Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
The Legend
09 dic 2014
Landon Donovan, ovvero il calciatore americano più importante di sempre, all'alba del ritiro.
(articolo)
30 min
Dark mode
(ON)

Nel marzo del 2015 la nuova MLS riaprirà i battenti non solo con due nuove franchigie (Orlando e NY), una manciata di campioni (Lampard, David Villa) e un nuovo logo molto elegante, ma anche con una stella in meno: Landon Donovan. E quando, a undici minuti dal termine della finale dell’ultima MLS Cup, l'ultima partita di Donovan, Chris Tierney, prodotto del vivaio dei New England Revolution, ha pareggiato una gara fino a quel momento saldamente nelle mani dei Los Angeles Galaxy, gli sceneggiatori si sono guardati con sospetto: chi stava sabotando l’happy ending?

Donovan è l’uomo che è riuscito a fare per il calcio USA negli anni zero, quello che Michael Jordan, con le dovute proporzioni, ha fatto per il basket negli anni Novanta: fomentare la passione fino a cementificarla nel mito. Se oggi la MLS può permettersi di dire: «Esistiamo da vent’anni, non abbiamo bisogno di farti vedere un pallone e uno scarpino per farti capire che parliamo di soccer», buona parte del merito è di Landon Donovan, il miglior marcatore e assistman assoluto non solo della Lega, ma anche della USMNT, ovvero la Nazionale di calcio maschile.

Per questo, l’ultima stagione non ammetteva finali alternativi: Donovan si era preparato un’uscita di scena, a suo modo, hollywoodiana. I Los Angeles Galaxy si sarebbero giocati la possibilità di laurearsi campioni degli States per la quinta volta, più di ogni altra squadra, sul proprio campo: lo StubHub Centre di Carson sul quale nessuno riusciva a batterli dal Marzo scorso. Figuriamoci nella finale, e nell’atto finale della carriera di Donovan.

Così è finita sotto una pioggia di lustrini dorati, con Robbie Keane, il capitano, che ha alzato la coppa e si è voltato a cercare Landon, nascosto tra gli altri compagni quasi a voler cercare un fade out clandestino, e lo ha reclamato sul fronte del palco. Gli sceneggiatori si sciolgono in un sorriso disteso: nessuno può sabotare un happy ending.

Negli ultimi quindici anni Donovan è stato lo specchio del processo di maturazione del calcio yankee, una linea di spartiacque acuta e ripida (come lo slash che divide il nuovo logo in due quadranti); ha saputo trasformare il soccer da elettromagnete per eurofili a sport tipicamente nordamericano, al pari (non del tutto, ma quasi, in prospettiva) del baseball o del basket. Sarebbe bello se un giorno, nel quadrante immacolato del nuovo logo, la MLS introducesse una silhouette – come Jerry West per l’NBA o Harmon Killebrew per la MLB – di Landon Donovan.

Donovan è il simbolo di un passaggio epocale per il calcio in America e se adesso è diventato uno sport di un certo rilievo, addirittura “cool”, è anche un po’ merito di LD. Come testimonia la foto con Obama e Beckham: Landon Donovan non sfigura. Forse è appena troppo basso.

In ogni caso, senza di lui, la combinazione “Soccer” + “Presidente degli States” avrebbe avuto lo stesso effetto di George W. Bush Sr. che calcia goffamente un pallone sul prato poco curato della villa di un amico in Texas vestito da maratoneta col k-way:

L’adolescenza ai tempi del pionierismo.

A qualche miglio più a sud dall’inizio del tratto californiano della Route 66 si trova la cittadina di Redlands, “Capitale Mondiale delle Arance Navel”, nebbiosa e operaia manciata di case della suburbia losangelina in cui Landon è cresciuto frequentando il college da studente modello, prendendo lezioni di violino, distribuendo giornali come molti ragazzini dell’America bene. I genitori avevano divorziato quando lui aveva solo due anni: il padre Tim, giocatore dilettante di hockey su ghiaccio, si era trasferito in Nebraska dove si era fatto una nuova famiglia. Landon è cresciuto con la madre Donna e i quattro fratelli: Sheri e Tim, già più grandi, Josh e la sorella gemella Tristan, nata un minuto esatto prima di lui.

Negli anni in cui Landon è un ragazzino, negli States, il calcio è poco più che una terapia, un rimedio all’iperattività in età scolare: permette ai piccoli di bruciare energie, li stanca. Senza dover pensare per forza al professionismo. Per questo le mamme lo scelgono per i loro figli: gite fuori porta con il van, sedie pieghevoli, succo d’arancia in cartone, molta spensieratezza e novanta minuti di corse confuse che sfiancano i bambini. Per questo Donna lo sceglie per il figlio. Josh gli insegna i fondamentali: come si stoppa il pallone, come si tira. Allo svezzamento provvedono i Cal Heat di Rancho Cucamonga, la sua prima squadra.

Quando guidi verso L.A., attraversando San Bernardino, Pomona, Pasadena hai come l’impressione di essere già, per una qualche ragione, in una propaggine d’America Latina: i gommisti, i colorifici, i fruttivendoli, tutte le insegne sui muri, dipinte a vernice, sono in spagnolo. Nei Cal Heat Landon divide il campo con ragazzini messicani, costarricensi, honduregni: «Ho dovuto imparare lo spagnolo se volevo che mi passassero la palla».

Secondo Richard Motzkin, il primo agente di Donovan, la caratteristica principale del Landon ragazzino era quella di suscitare una specie di Landonmania ovunque andasse. Tutti i coetanei volevano essere Landon Donovan. Le ragazze lo amavano. I ragazzi più grandi lo ammiravano e le mamme lo adoravano. A quindici anni Landon è stato accettato nell’Olympic Development Program per il calcio negli States. «Anche se conoscevo a malapena i nomi di 5 squadre in tutto il mondo, mi piaceva molto giocare a calcio», dice a un certo punto di “The Finish Line”, il documentario che gli ha dedicato Grantland. E poi è uno dei primi storici allievi della IMG Bradenton Academy, in Florida.

La Bradenton non è che la Bollettieri Academy raccontata da André Agassi in “Open”, solo che per i giovani calciatori, a differenza dei tennisti, il clima è molto più disteso, non c’è competitività ma spirito di squadra e molta goliardia, anche quando per rilassarsi si gioca a golf. Landon, un giorno, per rincorrere una pallina colpita da un compagno si avventura in uno stagno, e quasi finisce per farsi azzannare da un alligatore (è una scena che Filip Bondy ha raccontato nel suo libro “Chasing the game”). Landon vuole diventare un calciatore di successo, ovviamente in Europa. Vuole guadagnarsi il rispetto che all’epoca non era concesso ai calciatori yankee.

Mi sono imbattuto in un questionario compilato durante un ritiro con le nazionali giovanili – deve risalire a qualche tempo prima del Mondiale U-17 disputato nel 1999 in Nuova Zelanda – che secondo me tra le righe racconta molto del Donovan calciatore, della sua fama di ambizione, dei suoi modelli di riferimento. Il suo calciatore preferito, dice, è Roberto Baggio. Mi sono immaginato un piccolo Donovan durante il Mondiale del ’94, folgorato dalle giocate del fantasista italiano, piangere per il rigore sbagliato nel catino rovente del Rose Bowl di Pasadena. E ancora nel questionario: «Cosa sai del Campionato del Mondo giovanile?». «Che lo vinceremo».

Quell’U-17 riuscirà in una serie di imprese, come battere una squadra di “grandi” (i Tampa Bay Mutiny, che militavano nella MLS) o i pari età argentini, vieppiù in Argentina. Ai Mondiali arriveranno quarti. In quel periodo Landon portava i capelli biondi ossigenati, come il primo Billie Joe dei Green Day o Eminem ai tempi di Slim Shady, e già da sei mesi viveva e faceva il calciatore in Germania.

Di quella U-17 statunitense facevano parte anche Oguchi Onyewu, DaMarcus Beasley e Kyle Beckerman, nella foto con Landon. Poi c’erano Danny Bolin, che è diventato elicotterista nella Air Force; Filippo Chillemi, che ha giocato in Italia con l’Olbia e il Mazzara; e infine Jordan Cila, oggi analista contabile alla Goldman&Sachs.

In Germania, a diciassette anni.

Forse è solo una storiella, però funziona bene in ciò per cui è stata concepita, cioè illustrare il livello di ingenuità di Donovan non in quanto Donovan, ma in quanto Diciassettenne Calciatore Negli States Di Fine Ventesimo Secolo: quando l’osservatore del Bayer Leverkusen lo ha contattato, sembra che LD abbia risposto: «Bayer chi? Leverkusen? Non so cosa sia».

Ambientarsi in Germania è complicato: Landon soffre la lontananza dalla famiglia, dai suoi luoghi. La madre, per farlo sentire a casa, gli spedisce pacchi di Cinnamon Toast Crunch e bottiglie di Ranch Dressing per le insalate. Il padre è felice per il figlio, perché ha avuto «la chance di fare esattamente quello che io speravo di fare». Il sentimento della madre è ambiguo e ondivago, come tutti i sentimenti delle madri. «Mi dispiace un po’ che ora consideri il calcio un business. Ho paura che un giorno possa dirmi “Mamma, perché mi hai lasciato andare?”». Ma anche: «Ho pianto per due giorni [quando il figlio ha deciso di partire, NdR]. Ma non voglio che tra qualche anno possa dirmi “Hai distrutto le mie possibilità”».

Landon gioca con la squadra riserve del Bayer: «Devo dimostrare qualcosa ogni giorno. In allenamento, sul bus, in aereo». Quando contro l’Essen segna una tripletta c’è chi lo paragona a Ulf Kirsten. «Raramente offriamo un contratto così oneroso [400mila dollari l’anno, NdR] a un calciatore così giovane; ma in ventun anni che lavoro con i ragazzi raramente ne ho visto uno con un potenziale del genere», dice Michael Reschke, direttore del settore giovanile delle “Aspirine” all’epoca, a Marc Spiegler di Sports Illustrated.

«Chiamavo la palla, i ragazzi mi vedevano ma di proposito non me la passavano». Le immagini sono di “The Finish Line”. Nella lunga intervista concessa a Spiegler dice invece: «Una parte di me pensava: te la stanno rendendo difficile perché sei americano. Non riuscivo a capire che forse mi sarei solo dovuto impegnare di più».

Il primo ritorno a casa: San José Earthquakes.

Nel 2001 il Bayer vuole provare a vedere se c’è una qualche maniera di salvare il talento del giovane Landon dalle ganasce della nostalgia. L’investimento monetario deve per forza essere controbilanciato da un investimento umano: per questo viene ceduto in prestito per una stagione ai San José Earthquakes, California, MLS.

Il ritorno a casa di Landon somiglia, più che alla parabola del figliol prodigo, a una scena da telefilm in cui il teenager abbandona il college e torna nel villaggio sperduto dell’Idaho per aiutare il padre a portare avanti la falegnameria di famiglia, mentre tutti gli altri fratelli sognano o pianificano la fuga in una metropoli.

La MLS esiste da appena un lustro, ed è alla ricerca di star - e di credibilità. L’arrivo di Donovan è così puntuale da rivelarsi essenziale. Landon è un calciatore che ha la velocità nei piedi e nel cervello. Perfetto per cambiare il senso degli yankee per il calcio.

I San José Earthquakes alzano la prima MLS della loro storia, e Landon sembra avere un progetto: «Voglio rimanere negli States, voglio essere un pioniere. Voglio provare a far salire di livello il calcio americano».

Nell'All Star Game di quell'anno (selezione dei migliori della parte Est contro quella dell'Ovest) Landon Donovan, capigliatura bionda arruffata, segna quattro reti. Dopo quella del 6-6 (sic) definitivo scimmiotta pure l’esultanza di Brandi Chastain, che nella Coppa del Mondo femminile del ’99, dopo aver segnato il rigore decisivo, si era tolta la maglia rimanendo in reggiseno sportivo.

Allo Spartan Stadium di San José, per l’MLS All Star Game 2001, le uniche stelle in area erano quelle disegnate sui dischetti del rigore, di certo non i portieri (soprattutto Nick Rimando, della selezione “East”, che pure poi ha portato avanti una carriera importante con il Real Salt Lake e la USMNT).

Ancora Bayer Leverkusen (anche se per poco).

Del suo secondo periodo al Bayer, dove torna dopo tre campionati a San José (due dei quali vinti), Donovan ricorda una scena: il capitano e veterano Jens Nowotny entrare in tackle scivolato su una giovane riserva durante un allenamento del lunedì mattina. È in quel momento che dice di aver pensato: «Forse dovrei applicarmi così anch’io». Lì, racconta, «ho smesso di giocare come una femminuccia e ho deciso di correre, di lottare».

Un vero punk.

L’impatto della personalità di Donovan sul calcio negli States ha l’irrefrenabilità e la dirompenza di un piccolo Tony Alva, uno dei pionieri dello skateboarding, che calcia palloni sul letto di una piscina vuota.

È sempre stato un ribelle, o forse uno sfigato. Non piaceva ai compagni perché gli bastava piacersi. Bruce Arena, il suo tecnico nei lunghi anni ai Galaxy ma soprattutto colui che l’ha lanciato in Nazionale di lui ha detto: «Era bravo, ma era un punk». «Il ragazzo con l’ego più smisurato del quartiere», si è autodefinito lui. Una rockstar, anche se oggi – un oggi in cui la sua carriera, in prospettiva, ha assunto sfumature cerebrali e agrodolci – viene difficile inquadrarlo in questi termini.

«Simile a Zidane? Siamo chiaramente a due livelli diversi di talento. L’unico giocatore che ricordo, che posso ricordare, semmai, è Roberto Baggio: entrambi abbiamo l’abilità di fare passaggi, creare occasioni e segnare». Un’altra caratteristica che lo accomuna a Baggio, suo malgrado, è la fragilità. Landon è stato accusato di essere troppo leggero, di non avere l’etica del lavoro più che l’ambizione per perseguire una carriera di successo. Carriera di successo che, prima dell’avvento di Donovan, faceva sempre l’occhiolino a un omissis: in Europa.

Solo il tempo (e il cambiamento dei tempi) ha saputo trasformare Donovan da wunderkind che si porta l’indice alle labbra per zittire i tifosi avversari in un saggio veterano dalla voce monocorde, mai sopra i toni, ipnotica nel suo carisma. Eric Wynalda, altra vecchia gloria yankee, lo ha definito «il Kobe Bryant del calcio americano. La gente lo ama, oppure lo odia». «All’inizio era complicato, gestire le critiche», si schermisce lui. «Ma poi mi sono fatto abbastanza zen per sopportarle». Con una calma zen del genere, a farti da corazza, nulla può scalfirti. Neppure la mossa più inattesa che ti possa venire in mente, tipo quella di annunciare il ritiro nel pieno della tua carriera.

Siamo a metà della carriera di LD, ai tempi della convivenza con Becks nei Galaxy. È un Donovan incattivito, che affonda a mani piene nel suo retroterra punk quello che prima fulmina nello scatto il difensore degli Houston Dynamo Patrick Ianni, poi lo brucia nei tempi per rialzarsi, infine lo lascia incenerito a terra sepolto sotto una coltre di lapilli e reprimenda.

Il secondo ritorno a casa, quello definitivo: Los Angeles Galaxy.

«Tutto ad un tratto sono sul palco e ricevo il premio di miglior sportivo dell’anno dalla ESPN, guardo in platea e c’è Kobe che annuisce come a dire “Ben fatto, ben fatto”. Ma che figata è?».

Nel novembre del 2012 Landon Donovan è già il più decorato calciatore statunitense di tutti i tempi. Ha vinto la MLS per la seconda volta consecutiva, la terza in totale con i Galaxy, la quinta considerando anche le vittorie del 2001 e del 2003 con i San José Earthquakes. Il miglior calciatore di un campionato nel quale la maggior parte dei suoi fan non voleva che giocasse. «Altri campionati possono sembrare attraenti, non lo nego: ma non per me. Preferisco giocare in un ambiente confortevole». C’è un passaggio di “Finishing Line” in cui Landon passeggia per Manhattan Beach con una bella ragazza, bella in maniera californiana, e un cane. A un certo punto, tra due ville, sbuca la spiaggia del Pacifico. «Vedi, in Europa questo non c’è», sussurra Landon. «Credo che la gente con me si sbagli su un punto sostanziale: non me ne frega niente di mettermi alla prova ai più alti livelli. Non è un mio obiettivo».

Eppure alle lusinghe dell’Europa ha ceduto, non tanto per dimostrare di esserne in grado a chi lo definiva troppo leggero, troppo delicato, a chi lo chiamava Landycakes (un gioco di parole con le Babycakes, morbide, femminili cupcakes presenti solo sul mercato USA e non su quello europeo), quanto per convincere in primis se stesso. Ha passato qualche mese al Bayern Monaco, dove Jurgen Klinsmann prima l’aveva fortemente voluto e poi l’ha impiegato con il contagocce. Ha giocato delle buone prestazioni in Premier League, con la maglia dell’Everton: un semestre a cavallo di due stagioni, da Gennaio a Marzo del 2009 e del 2010, quando la MLS era ferma.

Ma ha sempre sentito che il posto in cui stare, quello giusto per lui, fosse la California. «Quando dici “calcio USA” pensi alla Nazionale, ma il calcio USA è anche la MLS: finché non avremo una Lega che produce calciatori come tutte le altre nel mondo non riusciremo mai ad essere dove vorremmo». Una volta ha dichiarato: «Le partite in diurna non sono eccitanti: la gente passa il tempo a pensare cosa farà dopo. Quelle in notturna, invece: quelle sono come concerti». Quale arena migliore, allora, per lui, dello StubHub Centre, casa dei Galaxy, dove una curva è praticamente costituita da una collina dalla quale i tifosi possono godersi lo spettacolo seduti sui plaid come se fossero, appunto, a un concerto?

La 135a rete di Donovan per i Galaxy, che gli ha permesso di entrare nella storia della MLS come miglior marcatore.

Nel 2012 Donovan è già sopravvissuto all’impatto con il meteorite Beckham; con l’uomo, il calciatore e con quello che rappresentava da un punto di vista commerciale e di marketing, ovvero l’antitesi della sua concezione di crescita calcistica di un Paese. Non erano finiti i tempi in cui la MLS doveva puntare sull’eurofilia per raccogliere consensi? Non stavano iniziando a camminare con le proprie gambe? «Credevo che gli importasse fare bene, che la squadra e il campionato andassero bene». «Non mi viene in mente nessun altro ragazzo del quale abbia detto che non era un buon compagno di squadra, che non dava tutto, che non gliene fregava niente. Ma con Beckham posso dirlo: non era per niente attaccato alla maglia». Queste frasi sono state pronunciate da Donovan il giorno successivo all’ufficializzazione del passaggio in prestito di Beckham al Milan. Più in avanti Grant Wahl, che le ha raccolte, ne ha fatto un libro, parte di un libro, intitolato “The Beckham Experiment”.

Quando Beckham è arrivato sulla West Coast, Alexi Lalas – allora dirigente dei Galaxy – sembra abbia fatto leva sulla psicologia di Donovan con queste parole: «Tu sei la star della squadra. Lascia che il capitano sia lui». Ma quando Landon ha scoperto che le pressioni per Becks capitano venivano dall’entourage dell’inglese più che dalla dirigenza losangelina ha interpretato il gesto come una mancanza di rispetto.

Alla fine, l’esperimento Beckham ha funzionato più che altro su Donovan. «Pallone a parte, sono cresciuto molto come persona da quando è arrivato. L’ho osservato da vicino in tutte le cose che fa, nella gestione della leadership e come si gestisce in sé. Anche se non sempre siamo andati d’accordo, specie all’inizio, è stato una fonte di ispirazione per me». «Ho imparato molte cose importanti… ad esempio cosa dire e cosa non dire».

Dev’essere forte di questa esperienza acquisita grazie a (e nonostante) Beckham che Donovan si è presentato di fronte a Chris Klein, ex compagno di squadra e attuale membro del board dei Galaxy nel novembre del 2012. «Senti» gli ha detto «se lo faccio e poi torno e sono concentrato sarò migliore di quanto sia mai stato». Con quel “se lo faccio” intendeva dire “se mollo il pallone per un po’”. A trent’anni, e a ridosso di una Coppa del Mondo, devi avere un’altissima considerazione di te stesso per proporre un patto così rischioso, in primis per la tua carriera. Molta self-confidence, oppure chiamarti Landon Donovan. Che più o meno sono la stessa cosa.

Pausa.

A un decennio di distanza dal momento della sua vera esplosione Donovan decide di prendersi un anno sabbatico. È una mossa coraggiosa, di spessore. «Il tuo corpo sa quando è il momento di prendere una pausa: ed è ciò che il mio corpo mi sta dicendo ora». Lo annuncia alla vigilia della gara di play-off della Western Conference che avrebbe messo i Galaxy di fronte ai Vancouver Whitecaps.

«Ho bisogno di una pausa. Di prendere respiro e riposare, devo permettere al mio corpo di guarire e rinfrescarmi le idee; a quel punto sarò nuovamente eccitato all’idea di tornare a giocare». «La parte più dura da accettare è che io lo amo davvero, questo team. Amo questa città, amo giocare per questa squadra, per questi proprietari. Ci ho pensato a lungo: forse ho bisogno di qualcosa di diverso». Abbandonare il calcio prima dell’ultimo sprint delle gare di qualificazione ai Mondiali di Brasile è da pazzi, gli fanno notare. «Se quello che sto scoprendo è che non mi piace più giocare, la Coppa del Mondo è proprio l’ultimo dei miei pensieri». A quel punto della sua carriera, questo è vero, Donovan non ha più bisogno di giocare; nessuno lo obbliga. Forse ha esaurito gli stimoli. Con la Nazionale ha già disputato tre Mondiali: il quarto a cosa può servirgli? Ad aumentare la leggenda? Sul tabellone del flipper del calcio yankee, il secondo punteggio più alto dopo il suo è già distanziato di centomila punti.

«Non sarò mai utile a nessun team se gioco con metà del cuore, o all’80% della condizione fisica. Posso inserirmi nelle azioni, sì, fare il compitino; ma io non voglio fare il compitino. Voglio essere d’impatto». A trentadue anni si può essere ancora impattanti, certo, ma non se la testa è altrove.In quei frangenti Landon è un uomo complesso che gioca un gioco facile. «È la mia ultima grande possibilità. Se da un punto di vista emozionale e mentale come atleti possiamo raggiungere un livello superiore, liberarci, dopo non abbiamo più limiti. Vedo molti atleti che performano non al massimo delle possibilità perché non hanno consapevolezza di che tipo di persone sono. Sarebbero atleti migliori se parlassero con un terapista, o con qualcuno, di quello che gli succede».

Donovan negli anni ha affinato una routine pre-penalty a suo modo iconica. Accovacciato, con i gomiti sulle ginocchia e le mani giunte, ne bacia prima il palmo, poi il dorso. La sua è una meditazione, una preghiera. Poi si alza, prende la rincorsa e calcia. Nel novembre del 2012, invece, sembrava volesse rimanere accovacciato per tutto il tempo che fosse necessario, anche quando tutti i compagni, i tifosi, i magazzinieri se ne fossero andati. Da solo, accovacciato, al buio, a rimuginare.

Un nuovo inizio.

«Quando l’arbitro ha fischiato la fine della finale MLS Cup 2012 e avevamo vinto, non ero poi così elettrizzato. Ero piuttosto sollevato che fosse finita». Dall’annuncio della volontà di ritirarsi, di prendersi un periodo sabbatico e poi si vedrà, al ritorno di Donovan in campo, sono passati quattro mesi. In mezzo c’è stato un viaggio in Cambogia, perché forse i luoghi giusti per Landon non sono soltanto la California, Los Angeles, ma anche l’Est Asiatico. Là è esploso, durante i mondiali di Corea e Giappone; là si è ritrovato, dieci anni più tardi. Là ha maturato una riflessione che difficilmente abbiamo sentito esternare a un professionista all’apice della carriera: «Tendiamo troppo a stigmatizzare: essere in uno stato di difficoltà mentale non è accettabile, mentre se qualcuno sta male fisicamente gli lasciano prendere tutto il tempo che gli serve. Non è così invece per chi sta male di testa. Gli dicono “Devi lottare”, ma ci sono momenti difficili, in cui non è possibile neppure lottare». «Credo che nel nostro paese ci sia un grosso problema con tutta la questione della salute mentale, che sia un tema un po’ sottovalutato, poco pubblicizzato».

Il ritorno al calcio giocato di Donovan è strepitoso – almeno in termini di motivazioni. Certo, non è più la freccia che s’innesca nelle azioni in velocità. Ha arretrato il baricentro del suo gioco, il cervello – a forza di usarlo soprattutto fuori dal campo – è diventato più grande e importante dei piedi: ora è un playmaker con le dita nella posizione del Cristo Pantocrator. Gli riesce tutto facile, nei Galaxy come in Nazionale, con la quale disputa una Gold Cup 2013 eccezionale – fuor di agiografia, eccezionale per la mole di autorevolezza e personalità e spirito d’entertainer che ci mette: sembra che il calcio non gli sia mai piaciuto così tanto.

Segna. Serve palloni d’oro ai compagni. Dagli spalti gli tirano un paio d’occhiali e lui, dopo averli mostrati al guardalinee, prova ad indossarli. Sarebbe stato bello vedergli calciare un corner con gli occhiali da sole. Il simbolo della spensieratezza quando si incontra con la concretezza. Alla cerimonia di preparazione dei calci di rigore si è sostituita una breve rincorsa, come se la paura si annidasse nelle riflessioni troppo lunghe.

La carriera con la Nazionale.

Se c’è un aspetto affascinante della carriera di Donovan nelle squadre di club è che sembra implausibile, pura fiction se rapportata alle prestazioni con la Nazionale degli States. Voglio dire: non ti aspetteresti mai che a un tale successo internazionale a livello di selezione possa corrispondere una carriera di club così modesta. Ma forse, il mio è un punto di vista eurocentrico.

Landon ha esordito con la maglia stellestrisce (che in quell’occasione era tutta rossa) nell’Ottobre del 2000, anche se la partita non era delle più tranquille per gettare nella mischia un diciottenne: al Memorial Coliseum di L.A. gli USA affrontavano i rivali storici del Messico. Intorno alla mezz’ora Chris Henderson, uno dei reduci di Italia ’90, si infortuna: Bruce Arena fa cenno a Donovan di entrare in campo. A inizio ripresa Donovan scambia il pallone con Clint Mathis, che lascia filtrare sotto le gambe di un difensore messicano il passaggio di ritorno, lanciando Donovan dentro l’area, di fronte solo il portiere. Landon lo scarta allungandosi il pallone sulla destra, poi fa come due saltelli sulla gamba d’appoggio, la sinistra, prima di sospingere la palla in rete, venti minuti dopo il suo ingresso in campo nella gara d’esordio.

Landon scarta il portiere e la parte più difficile sembrerebbe evitare di essere travolto, smaterializzare le gambe e farle riapparire giusto al di là del portiere (poi fa quello splendido saltello che si vede meglio nel secondo replay).

Da quella sera Donovan entra nel giro dei convocati, e nel 2002 è nella rosa che partecipa al Mondiale in Corea e Giappone. Nella prima partita con il Portogallo, che gli States vincono a sorpresa per 3-2, gioca da seconda punta alle spalle di McBride. Ma già dalla partita successiva contro la Corea del Sud (finita in parità) Bruce Arena lo sposta in posizione di esterno offensivo; in quel ruolo, contro la Polonia, nell’ultima gara del girone, segna la sua prima rete ai Mondiali.

L’ostacolo successivo, agli ottavi, ha il colore dell’erba che nel giardino del vicino, calcisticamente parlando, è sempre stata più florida: ad attendere gli USA c’è il Messico, e Donovan – che sembra cominciare a trovare una costante – segna la rete del 2-0. Dos a cero, ancora una volta. Donovan finirà per diventare uno spauracchio, un bersaglio da odiare, cui gridare “puto!”, da insultare. È strano che questo destino sia capitato proprio a lui, che a Los Angeles è idolatrato da migliaia di chicanos.

Nei quarti di finale, contro la Germania, durante un’azione di contropiede si trova ad essere il giocatore più avanzato, lanciato contro i due centrali Kehl e Metzelder. Dalla fascia destra converge, salta Kehl, si sposta la palla sul sinistro, calcia rasoterra. Solo una grande parata di Kahn gli nega la rete. Poco dopo, partendo dalla fascia opposta, si trova a tu per tu con il portiere tedesco sul vertice dell’area piccola. Ancora una grande parata. La Germania alla fine vincerà con un gol di testa di Ballack, e continuerà un cammino che la porterà fino alla finale (persa poi contro il Brasile).

C’è questo spot divertentissimo del totocalcio messicano Ganagol: Landon viene smascherato da un poliziotto di piantone al confine che gli chiede «Che ci fai da questa parte?», e lui risponde «È che... vincere in Messico è più facile». Ci proverà anche dentro una taverna, salvandosi sempre un secondo prima che il poliziotto o la folla possano mettere fine alla sua carriera.

Dopo un Mondiale del genere sarebbe stato lecito aspettarsi un Donovan titolare in qualsiasi squadra di media classifica dei maggiori campionati europei. Perché non nel Bayer Leverkusen? Ha vent’anni. Il suo posto sarebbe potuto essere anche nell’orbita di qualche top club che punta molto sui giovani. A Wenger forse sarebbe piaciuto averlo all’Arsenal. Se non fosse rimpatriato, forse sarebbe arrivato ai Mondiali di Germania da protagonista, e non da capro espiatorio per l’insuccesso statunitense. Perché così è stato: sembrava che tutti i tifosi yankee pensassero all’unisono «Ecco cosa succede a voler fare il fenomeno in casa. Che non si diventa fenomeni mai».

«Il mio vero fallimento è stato nel 2006», ha raccontato in una sessione di domande e risposte alla USC nel 2013. «Ci sono state due settimane in cui ero caduto in depressione. Ho cominciato a chiedermi se il calcio facesse ancora per me».Quelli che seguono sono anni tribolati per Donovan. Divorzia dalla moglie, continua a essere criticato per non aver scelto di tentare una carriera in Europa. «Ma è meglio giocare tutte le settimane in MLS che poco o male in Europa, peggio se in Danimarca, o in Norvegia o in Svezia».

Nel 2010, ai Mondiali sudafricani, è nonostante tutto l’uomo più rappresentativo degli USA. L’anno precedente, in Confederations Cup, gli Stati Uniti sono arrivati fino alla finale. Erano in vantaggio di due reti a zero, poi il Brasile nel secondo tempo ha ribaltato il risultato. C’è chi pensa che gli States possano essere una delle sorprese, e Donovan il suo faro. Landon, però, tutto si sente fuorché primadonna: «Essere il volto della USMNT è più un fardello che un privilegio. Troppo stress».

Il Brasile è nettamente sbilanciato, e quando una squadra prende un gol del genere c’è sempre da considerarne i demeriti: però Donovan riceve un pallone sulla sua trequarti, scarica su Davies, e poi parte come una saetta per ricevere la palla di ritorno, convergere sul sinistro tagliando fuori il difensore (l’unico che ha seguito l’azione) e insaccare con un sinistro a incrociare. «Sono stato io», sembra voler ribadire nell’esultanza.

In Sudafrica gli USA sono inseriti nel girone di Inghilterra, Slovenia e Algeria: è un girone alla loro portata. Contro i britannici pareggiano in rimonta, contro la Slovenia pure (è Donovan a dare il là alla rimonta, con una rete di una potenza quasi rabbiosa, da un angolo impossibile); nella terza partita, contro l’Algeria, Landon mette in rete l’unico gol, nei minuti di recupero, che non è bello ma di certo prezioso. (La sua terza rete, contro il Ghana, non basterà agli States per scampare da un’eliminazione agli ottavi di finale).

«Ciò che abbiamo fatto è stato dare ai giovani un’emozione speciale, che possa motivarli nello scegliere questo gioco. Negli anni capiremo che quello è stato un giorno molto importante nella storica calcistica degli States», ha raccontato ricordando la rete insperata contro l’Algeria.

Il Mondiale di Brasile sarebbe potuto essere il quarto consecutivo di Landon Donovan. Jurgen Klinsmann gli ha dato l’opportunità di guadagnarsi il posto; lui l’ha ripagato segnando – ancora una volta contro il Messico – la rete che è valsa trenta biglietti aerei per Rio. Nessuno avrebbe mai potuto pensare che quella rete potesse essere l’ultima di Landon Donovan con la maglia stellestrisce.

Sulla sua esclusione dalla rosa finale della USMNT si sono fatte molte congetture e considerazioni. Da una parte c’era la paura che gli USA non potessero essere una squadra senza Donovan; dall’altra la speranza che un assioma del genere potesse essere contraddetto. Klinsmann dopotutto non è mai stato entusiasta dei calciatori che hanno scelto di giocare negli States; li ha sempre reputati poco “affamati”. O forse a non andargli a genio è stata la decisione di Landon di “mollare il calcio”, seppur temporaneamente: come se chi mette la cura di sé stesso davanti alle esigenze della squadra, dell’allenatore, della Nazione non meriti una chance.

L’annuncio dell’esclusione ha lasciato tutti increduli, Donovan in primis. «Non sono arrabbiato. Sono deluso. Ho speso la maggior parte della mia vita adulta – della mia vita in generale – a dedicarmi a questo sport in questo paese, rappresentando il mio paese. Speriamo davvero di poter giocare un’altra Coppa del Mondo. Sono stato al camp 10 giorni, credevo davvero di poter contribuire alla grande, probabilmente anche più di quanto mi aspettassi all’inizio».

La personalissima strategia di somatizzazione della delusione di Donovan è passata attraverso due spot televisivi ironici, uno per Foot Locker e l’altro per la EA Sports. In quello per Foot Locker il cestista James Harden si mostra dispiaciuto per l‘esclusione, ma Donovan risponde «Ma di che stai parlando? Come fanno a non chiamare me, sono il Capitano!». Nell’altro, si alza dal letto e passa tutta una mattinata in ciabatte a vincere Coppe del Mondo con Fifa 14, sulla playstation. Il claim della pubblicità è: “Sempre in gioco”.

L’impressione è che dietro l’apparente giocosità ci sia un mix di acredine e volontà di lanciare un paio di dure frecciate nei confronti di Klinsmann. Solo così mi viene da interpretare il sopracciglio alzato, ammiccante, dopo la scena in cui il suo avatar virtuale alza la Coppa del Mondo sotto i fuochi d’artificio.

«Guardare tutte le partite in tv è stato tremendo», dice in un momento molto intimo di “The Finish Line” in cui racconta come gli sia sembrato di rivivere una scena della sua infanzia, quando sua madre, una volta, gli aveva proibito di giocare la partitella settimanale con gli amici per via di una marachella che aveva combinato, e per fargli pesare ancora di più la punizione lo aveva comunque portato al campo a guardare gli altri divertirsi. Stavolta, però, dice Donovan, non se lo meritava davvero. «So che Klinsmann, nel profondo del suo cuore, sapeva che dovevo esserci anche io, in quei 23».

Conclusioni.

L’esclusione di Donovan dal roster per i Mondiali brasiliani è stata un duro colpo per un’intera generazione di tifosi americani, che sotto il regno di Landon hanno visto sbocciare una squadra competitiva, un campionato credibile, sono stati testimoni di come il calcio potesse farsi largo tra i giovani come sport dotato di appeal. Donovan è stato, è e sarà la faccia del calcio USA, della MLS, della Nazionale, al di là dei numeri. La costante negli ultimi tre lustri di storia del soccer.

Nel mese di ottobre del 2014 ha disputato la sua ultima partita con la Nazionale. La gara d’addio. Lui non voleva neppure giocarla. Poi ha ceduto, credo perché in qualche modo sentisse di dover ripagare tutto l’affetto che i tifosi, anche i più insospettabili, gli hanno dimostrato negli anni. Prima del match contro l’Ecuador gli hanno regalato una maglia che era un patchwork di tutte le maglie degli Stati Uniti che ha avuto l’incombenza e l’onore di indossare. In quel collage – tenuto insieme con i fili dell’affetto, della memoria e del patriottismo – c’era tutta la cronistoria di una maniera di intendere il pallone da parte di una Nazione intera.

Nel suo ultimo match non ha segnato, ma ha colpito un palo, e quando è stato sostituito – scatenando l’immancabile ma per nulla scontata e banale standing ovation – non si è neppure andato a sedere in panchina, ma ha raggiunto gli American Outlawz, il gruppo più nutrito e appassionato del tifo statunitense, in curva.

La personalissima maniera di Landon Donovan di dire (e forse dirsi) grazie.

Con i Los Angeles Galaxy ha raggiunto ancora una volta la finale di Western Conference, dando il suo contributo (con una tripletta) nella vittoriosa semifinale contro i Real Salt Lake dell’amico Kyle Beckerman. Di lì in poi è avanzato per inerzia, più preoccupato di non perdere, forse, di non disattendere il copione, che altro. Battere i Seattle Sounders, la miglior squadra della Regular Season non solo sulla costa Ovest, avrebbe significato trovarsi la strada spianata verso il successo: il quinto per i Galaxy, il sesto personale per Landon. Quasi un terzo di tutte le edizioni di MLS disputate dall’anno della sua fondazione.

Quando la dissolvenza in uscita è quasi compiuta, ogni cosa intorno è luminosissima. «Quando questa Lega è stata creata, è stato basandosi sul principio dell'uguaglianza. E la Lega fa tutto in suo potere per garantire questa uguaglianza», ha dichiarato Landon dopo la vittoria di domenica notte. «Quindi se una squadra vince tre campionati su quattro è qualcosa di speciale. Non siamo il Manchester United, o il Chelsea, la nostra squadra gioca con le stesse regole delle altre.»

L’estate scorsa, mentre ero a New York, ho visto in televisione Donovan ricevere come tributo alla longevità della sua carriera un seggiolino dell’ex DC Stadium di Washington, dismesso durante il rinnovamento in RFK Stadium. (Solo ora, a ripensarci, mi sembra un gesto poco elegante, sebbene molto americano, avvolto da un’aura di rottamazione). Il seggiolino, ovviamente il numero dieci, recava incisa una placca: «A Landon Donovan: ti dedichiamo questo pezzo di storia del calcio americano per onorare il tuo posto nella storia del calcio americano».

Ogni volta che mi affacciavo dalla finestra della mia stanza d’albergo, di fronte al Madison Square Garden, avevo la visuale parzialmente coperta da una gigantografia deputata a celebrare l’addio, che in quei giorni si stava concretizzando, di Derek Jeter dagli Yankees. Il numero 2, il numero di Jeter, era trasfigurato in una zeta, o in una esse al contrario, nella parola che sovrastava una sua foto: RE2PECT.

Ricordo di aver pensato che semmai avessero deciso di preparare una gigantografia del genere per Donovan, la parola da usare come motto sarebbe dovuta essere una parola che inizia e finisce con le iniziali del suo nome e cognome, come un tutt’uno concluso e didascalico allo stesso tempo: Legend.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura