (ma era solo il 22,6% nel 2013-14, l’anno in cui ha vinto anello e premio di MVP delle Finals), guidando i suoi con buon margine (Ibaka è secondo con 22.2% ma solo perché quanto la tocca poi tira, Lowry terzo con 19.1%, a riprova di un sistema di gioco che predilige il collettivo).

Kawhi 4.0

E se le soste forzate sono state una costante nella gestione operata da Nurse, le cifre accumulate nelle partite giocate tratteggiano comunque il profilo di un candidato ineludibile ai quintetti All-NBA: 26.7 punti, 7.3 rimbalzi (massimo in carriera), 3.4 assist per un plus/minus di +5.9. Tuttavia, anche tra le righe delle statistiche personali si annidano elementi di incongruenza, segnali contraddittori che contribuiscono ad aumentare l’aurea di ambiguità attorno alla stagione di Leonard. Innanzitutto, il fattore che ne ha accompagnato la rapidissima transizione da “3&D di livello” ad autentica superstar, ovvero il vertiginoso miglioramento nel tiro da tre forgiato dalle lunghe sessioni con il leggendario Chip Engelland, sembra quasi essere svanito nell’attraversare la frontiera tra gli States e il Canada. In questa stagione Leonard ha tirato con il 36.6% dalla lunga distanza, dato parecchio lontano dal picco registrato nel 2015-16 (44.3%) e deficitario anche rispetto all’ultima annata pre-infortunio (38%).

Calato in un paradigma tattico funzionale ma allo stesso tempo attento a non interferire troppo con le intenzioni della stella conclamata, Leonard si è quasi sempre preso i tiri che voleva, spesso accontentandosi di quelli che la difesa avversaria gli lasciava. Il dato più significativo è quello relativo alla proporzione tra canestri assistiti e non. Rispetto alle abitudini maturate a San Antonio, Leonard ha sfruttato in maniera sensibilmente maggiore le iniziative personali. La percentuale di canestri non assistiti (64.4%) balza all’occhio se raffrontata all’ultima vera annata in Texas (52.4%) e ancor di più se la si esamina in rapporto alla stagione 2013-14, unanimemente considerata quella della sua esplosione (40.7%).

Il dato appare ancora più netto se si prendono in considerazione le sole azioni che hanno portato a canestri da due punti (72.5% il non assistito, 31.7% il dato per le conclusioni andate a segno da tre). L’evoluzione di Kawhi è palese anche nel sempre maggior peso che hanno i possessi in isolamento all’interno del suo gioco: in questa stagione hanno rappresentato il 16.8% del totale, in forte aumento rispetto a quanto fatto vedere nelle due ultime annate giocate agli ordini di Popovich (11.8% e 12.8%).

In alcuni frangenti le iniziative prese da Leonard hanno dato l’impressione di rompere il ritmo offensivo della squadra: la statistiche complessive dicono che il 60.3% dei punti totali dei Raptors è frutto di assist, percentuale che sale ad un vertiginoso 85.3% se si restringe il campo alle sole conclusioni da tre, proporzioni in netto contrasto con quelle personali di Leonard. Eppure proprio questo aspetto fin qui poco esplorato del gioco di Kawhi è il motivo principale per cui a Toronto hanno deciso di puntare su di lui. In ottica playoff, infatti, la capacità di crearsi un tiro di Leonard - che per caratteristiche tecniche e fisiche è diventato uno dei migliori attaccanti uno-contro-uno della lega - si sta rivelando davvero il pezzo mancante di cui i Raptors avevano bisogno per andare oltre i limiti dimostrati nelle ultime post-season (con tanti, affettuosi saluti all’ex beniamino di casa DeMar DeRozan).

Una semplice infografica che spiega bene l'impatto di Kawhi ai playoff rispetto alla regular season.

La sua presenza in campo, quando la palla pesa davvero, non aiuta i compagni, in particolare i più giovani, a migliorare, ma di certo aumenta le possibilità della squadra di allungare il proprio cammino fino alle Finals, fin qui rimaste poco più che un miraggio per Toronto e i suoi tifosi. A riprova di quanto la presenza dell’ala sia fondamentale per l’efficacia dell’attacco dei canadesi c’è il brusco calo che il rating offensivo di squadra subisce quando lui non è in campo: 117.4 il dato con Kawhi sul parquet, 110 quello senza.

Kawhi inaugura il 2019 con il career high contro una delle migliori difese della lega.

Dal punto di vista difensivo, viceversa, Leonard è stato la copia sbiadita di quello visto in maglia nero-argento. Ben allineato e coperto in un assetto rodato e funzionale anche nella propria metà campo, Kawhi si è limitato a recitare il compito assegnatogli con efficacia, senza mai dare segnali evidenti della volontà di alzare il livello della resa sua e dei compagni. Il rating difensivo (107.0) è per distacco il peggiore in carriera e stride non poco se raffrontato con quello della stagione 2015-16 (95.4) in cui Leonard vinceva il suo secondo premio di difensore dell’anno consecutivo e si piazzava secondo dietro a Curry nella corsa a quello di MVP. A dire il vero, già la stagione successiva aveva fatto registrare un calo brusco dell’efficienza nella propria metà campo (104.3), dato a dir poco significativo per un giocatore che dopo il suo anno da rookie non era mai sceso sotto quota 100.

Chi sperava che il Leonard conosciuto in Texas, difensore dell’anno nel 2015 e 2016, potesse contagiare i compagni come per osmosi, ha visto deluse le proprie attese. Se Toronto ha comunque mantenuto un eccellente rendimento difensivo (quinta miglior difesa della lega), deve ringraziare soprattutto l’apporto di Siakam, Ibaka, Lowry e di quel Danny Green che al momento della trade veniva considerato poco più che un riempitivo salariale utile a far quadrare i conti nei rispettivi libri paga e che invece si è rivelato indispensabile. Il rating difensivo di squadra con Leonard in campo è stato di 108.9, in sua assenza 107.0. Certo, in alcuni momenti decisivi della partite importanti della regular season, Kawhi si è preso cura dell’attaccante più pericoloso sul parquet, ma di quella strana creatura che assomigliava a Scottie Pippen nel corpo di Ron Artest si sono quasi perse le tracce.

Palle rubate, difesa uno contro uno, lettura delle linee di passaggio, aiuto dal lato debole: il repertorio difensivo di Kawhi rimane in ogni caso di altissimo livello.

Di fronte a tutto questo diventa lecito domandarsi se la regular season non sia stata altro che una lunga sciarada in attesa delle sfide che contano. Come e quanto questa strategia imperniata sul risparmio energetico pagherà dividendi lo abbiamo cominciato a scoprire durante la prima manciata di partite di playoff, ma si rivelerà ancora di più nel resto della post-season, rush finale durante il quale a nessuno, Leonard compreso, sarà consentito prendersi una serata libera. E questo è uno dei tanti quesiti riguardanti Kawhi che incontreranno una risposta nelle prossime settimane. Per gli altri occorrerà attendere ancora un po’, almeno fino all’arrivo dell’estate.

Should I stay or should I go?

Quando il futuro non regala certezze, l’approccio logico porta a basarsi sulle esperienze precedenti. Per Toronto, il parallelo più plausibile rimane quello con la vicenda tra Paul George e i Thunder, riusciti nell’impresa di convincere un giocatore apertamente riluttante a restare (George e Leonard si sono tra l’altro presi il tempo per una lunga chiacchierata ai margini dell’ultima sfida tra Toronto e OKC). Oppure, ancora meglio, con il Kawhi del 2014, usurpatore di una dinastia all’ultimo atto del proprio regno, allora erano gli Heat dei Big Three, oggi gli Warriors alla probabilissima quinta finale consecutiva. Il secondo parallelo, in definitiva, appare ineludibile crocevia per giungere al primo: il successo di squadra, inteso come attracco alle Finals e perfino conquista dell’anello, come ideale presupposto negoziale.

Nel momento in cui Masai Ujiri decideva di dar vita allo scambio che avrebbe portato Leonard in Ontario, i rischi futuribili dell’operazione erano ben noti. La decisione del plenipotenziario dei Raptors, all-in confermato poi dalle scelte di mercato successive, veniva presa alla luce della ben nota predilezione di Kawhi verso un ritorno nella natia California. Titolare di un’opzione a suo favore che gli consentirà di uscire dal contratto con un anno d’anticipo, l’ala dei Raptors potrebbe dare seguito alle proprie intenzioni dal prossimo luglio.

Perché Los Angeles

L’accoppiata con LeBron in maglia Lakers, ipotesi molto gettonata al momento della firma di James nel luglio 2018, risulta difficilmente praticabile per diversi motivi. L’annata fallimentare dei gialloviola e il futuro incerto, che coinvolge la guida tecnica e un roster male assortito, si assomma ai malumori che serpeggiano tra il front office e la proprietà. Dal punto di vista salariale Rob Pelinka orfano di Magic Johnson ha lo spazio sufficiente per mettere sotto contratto Leonard, ma le quotazioni di un suo approdo in purple & gold hanno subito un tracollo negli ultimi mesi. Ciò non toglie che a Hollywood, come noto, siano specializzati nei colpi di scena e quindi l’opzione Lakers non può essere esclusa a priori.

Pure sull’altra sponda di L.A. non si è mai fatto niente per celare l’opera di seduzione verso Leonard. Il corteggiamento operato a vari livelli nell’ultimo anno, spesso sostando lungo gli eterei confini del tampering, potrà contare su solide basi nella prospettiva di lanciare un’offerta concreta in estate. Tutto, in casa Clippers, sembra al posto giusto: un proprietario pronto a spendere e desideroso di vincere; un allenatore con il giusto pedigree e divenuto quintessenza del concetto di player’s coach; la presenza di un’autentica leggenda del gioco nel ruolo di eminenza grigia; un roster costituito da giovani con margini di miglioramento e giocatori dalle caratteristiche ideali per l’incastro con quelle di Leonard. Secondo le previsioni, i Clippers in estate dovrebbero disporre di un potenziale di spesa attorno ai 60 milioni di dollari, cifra più che sufficiente per firmare Kawhi ed eventualmente anche un altro free agent di livello. Los Angeles, quindi, potrebbe tornare ad essere una tentazione quasi irresistibile, ma Lakers e Clippers non sono di certo le uniche franchigie pronte ad accoglierlo a braccia aperte. Nessuna, però, potrà disporre del vantaggio oggettivo guadagnato di Raptors grazie allo scambio con San Antonio.

Perché Toronto

La disponibilità dei Raptors nell’assecondare il desiderio di tutela preventiva della salute del giocatore potrebbe giocare un ruolo importante nelle decisioni future di Leonard. Per quanto evidente, anche il fattore economico finirà per avere un peso: stando alle attuali regole, i Raptors rimangono l’unica franchigia in grado di offrire a Leonard un contratto al massimo salariale per cinque anni. In termini concreti significherebbe mettere la firma in calce a un accordo che porterebbe nelle sue tasche 190 milioni di dollari da qui al 2024, quando invece, qualora decidesse di abbandonare il Canada per un'altra destinazione, il massimo che la sua nuova franchigia potrebbe mettere sul tavolo sarebbero 141 milioni di dollari per quattro stagioni. Si tratterebbe quindi di una distanza stimabile in 50 milioni netti, somma difficilmente colmabile con entrate extra-sportive (Leonard ha da poco lanciato la sua prima sneaker personalizzata, ma l’ormai acclarata reticenza ai limiti della misantropia lo rende soggetto poco appetibile agli occhi dell’industria pubblicitaria). Masai Ujiri si presenterà quindi al tavolo verde del mercato con delle buone carte, premessa necessaria per andare a scoprire l’eventuale bluff di Kawhi.

The Kawhi Zone

Se quella di Leonard fosse la parabola di un musicista, la stagione 2018-19 verrebbe con ogni probabilità etichettata come “disco di transizione”, definizione che di norma si applica alle opere di artisti troppo dotati dal punto di vista del talento per produrre canzoni mediocri, ma che attraversano una fase transitoria della propria carriera. Allo stesso modo, per un Kawhi in buona salute è praticamente impossibile non giocare bene a basket, soprattutto perché le sue caratteristiche lo rendono interprete quasi perfetto per la moderna concezione del gioco. Difensore migliore di Durant e attaccante più completo di Antetokounmpo, non gli mancherebbe proprio nulla per provare ad accaparrarsi lo scettro fin qui saldamente nelle mani di un LeBron James ora avviato verso la fase calante, in quel ruolo di esterno in grado di difendere su ogni avversario, creare dal palleggio, coinvolgere i compagni e segnare dalla lunga distanza.

Al netto delle non poche perplessità destate dalla rottura con San Antonio (a tal proposito, gli Spurs pare se la siano legata al dito tanto da farlo letteralmente sparire dai video celebrativi per il ritiro della maglia di Ginobili), Kawhi rimane il sogno bagnato di ogni GM, allenatore e tifoso. Resta da capire dove lui intenda portare i suoi talenti, per citare l’illustre collega di cui sopra, negli anni a venire. E qui l’intrigo s’infittisce, perché lui continua a tenere un atteggiamento imperscrutabile, vera e propria sfinge che lascia al mondo esterno l’interpretazione dei propri pensieri e sentimenti - in questo, e forse solo in questo, erede dell’inarrivabile Tim Duncan.

Proprio come l’ex compagno, Leonard ci ha abituati a parlare poco e a lasciare che sia il campo a dare tutte le risposte. E le risposte sono puntualmente arrivate con lo scoccare della post-season. Dopo la prima, impacciata gara d’esordio persa contro i non irresistibili Magic, Kawhi ha letteralmente preso per mano Toronto permettendo alla squadra di chiudere la contesa nelle successive quattro (la sua media nella serie dice 27.8 punti, 6.6 rimbalzi e 3 assist, tirando con il 53.6% dal campo e il 53.8% da tre per un plus/minus di +18.8).

Al turno successivo, lo scontro con i ben più attrezzati Sixers ha richiesto a Leonard di alzare ancora il livello delle prestazioni. Il risultato? Una gara-1 da consegnare agli annali, in cui l’ex San Antonio ha ridicolizzato i tentativi di contenerlo da parte della difesa avversaria e facendo saltare sulla sedia i tifosi canadesi (Drake compreso)

Pubblico della Scotiabank Arena in visibilio, Drake compreso.

Più complicata la cornice delle due sfide successive, dove Butler e compagni hanno trovato contromisure efficaci e costretto Leonard a sudare ogni singolo canestro senza riuscire a trascinare i suoi alla vittoria nonostante i 35 e 33 punti messi a referto.

Dopo mesi in modalità cruise control, insomma, Leonard ha deciso di premere con forza sull’acceleratore e sta dando a Toronto tutto quello che serve e anche qualcosa di più. Ciò che è mancato, per il momento, è l’apporto del resto della squadra: il Net Rating complessivo dei ragazzi di Nick Nurse dice +19.6 con lui in campo e -24.9 quando siede in panchina. Una tendenza radicalizzatasi nella serie con i Sixers dove senza la loro stella il rendimento dei Raptors scende da +7.2 a -52.5. Resta da capire se l’evidente scarto tra il rendimento di Leonard e quello dei compagni possa diventare materia di riflessione nel processo che lo condurrà alle scelte da maturare una volta chiusa la stagione.

Nel frattempo, in attesa di scoprire che cosa gli riserverà il futuro prossimo, lui sembra comunque deciso ad afferrare il presente. Per un finale di stagione ai confini della realtà - almeno di quella di Kawhi.

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