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Dietro The Last Dance: intervista a Roland Lazenby
18 mag 2020
Abbiamo chiesto al biografo di Michael Jordan e dei Chicago Bulls qualche retroscena sulla squadra del 1998.
(articolo)
19 min
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Cosa rimarrà della dinastia Bulls di Michael Jordan? Tra le tante che potrei fare, è questa la prima domanda che pongo al mio interlocutore Roland Lazenby. La sua risposta è la seguente: «Lo stile di gioco dominante di Michael Jordan fa parte di un’altra epoca. Son cambiate le regole e le statistiche hanno alterato il gioco: adesso è in gran parte fatto di tiri da tre, assieme a lunghi tratti di gioco noioso». Potrebbe sembrare un’affermazione azzardata e nostalgica se la sostenesse un semplice spettatore della pallacanestro, ma non se a dichiararlo è Roland Lazenby - giornalista sportivo e scrittore di biografie monumentali sui campioni NBA, specialmente quella che riguarda His Airness (Michael Jordan, la vita, edito da 66thand2nd).

Lazenby è un autore che ha vissuto a pieno la Jordan Experience: era infatti a Chicago durante l’epoca d’oro di quei Bulls e ha stretto una profonda amicizia con Tex Winter, uno dei principali artefici di quei successi. Se gli chiedete di The Last Dance, probabilmente vi parlerà di un capitolo di Mindgames, la biografia su Phil Jackson, o del suo Blood on the Horns, dedicato proprio all’ultimo anno della dinastia dei Bulls.

Sfidami

Riguardo la legacy lasciata da MJ e da quei Bulls, Lazenby è categorico: «Innanzitutto ci sono sei campionati vinti che consentono a MJ e ai suoi sostenitori di rivendicare il dominio nell'era moderna. Durante l’era dei Bulls ci furono tratti simili [al gioco di oggi], ma la forza, la natura competitiva e l'atletismo di Jordan gli permisero di dominare fisicamente con il suo gioco in post e le sue schiacciate. Quelle gare furono trasmesse in tutto il pianeta, il che ha portato il basket professionistico americano nelle case di milioni di telespettatori».

Il lato caratteriale di Jordan è unico, racconta Lazenby nelle pagine della sua biografia, in quanto appare come il perfetto esempio di maschio alfa, che covava dentro di sé sempre un agonismo irrefrenabile. Una volta il suo amico e compagno Charles Oakley dichiarò: «Ciò che la gente non capisce è che Michael è davvero un bravo ragazzo». Ma se è vero che con la sua famiglia si mostrava sempre come il giovane e timido Mike, soprattutto grazie al profondo legame che lo univa al padre James, in campo era un bullo, e non solo con i suoi avversari.

I suoi compagni erano logorati dalle sue continue sfide o frecciatine, se non a veri e propri insulti. Horace Grant, ad esempio, venne perseguitato per anni da Mike, che lo chiamava “pupazzo”. Così come brutalizzò Toni Kukoc, Bill Cartwright e Luc Longley. Più tardi, da presidente degli Washington Wizards, fece lo stesso con la prima scelta assoluta Kwame Brown. A eccezione di Pippen, con cui aveva stretto una forte amicizia, ma solo dopo diversi anni di apprendistato: «Quando penso a quei Bulls, non penso ci fossero degli eroi non celebrati. Tutti ricevettero molta attenzione. Il mondo dello sport era pazzo di loro» spiega Lazenby. «Ma se dovessi sceglierne uno, ovviamente, sarebbe Scottie Pippen - un giocatore sconosciuto dell'Arkansas che divenne uno dei giocatori più versatili nella storia della NBA. La sua abilità essenzialmente come point guard in attacco e arma totale in difesa servì da moltiplicatore in quella squadra».

Chi non riusciva ad essere al livello di Jordan veniva punito sistematicamente. Al contrario di come potrebbe apparire, Dennis Rodman al confronto era un ragazzo timido ai Bulls. Fuori dal campo socializzò soprattutto con i ragazzi “bianchi” del gruppo, «grazie al suo amore verso i Pearl Jam e gli Smashing Pumpkins: andavamo ai concerti insieme a lui», racconta Steve Kerr.

Il soprannome di Jordan fu così “il Gatto Nero”, perché ogni volta che lo incontravi sapevi a cosa andavi incontro. Jordan era ossessionato dal desiderio di sfidare di continuo chi gli era vicino, anche su dettagli ininfluenti. Rod Higgins, nel libro di Lazenby, spiega che «Michael riusciva sempre a trovare un punto debole su cui battere finché non arrivava ad esasperarti. Se volevi sopravvivere dovevi rispondergli per le rime, altrimenti la serata sarebbe stata molto lunga». Fu questa sua mentalità a permettergli di vincere sei campionati e dominare la lega. Ma fu (quasi) sempre rispettoso degli avversari, almeno fuori dal parquet.

Il problema, semmai, era quando si mancava di rispetto a MJ.

GOAT

Come ha affermato in questi giorni Kirk Goldsberry su ESPN, la capacità di Michael come realizzatore è quasi intoccabile. La cosa che stupisce sono i numeri impressionanti che metteva a referto ogni sera, solitamente un giocatore NBA per affermarsi ad alti livelli ha bisogno di un periodo di adattamento, Jordan invece si dimostrò indiavolato sin dal suo primo anno: nella sua prima stagione da rookie, culminato ovviamente con il premio di miglior matricola, la sua media punti era già di 28.2 a partita.

Lazenby però ci tiene a sottolineare che Jordan era anche un fantastico difensore, tant’è che entrò nel primo quintetto difensivo nove volte e venne premiato come Difensore dell’Anno nel 1987-88: «La difesa dei Bulls? Molte notti sembravano come ladri di automobili che smantellano una Porsche» li definisce Lazenby. La difesa sotto i dettami di Johnny Bach prima e Tex Winter e Phil Jackson poi fu un elemento imprescindibile per il conseguimento dei sei anelli. Tanto che Michael si risentì molto quando fu estromesso dalla classifica dei due migliori quintetti difensivi nella stagione 1986-87 , quando era già diventato il primo giocatore nella storia a totalizzare oltre 200 palle rubate (236 per la precisione) e 100 stoppate (125) in una sola stagione. A quei tempi solo Jerry West era riuscito a vincere il titolo di capocannoniere e ad essere inserito nel quintetto difensivo: Lazenby afferma che Jordan voleva essere riconosciuto come un giocatore completo sui due lati del campo.

Ci sono tanti gesti che rimarranno di Jordan, come “The Shot” in Gara-5 contro Cleveland nel 1989, la “Patrick Ewing Dunk” ai playoff del 1991, seguito da “The Move” contro i Lakers di Magic o “The Shrug” contro Portland nel 1992. Ma nella memoria collettiva, lo zenit di Jordan è percepito con una data, quella dell’11 giugno 1997, una di quelle partite che stabiliscono «un “prima” e un “dopo” nella storia di un atleta, di una squadra». Lazenby concorda: «Si potrebbe sostenere che fosse già una figura mitica prima del Flu Game, ma quella partita ha cementificato la sua immagine mitica, anche perché è arrivata in un momento in cui tutti i media sportivi erano concentrati alla ricerca del prossimo episodio di quella mitologia. Jordan aveva il compito di caricare questi episodi di un fascino drammatico. “The Flu Game” ha contribuito a far crescere drammaticamente quella mitologia».

Di una cosa possiamo essere abbastanza sicuri: Jordan non ebbe alcuna influenza nello chalet di Park City, in Utah. La versione più accreditata rimane quella di avvelenamento da cibo: fu consegnata nella stanza una pizza che mangiò solo lui, e lo ritrovarono alle 3 del mattino in posizione fetale. Ma Lazenby raccolse anche altre voci di corridoio, secondo le quali invece la leggendaria insonnia di Mike fu alleviata con alcool e poker. Scrive Lazenby: «Se si sia trattato di un vero virus o di una “febbre di Milwaukee” [la capitale americana della birra, ndr] rimarrà per sempre uno dei tanti dubbi che compongono il mistero di Jordan. Di certo era famoso perché dormiva poco e giocava molto, sia sul parquet sia fuori. Ma a prescindere dalla causa, il gioco di Jordan rimaneva l’unica verità indiscutibile».

Ricordando il Flu Game.

Jumpman 23

«Un’altra grande eredità è il Brand Jordan, dal suo stile alle sue scarpe fino al suo abbigliamento sportivo. Attraverso di lui, la Nike è arrivata a governare il mondo in un momento critico della nostra storia culturale condivisa» afferma Lazenby. Se, come dice Flavio Tranquillo, capiremo la rivoluzione operata da David Stern solo nei prossimi 20 o 30 anni, la rivoluzione di Jordan nella NBA invece fu da subito sotto gli occhi di tutti. Fatidico fu un incontro alla fine dei Giochi Olimpici di Los Angeles, tra Jordan e un italo-americano molto sui generis, Sonny Vaccaro, figura praticamente del tutto ignorata in The Last Dance.

A quei tempi Vaccaro era l’uomo della Nike incaricato a far indossare lo swoosh a giocatori dilettanti e coach universitari grazie alla sua ampia rete di contatti, creata durante gli anni ’60 con l’istituzione del torneo Dapper Dan Roundball Classic. Al momento del loro incontro, Jordan invece era ancora un'adolescente che giocava per i Tar Heels di coach Smith, seppur in procinto di entrare nell’NBA. Vaccaro propose al giovane Michael di diventare un’icona legata al marchio sportivo di Portland. Era la prima volta che un brand metteva sul piatto un'offerta così importante per un’atleta.

Ma all’inizio Jordan fu titubante: «Non sono sicuro di voler avere a che fare con un tipo così losco». Vaccaro sembrava quasi un esponente della malavita uscito fuori dai Soprano, con il suo accento da italo-americano e i suoi modi stravaganti, «sembrava conoscere segreti e cose che le persone normali non possono sapere», sottolinea Lazenby. La trattativa stentava a decollare. «Non sapeva nemmeno cosa fosse la Nike: voleva l’adidas, perché in quegli anni facevano le tute più belle» rivelò Vaccaro.

Finché, con l’aiuto della signora Jordan, Deloris, Nike fece all-in, costruendo non solo per la prima volta delle scarpe solo per un atleta, ma facendolo diventare anche socio dell’azienda. Fu così che nacquero le Air Jordan. Con quel contratto economico Jordan divenne la prima star internazionale e generò anche malumori tra i suoi colleghi, in particolare Magic Johnson, per il semplice fatto che un rookie era arrivato a guadagnare più di uno dei più forti giocatori in circolazione allora. Quella rivalità, iniziata con il boicottaggio a Jordan all’All-Star Game del 1985, sarebbe durata sette anni, fino all’abbraccio dopo il primo titolo di Jordan contro gli ultimi Lakers competitivi di Magic.

Jordan nella sua carriera guadagnò molto di più con la Nike rispetto ai Bulls, per via dell’oculatezza del presidente Jerry Reinsdorf in materia di contratti (vedi Pippen). «Era l’Elvis Presley del basket. È stato lui a creare la mitologia per tutti noi» disse Vaccaro. “Michael Jordan è il simbolo degli anni Novanta”, titolavano invece le riviste di moda. E non solo per la sua lucrosa partnership con Nike: altri segni distintivi, come l’orecchino di diamante e la testa rasata, piuttosto che la catena d’oro al collo durante lo Slam Dunk Contest sempre del 1985, divennero di tendenza, «adottati da uomini di ogni razza e colore». Nella biografia su MJ Lazenby si sofferma anche sui calzoncini: «Quando entrò nella lega i calzoncini che si vedevano in giro sembravano quelli di Daisy Duke in Hazzard, stretti e cortissimi, ma Jordan creò subito qualcosa di più vicino ai suoi gusti, i cosiddetti baggy pants, che erano almeno sei centimetri più lunghi della norma. Di lì a poco tutti i giocatori sarebbero scesi in campo vestendo pantaloncini ampi che scendevano fino al ginocchio – senza dubbio il suo contributo più duraturo alla moda americana».

BANNED, il primo commercial per le Air Jordan che passò alla storia.

Be like Mike

Ma ci furono anche aspetti negativi dovuti a questa pioggia di dollari dal cielo. «Nike e la stessa NBA hanno una parte di responsabilità nel sacrificio della vita privata di Jordan», ha osservato George Gervin. «È lì che è cambiato tutto. L’hanno fatto diventare più importante della sua stessa vita. Ed era un peso. Il gioco stava cambiando in fretta, e poi sono arrivate ESPN e la tv via cavo. Ha dovuto isolarsi, visto che lo promuovevano in modo martellante».

Jordan si isolò pian piano come faceva in campo: «Non devi lasciare che gli altri sappiano quanto stai soffrendo, non devi lasciare che gli altri sappiano quello che provi. Devi conoscere il più possibile di loro, ma se riveli troppo di te concedi un vantaggio». Al suo gruppo ristretto di amici e collaboratori MJ rivelò che il campo da golf e il cinema erano i soli due luoghi in cui poteva fuggire dalla gente, «dove potevo essere come tutti gli altri». Neanche lì però la sua fama lo lasciava in pace, visto che successivamente furono proprio il golf e il gioco d’azzardo a creargli ulteriori problemi nelle figure di Slim Bouler e Richard Esquinas.

Già nella stagione prima del suo ritiro, Jordan sentiva una pressione crescente da parte di tutti, tanto che confessò già allora al padre di aver considerato l’idea di staccare la spina. Fino al tragico epilogo. «Suo padre venne assassinato», racconta Lazenby. «Era vero che Jordan era stremato da tre campionati consecutivi e dall'esperienza del Dream Team, ma se ne andò a causa di quella tragedia. Iniziò così a giocare lo sport preferito del padre James, il baseball». Fu così che il 6 ottobre 1993, Jordan annunciò il suo ritiro. La dichiarazione migliore riguardo le pressioni mediatiche furono quelle dello stesso Jordan, durante la sfida playoff con gli Orlando Magic di Shaquille O’Neal, quando era tornato nell’NBA con la numero 45: «Tutti hanno un’opinione su Michael Jordan, tranne Michael Jordan».

Il triangolo

Qual è una cosa che dovrebbe sapere chi non ha mai visto dal vivo quelle stagioni dei Bulls? Lazenby ha le idee chiare in merito: «Quanto erano intelligenti e disciplinati. L'attacco triangolo di Tex Winter era incredibile con Jordan come arma principale».

A lezione da Tex Winter.

Michael era sempre stato scettico sui suoi compagni di squadra, ma grazie a Jackson l’alchimia cominciò a crescere. La soluzione si trovò nel mezzo, ovvero Michael accettò il triangolo e imparò a sfruttarlo al meglio, ma nei momenti chiave, spesso nell’ultimo periodo, aveva facoltà di risolverla da solo. Un’altra persona fondamentale nel coaching staff fu Johnny Bach, veterano della Seconda Guerra Mondiale, che ricoprì il ruolo di vice-allenatore dal 1986 al 1994. «Bach ha incoraggiato costantemente Jordan ad essere aggressivo come giocatore, per raggiungere livelli sempre più alti e difficili» dice Lazenby. Fu lui a creare l’identità difensiva dei Bulls, la sua specialità era preparare video appositi inserendo film di guerra. Spesso con Jordan usava frasi dei suoi vecchi comandanti quando era di stanza nel Pacifico, usava piccoli espedienti per mandare messaggi a Michael. Fu così che divenne presto il suo personal coach.

«Coach Bach è stato davvero una delle più grandi menti del basket di tutti i tempi. Mi ha insegnato tanto, mi ha incoraggiato, ha lavorato con me e mi ha davvero aiutato a plasmare il mio gioco. Senza di lui, non so che avremmo vinto i nostri primi tre campionati. Era più che un allenatore per me. Era un grande amico». Furono queste le parole che spese Jordan dopo la sua scomparsa nel 2006. Poche persone ottennero la stima del numero 23 come Bach. Ma nel 1994 Bach fu allontanato, in un momento difficile della sua vita, mentre affrontava il divorzio da sua moglie. Poco tempo dopo ebbe anche un infarto, ma continuò a lavorare nella NBA.

Il motivo del licenziamento pare fosse la discrepanza di intenti con Jackson e Winter. Jackson in particolare pensava che Jordan e Pippen snobbassero l’attacco triangolo per colpa di Bach. «Fan***o al triangolo. Prendi la palla e segna» era una frase ricorrente che usava Bach quando Jordan si avvicinava alla panchina. Ma Jackson non era il tipo da scomporsi in pubblico, il suo approccio con i giocatori era sempre molto psicologico. Lo stesso Bach riconosceva che il suo punto di forza era la sua calma, la sua sicurezza. A questo univa poi le sue pratiche più bizzarre, racconta Lazenby, come suonare un tamburo prima di ogni partita o allenamento (un’antica tradizione che aveva preso in prestito dai nativi americani, sua passione fin da bambino nel Montana); ma predicò anche un approccio zen, regalando a ciascun giocatore libri a Natale (a Jordan una volta diede una copia di Il canto di Salomone di Toni Morrison) o obbligando i giocatori nell’approccio alla meditazione e all’autocoscienza.

Come è riuscito Phil Jackson ad affrontare una polveriera com’era quello spogliatoio dei Bulls? «Prima di tutto Jackson ha convinto Jordan a usare l’attacco triangolo di Tex Winter, e poi ha stretto con lui un forte rapporto personale. Jackson stesso aveva un bell’ego ed era per molti versi silenziosamente spietato come lo stesso Jordan. Il trattamento di Jackson nei confronti di Johnny Bach è stato orribile. Intendiamoci, Phil Jackson ha rivoluzionato il gioco, ha aperto la mentalità del gioco in molti modi, ma in questo potrebbe essere stato piuttosto egoista e crudele». Questa dichiarazione di Lazenby apre un capitolo decisivo, ovvero quello relativo alle polemiche sempre più incendiarie che divisero lo spogliatoio e le divergenze che scaturirono tra dirigenza, allenatore e la squadra.

Jackson analizza il triangolo per ESPN.

Tori scatenati

Phil Jackson era una delle fonti di Sam Smith, l’inviato del Chicago Tribune che scrisse The Jordan Rules. «Sia il General Manager dei Bulls Jerry Krause che lo stesso Jordan odiavano le rivelazioni presenti in quel libro» dice Lazenby. «Per coprire apparentemente il proprio coinvolgimento, Jackson rivelò che era Bach la talpa che dava dettagli poco lusinghieri sia su Krause che su Jordan. Indotto a credere che Bach avesse fornito quelle informazioni, Krause decise che Bach doveva essere licenziato da Jackson dopo la stagione del 1994, cosa che Jackson fece subito dopo. Ho un'intervista registrata con Jackson in cui mente spudoratamente su quello che è successo».

Sam Smith in seguito confidò al presidente dei Bulls Jerry Reinsdorf che Bach in realtà non era la fonte del suo libro, e che altri, incluso Jackson, erano le sue fonti. «Reinsdorf non avrebbe dovuto dirlo a nessuno, ma confidò queste informazioni a Krause, che contribuirono ad alimentare il conflitto (già ampiamente in corso) tra lui e Jackson. Nel frattempo, Bach ebbe un infarto e altri problemi personali a seguito del suo licenziamento, con Krause in lacrime a scusarsi con lui. E quale fu l'unica persona che Jordan portò con sé alla sua introduzione nella Hall of Fame? Johnny Bach. Jordan gli comprò un vestito nuovo e lo portò sul suo jet privato all’introduzione. Phil Jackson vide la premiazione in un bar sportivo da qualche parte».

Questa rivelazione di Roland Lazenby chiarisce il quadro complesso nel quale dovevano muoversi quei Bulls. Lo spogliatoio di quei Bulls nella stagione 1997-98 era ormai formato da uomini soli, uniti solamente dal carisma di un allenatore vincente come Phil Jackson, e in aperta rottura con la società. Ma queste divisioni non erano nate solamente per la questione rinnovi (Jordan, Pippen e Jackson erano nell’ultimo anno di contratto), ma erano il frutto di un clima divenuto esasperato tra dirigenti e squadra. La questione aveva insomma radici più profonde. Ha ragione Toni Kukoc quando di recente ha fatto notare che rendere Krause l’antagonista della “sua” squadra sarebbe una scelta controproducente.

Alla grande abilità di scovare nuovi talenti e farli crescere, giocatori come Pippen, Oakley o allenatori come Winter e Jackson, Krause contrapponeva il suo carattere difficile, dovuto al fatto che era un tizio basso e tarchiato e veniva snobbato anche dai suoi colleghi nelle altre franchigie. Lazenby su questo riporta una dichiarazione dello stesso Jackson: «Jerry non è mai stato capace di vendersi bene all’esterno. E questo ha distrutto la sua immagine pubblica, visto come ragionano i tifosi qui a Chicago. Viene considerato il sindaco, e come tale riceve sempre fischi. A Jerry è sempre toccato fare gran parte del lavoro sporco… e lui ne ha fatto talmente tanto da trasformarsi in un personaggio impossibile da amare».

Impossibile da amare soprattutto per Jordan. Quasi in ogni occasione in cui i Bulls avevano celebrato i tre anelli del primo three-peat, i due “Jerry” era stati bersagliati dai fischi del pubblico di Chicago. Secondo Krause Jordan non alzò mai un dito per difenderli, anche quando poteva. La rivalità con Krause in particolare c’era stata fin da subito: Krause aveva più volte scambiato o venduto compagni a cui era affezionato Jordan, come Oakley, e fin dal primo anno i due si scambiavano frecciate in continuazione. All’inizio sembrava solo un passatempo: Krause irrideva Jordan dicendo che poteva eguagliare Earl Monroe. Ma Michael, come detto prima, si segnava al dito qualsiasi critica negativa. Krause controbatteva: «Il mio lavoro non era leccare il culo a Michael».

Durante gli anni ci furono sempre contrasti più o meno velati fino a che si arrivò a quella fatidica ultima stagione. Durante la trasferta in Utah nelle Finals, quando Krause e Jordan si ritrovarono nell’autobus insieme, Jordan lo insultò pesantemente di fronte a tutta la squadra, convinto che fosse lui il responsabile dell’allontanamento di Johnny Bach e il trattamento offensivo riguardo l’amico Pippen. Quell’umiliazione di Krause fu la goccia che fece traboccare il vaso. Jordan, dopo la vittoria del 1997, andò da Reinsdorf a chiedere il prolungamento di contratto di Jackson, cosa che infastidì il proprietario, che aveva giù il monte salariale più alto della NBA (Jordan da solo guadagnava più di tutti i Jazz messi assieme). Al tempo stesso, anche la riconoscenza e l’amicizia di Jackson per Krause scemò, quando Krause ebbe la malaugurata idea di annunciare l’addio dell’allenatore dopo il rinnovo di un anno. Phil Jackson compattò la squadra attorno a sé e disse a Reinsdorf che non avrebbe più allenato sotto Krause. Reinsdorf però scelse alla fine il suo omonimo: fu così che i Bulls iniziarono a sgretolarsi.

«Jerry Krause è qui, ma ovviamente non l’ho invitato io».

Anni dopo, l’ultimo round tra Jerry Krause e Michael si consumò proprio in quella cerimonia alla Hall of Fame. A detta di molti addetti ai lavori, racconta sempre Lazenby, il discorso di Jordan fu vendicativo e astioso, specialmente nei confronti del suo ex GM. «Una volta disse: le società vincono i titoli. Beh, non ho mai visto una società giocare con la febbre». Krause dal canto suo replicò due anni più tardi, quando entrò anche Rodman nella Hall of Fame: «Dennis poteva comportarsi in modo terribile, ma ha un cuore d’oro. Ha sempre compiuto azioni autolesioniste, ma non farebbe mai del male a un altro essere umano. Michael invece? A lui non importa se ferisce le persone. A volte non ci sta con la testa. Non sto dicendo che è cattivo; l’ho visto tante volte essere estremamente gentile. Immagino che per uno psichiatra sarebbe un sogno poterlo prendere in cura e smontare le sue difese, sarebbe davvero molto interessante. Michael è uno dei giocatori di basket più intelligenti con cui abbia mai lavorato, ma l’episodio della Hall of Fame, quel discorso, mi ha permesso di far capire alla gente quanto possa essere idiota. In tantissimi sono venuti da me dopo quel discorso per dirmi: “Non mi ero mai reso conto che Michael fosse un simile stronzo”».

La verità forse, è che nessuno potesse fare a meno di far incazzare l’altro. Michael non ha mai mostrato ripensamenti su Krause, ma forse, dopo l’esperienza da dirigente con Washington e Charlotte, avrà ripensato alle scelte del suo burbero ex dirigente.

Ultima corrida a Chicago

L’ultima istantanea viene dall’ultima partita della stagione regolare del 1998. Come racconta Steve Kerr a Lazenby, Phil Jackson assegnò un compito inusuale ai suoi giocatori: «Voglio che per l’allenamento di domani ognuno scriva qualche riga sulla propria esperienza con questa squadra. Può essere qualsiasi cosa: potete scrivere una poesia, una lettera ai vostri compagni, prendere delle parole da una canzone che per voi sono significative, va bene tutto». L’idea era venuta dalla moglie di Jackson, ma il giorno dopo solo alcuni si ricordarono effettivamente. Fra tutti, Jordan aveva scritto un’intera poesia. Il giocatore più forte del mondo si era piegato al suo allenatore tanto da dedicare una poesia a tutti gli altri.

Quando tutti finirono di condividere un pensiero, Phil Jackson raccolse tutti i fogli dentro un barattolo di caffè, e diede fuoco al suo contenuto. «Non lo disse, ma la metafora era quella. È roba nostra ed è andata, vivrà per sempre dentro di noi e nessun'altro la vedrà mai». «Forse ce la saremmo goduta di più, se avessimo avuto modo di apprezzare la cosa» disse alla fine Jackson.

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