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The mess in Atlanta
10 ott 2014
Come due mail razziste hanno sconvolto il progetto di rilancio degli Atlanta Hawks, e cosa vorrà dire questa brutta storia per il futuro dell’NBA.
(articolo)
21 min
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Nel calendario NBA, settembre è in assoluto il mese più morto di tutti. La stagione è ancora molto lontana, l’eco dell’estate e dei movimenti di mercato è già finito da un pezzo e soprattutto l’attenzione degli americani è rivolta al football NFL, che proprio in quel mese riapre i battenti conquistando le prime pagine e le home page di tutti i media tradizionali e non.

Lo scorso mese di settembre, però, è accaduto un fatto che non ha avuto neanche lontanamente lo spazio che si sarebbe dovuto prendere, specialmente in questo periodo storico della NBA.

Dei fatti principali avrete probabilmente letto di sfuggita da qualche tweet: gli Atlanta Hawks – media squadra della mediocre Eastern Conference che gioca in un mercato di medie dimensioni con risultati medi – avranno presto un nuovo proprietario dopo che l’investitore principale del gruppo di proprietari, Bruce Levenson, ha ammesso di aver scritto nel 2012 una mail dal contenuto razzista. Poco dopo, è venuto a galla che anche il GM della squadra, Danny Ferry, ha usato epiteti razzisti nei confronti di un potenziale acquisto di origini africane nel corso di una conference call di lavoro.

Nell’era del post-Sterling, una headline del genere avrebbe potuto trasformarsi in una storia molto succosa per i media tradizionali: c’è razzismo, ci sono soldi, ci sono lotte di potere, ci sono teste che saltano.

Invece, per qualche motivo, a un mese di distanza, non se ne parla già più.

Ma cos’è successo ad Atlanta?

LA STRANA STORIA DEL MOSTRO A OTTO TESTE

Nel 2004, tre gruppi di investitori accomunati sotto il nome di Atlanta Spirit LLC acquistano gli Atlanta Hawks (NBA), gli Atlanta Thrashers (hockey NHL) e la Philips Arena per 250 milioni di dollari complessivi dalla Turner Broadcasting System, società che fa riferimento alla TimeWarner del tycoon dei media Ted Turner. L’Atlanta Spirit LLC, ora conosciuta semplicemente come Atlanta Hawks LLC, è formata inizialmente da tre gruppi di investitori divisi per la città di provenienza: il gruppo di Boston (che fa riferimento a Steve Belkin), il gruppo di Washington D.C. (che fa riferimento a Bruce Levenson, insieme ai soci Ed Peskowitz e Todd Foreman) e il gruppo di Atlanta, ancora legato a Ted Turner (oltre al figlio Beau Turner, sono presenti il genero J. Rutherford Seydel, l’ex general manager e chairman degli Hawks Michael Gearon Sr. e un altro ex presidente della squadra, Bud Seretean, poi deceduto nel 2007), più altri 5 soci minori che però non fanno parte del consiglio direttivo.

Questo gruppo di proprietari, uno strano caso di “Mostro a Otto Teste”, come sempre accade inizia quasi subito a litigare. Nel 2005 il capo esecutivo degli Hawks è nominalmente Steve Belkin, ma il rappresentante del gruppo di Boston ritiene che la squadra abbia commesso un errore nel dare così tanto (Boris Diaw e due prime scelte al Draft, poi diventate Rajon Rondo e Robin Lopez) per prendere Joe Johnson da Phoenix, e prova a bloccare lo scambio. Gli altri due gruppi di proprietari – guidati da Bruce Levenson e Michael Gearon Jr., figlio dell’investitore originario e subentrato al padre nelle decisioni riguardanti la franchigia – glielo impediscono e lo fanno destituire dal suo incarico, dando vita a una battaglia legale che si concluderà solo cinque anni più tardi, nel 2010, quando gli altri due gruppi acquisteranno le azioni possedute da Belkin, pari al 30% dell’Atlanta Spirit LLC.

Gli Hawks, però, hanno un chiaro problema a farsi accettare dalla città di Atlanta: nonostante la squadra vada ai playoff continuativamente dal 2007 (la seconda striscia più lunga in NBA dopo quella degli inarrivabili Spurs), il numero di tifosi alla Philips Arena cresce pochissimo, arrivando al massimo al 18° posto nella Lega nel 2010 con 16.545 spettatori di media (dichiarati, che poi siano effettivi è un altro discorso). I tifosi di Atlanta, che pure ha un’ottima base di tifosi per la squadra di football NFL, i Falcons, rimangono sempre piuttosto tiepidi nei confronti del basket e di quella squadra in particolare, che diventa l’epitome di dove una franchigia NBA non dovrebbe mai trovarsi: troppo forte per non fare i playoff tutti gli anni, troppo debole per superare (o quantomeno dare battaglia) al secondo turno. La “middle of the road” che tutti cercano di evitare, perché in NBA conviene o essere fortissimi, oppure perdere il più possibile per provare a prendere una futura superstar al Draft.

A quel punto, visti i risultati sportivi non entusiasmanti e quelli finanziari tendenti al rosso, il gruppo cerca di vendere: ci riescono con i Thrashers della NHL nel 2011 (ora si sono trasferiti in Canada, dove sono diventati i Winnipeg Jets) per 110 milioni di dollari, ma falliscono nella cessione degli Hawks all’investitore e fondatore della catena “La Pizza Loca”, il californiano ed ispanico Alex Meruelo (che era spalleggiato dall’unica vera leggenda della storia degli Hawks e figura ancora popolarissima tra i tifosi, Dominique Wilkins). Un affare da 300 milioni di dollari che viene bloccato dalla NBA per mancanza di coperture finanziarie in un periodo – quello del lockout – piuttosto particolare per i proprietari per motivi troppo lunghi da spiegare.

Quindi Levenson, Gearon e soci si ritrovano tra le mani un prodotto che non funziona, non attrae gente al palazzo e non è nemmeno così vincente in campo, senza contare che fanno anche fatica a vendere la franchigia a compratori degni di questo nome. Nel 2011 Forbes li piazza al 23° posto nella classifica del valore delle franchigie a 295 milioni, sottolineando anche i costi operativi in perdita per 7 milioni, che in un business come quello della NBA non è la regola.

È chiaro a tutti che c’è bisogno di una svolta nella gestione della franchigia, e il nome buono per Levenson è quello di Danny Ferry.

IL SALVATORE DEL BASKET AD ATLANTA

Danny Ferry è uno dei più apprezzati dirigenti della NBA: suo padre, Bob Ferry, è stato prima giocatore NBA e poi GM degli Baltimore Bullets, e lui ha ripercorso le sue orme prima segnalandosi a Duke University come uno dei migliori giocatori del paese e poi diventando giocatore professionista, prima qui da noi in Italia, al Messaggero di Roma (1989/90), e poi per 13 anni in NBA. Dopo la fine della carriera, è stato GM dei primi Cavs di LeBron James (dove in realtà non andò benissimo, nonostante la crescita della squadra) e per due volte assistente GM dei San Antonio Spurs, la più grande, tentacolare, rispettata (e anche un po’ temuta) fucina di dirigenti della Lega. Quando viene contattato da Levenson per il posto agli Hawks, però, ha dei dubbi: a San Antonio si trova bene, ma soprattutto non è convinto di Gearon Jr. e del Mostro a Otto Teste a cui dovrà fare riferimento. Levenson lo convince con la classica “offerta che non si può rifiutare”: sei anni di contratto a 18 milioni di dollari, carta bianca per fare piazza pulita sia nel roster che nella franchigia e la rassicurazione che dovrà riferire delle sue scelte solo al gruppo di Washington, ovvero a Levenson stesso. Il 25 giugno 2012, Ferry firma.

Il suo inizio ad Atlanta è senza mezzi termini eccezionale: nella sua prima estate riesce nell’impresa di cedere il gigantesco contrattone di Joe Johnson a Brooklyn e il deludentissimo Marvin Williams a Utah in cambio di paccottiglia (leggi: contratti corti di giocatori che non servono e vengono tagliati, liberando il salary cap), due mosse che la tifoseria auspicava ormai da anni. L’estate successiva le sue mosse più importanti sono l’assunzione di Mike Budenholzer come head coach (anche qui, scuola Spurs), la non ri-firma di Josh Smith (altro talentone mai del tutto espresso e ormai inviso ai tifosi) e la straordinaria firma di Paul Millsap con un biennale da 19 milioni, chiaramente il colpo più sottovalutato dell’estate NBA (l’anno scorso fu All-Star).

In giro per la Lega si inizia a parlare con toni lusinghieri del progetto “Spurs East”, ovvero di ricreare il modello dei San Antonio Spurs nella Eastern Conference, prendendo spunto (leggi: copiando) dalla franchigia NBA più vincente degli ultimi 15 anni sia per lo stile di gioco (con Budenholzer, assistente storico di Gregg Popovich, in panchina) che per la cultura di squadra. E funziona: a Natale la squadra è terza nella (orrida) Eastern Conference, prima che la stella della squadra, Al Horford, si faccia di nuovo male ai muscoli pettorali, rimanendo fuori per il resto della stagione. Senza il loro lungo di riferimento sotto canestro gli Hawks crollano, ma raggiungono comunque l’ottavo posto a Est e danno filo da torcere ai ben più quotati Indiana Pacers al primo turno di playoff, venendo eliminati solo alla settima partita.

Ma, parafrasando “The Social Network”, non arrivi ad avere così tanto successo senza farti qualche nemico. Il nemico, oltretutto, è interno e si chiama Michael Gearon Jr., che di fatto con l’arrivo di Ferry viene fatto fuori dalle posizioni che contano: le quote maggioritarie della franchigia (precisamente il 50.1%) sono in mano a Levenson e al gruppo di Washington, che quindi detiene il potere decisionale; mentre la parte sportiva è tutta nelle mani di Ferry che, dopo aver stravolto il roster, procede nel ripulire la franchigia anche nelle posizioni più importanti.

La vittima più illustre è Arthur Triche, direttore afro-americano delle PR da lunghissimo tempo agli Hawks e amico intimo della famiglia Gearon, che viene licenziato e sostituito con un uomo di fiducia di Ferry, che oltretutto nel corso della sua gestione procederà ad accantonare alcuni (non meglio precisati) ex giocatori degli Hawks. Il rapporto tra Gearon e Ferry, che già non iniziava sotto la migliore stella, si fa sempre peggiore, fino ad arrivare agli eventi che sono diventati di dominio pubblico nel mese di settembre.

LA MAIL DI LEVENSON

La mattina dello scorso 7 settembre, con un comunicato, Bruce Levenson annuncia improvvisamente che venderà le sue quote azionarie della Atlanta Hawks LLC. Il motivo è una mail scritta nell’agosto del 2012 nella quale, discutendo con Danny Ferry e altri due investitori della squadra riguardo all’incapacità di riempire la Philips Arena e di portare alle partite “maschi bianchi tra i 35 e i 55 anni”, ha espresso “supposizioni e cliché riguardo gli interessi dei nostri tifosi (ovvero hip hop vs musica country, cheerleader bianche vs nere, etc.) e stereotipizzando le percezioni degli uni verso gli altri (cioè che i tifosi bianchi possano essere impauriti dalla presenza di quelli neri)”. La mail incriminata viene allegata direttamente nel comunicato, nel quale oltre alle scuse di rito viene annunciata totale collaborazione con la NBA, come confermato dal commissioner Adam Silver, che condanna la mail ma riconosce la buona volontà di Levenson nel riportare di sua volontà il misfatto alla Lega.

Senza entrare nel merito del contenuto della mail – su cui però si è esposto un membro importante della comunità nera della NBA come Kareem Abdul Jabbar, sottolineando come la lettera non sia poi così razzista, la vera domanda è: come si è arrivati alla scoperta di quella lettera due anni dopo averla scritta? E perché salta fuori proprio ora?

Stando a quanto dichiarato e sostenuto pubblicamente sia da Levenson che da Silver, è stato lo stesso proprietario a dichiararsi “colpevole” davanti alla Lega e a riportare egli stesso il suo misfatto. È plausibile che sia andata veramente così, con Levenson a dire ‘Ehi, ho scritto questa cosa razzista nel 2012, mi voglio costituire e vendere la franchigia’? Per alcuni no, tanto è vero che una voce all’interno degli uffici della NBA definisce come “Semantics” il fatto che sia stato Levenson ad ammettere la sua colpevolezza, velatamente suggerendo che sia stato costretto a farlo per evitare guai peggiori, o che abbia avuto interesse a far uscire questa cosa per vendere la franchigia e guadagnare centinaia di milioni di dollari (d’altronde, voleva già vendere tre anni fa).

Anche qui, i tempi della “ammissione di colpevolezza” sono più che sospetti: è circa fine luglio quando la Lega viene a conoscenza della mail e da qualche settimana è noto che sono in giro “i cagnacci di Sterling”, un pool di investigatori privati guidati da Bobby Samini, avvocato difensore dell’ex proprietario dei Los Angeles Clippers (protagonista solo qualche mese prima di un enorme scandalo a sfondo razzista ancor più torbido di questo). I cagnacci sono tutt’ora alla ricerca di prove riguardanti gli altri proprietari NBA (“Con i parametri utilizzati da Silver, c’è roba razzista nel passato di tutti” dice Samini), e per quanto l’avvocato non si sia voluto prendere i “meriti” dell’uscita allo scoperto di Levenson, è probabile che la presenza degli investigatori stesse mettendo paura a tutte le dirigenze in giro per la Lega, come testimoniato dal sempre attentissimo (e ben informato) Adrian Wojnarowski di Yahoo!.

I tempi di pubblicazione della storia, poi, sono più che sospetti: innanzitutto viene fatta uscire la mattina del 7 settembre, che guardando sul calendario sembrerebbe una domenica come tutte le altre, ma non è una domenica come tutte le altre: è la prima domenica di football NFL e l’attenzione (sportiva, ma non per forza) degli States è tutta per le partite della Week 1. Della NBA in generale, e degli Atlanta Hawks in particolare, non frega nulla al grande pubblico in quella specifica giornata, quindi Levenson e la NBA hanno artatamente programmato l’uscita dello scandalo in un momento in cui l’opinione pubblica era “distratta” su altro.

E poi, soprattutto, perché proprio ora una cosa successa due anni fa? Il motivo è presto spiegato: la mail è rispuntata fuori a seguito un’indagine interna avviata da Levenson e affidata alla Alston & Bird Law Firm di Atlanta, che ha scandagliato oltre 24.000 documenti tra le comunicazioni interne ed esterne della franchigia. È a questo punto però che sorge la domanda: perché si è arrivati a dover affidare ad uno studio legale un’indagine su potenziali problematiche razziste all’interno della franchigia? Qual è la causa scatenante? La risposta, anche qui, si scopre qualche giorno dopo, e ha come protagonisti i due nemici, Danny Ferry e Michael Gearon Jr.

LO SCOUTING REPORT DI FERRY

È un venerdì pomeriggio di inizio giugno quando Danny Ferry si siede alla sua scrivania per partecipare ad una conference call con il Mostro a Otto Teste. Odia doverlo fare, ma è nei suoi obblighi riferire come si sta muovendo il front office riguardo all’incombente mercato dei free agent che inizierà di lì a poco meno di un mese, elencando pregi e difetti dei potenziali nuovi acquisti. Procedura nella norma ai piani alti NBA, ma che Ferry vorrebbe sbrigare il più in fretta possibile perché odia (Gearon) o non rispetta (gli altri proprietari tranne Levenson) i suoi interlocutori.

Vuoi per la fretta di levarseli di torno, perché non si rende conto che quello che dice può essere male interpretato oppure (e questo è uno dei punti irrisolti della questione) perché quel modo di parlare è standard in situazioni del genere, fatto sta che descrivendo il possibile acquisto Luol Deng – giocatore di origini sudanesi con un recente passato da All-Star e enormemente rispettato all’interno della NBA – usi queste precise parole (l’audio incriminato si può ascoltare qui):

In generale è un bravo ragazzo, ma non è perfetto. Ha qualcosa di africano in lui. E non lo dico in maniera cattiva… A vederlo da fuori sembra un bellissimo negozio, ma potrebbe vendere materiale di contrabbando nel retro. Ad esempio, potrebbe essere la fonte anonima di una notizia e due anni dopo uscire e dire: ‘Non ero assolutamente io, non posso credere che qualcuno lo abbia detto’, ma quando poi parli con il giornalista scopri che è veramente stato lui”.

Queste parole fanno riferimento a un report acquisito da una fonte esterna agli Hawks (un ex impegato dei Cleveland Cavs, e per le cose che si leggono scritte sul report pubblicato online si potrebbe ricondurre all’ex GM Chris Grant) e, stando alla versione iniziale di Ferry, lui si sta limitando solo a leggere pedissequamente quanto c’è scritto. Ascoltando l’audio, però, viene difficile credere a questa versione dei fatti: sembra piuttosto che abbia sì il report sottomano, ma che poi rielabori le informazioni con parole sue, quindi effettivamente dicendo quelle parole e non citando qualcun altro, come io sto ad esempio facendo con le informazioni acquisite in giro per il web per scrivere questo pezzo. Ciò significa che Ferry è responsabile di quello che dice in quella conference call, e sostenere che “avere qualcosa di africano” voglia dire essere un doppiogiochista e una persona di cui non ci si può fidare è sicuramente un commento razzista. Questo ha un peso decisivo per quello che succederà poi.

La sfortuna di Ferry è che dall’altro capo di uno dei telefoni Gearon sta registrando tutto. Lo sta facendo per tenere informati alcuni partner che non avrebbero potuto partecipare alla call, ma si rende subito conto di quello che Ferry ha appena detto, tanto è vero che di sottofondo si sente qualcuno sussurrare "O mio Dio, quel commento sembra uscito da Sterling su TMZ” non appena Ferry pronuncia quelle parole su Deng. Non gli pare vero: finalmente Ferry ha commesso un errore e ha in mano una prova che potrebbe farlo fuori dalla franchigia.

Passa meno di una settimana (e un paio di incontri con degli avvocati e giudici di Atlanta) prima che si metta all’opera: il 12 giugno manda una mail a Levenson chiedendo la testa di Ferry e scrivendogli chiaramente che “quei commenti sono ben peggiori di quelli di Sterling perché non sono stati fatti in una conversazione privata, ma in un ambiente di lavoro con una dozzina o più persone collegate. Se Ferry esprime insulti del genere in una situazione semi-pubblica, possiamo solo immaginare cosa faccia in colloqui individuali”, aggiungendo che “la diversità razziale all’interno del nostro management è peggiorata da quando Ferry è stato assunto” (e qui il riferimento è chiaramente all’amico afro-americano Arthur Triche, licenziato due anni prima).

È a questo punto viene fatta scattare l’indagine interna agli Hawks e ritorna a galla la mail di Levenson, di cui però il buon Gearon ai tempi non fu altrettanto oltraggiato: la risposta a quella mail, infatti, fu solo uno stringato “Sono stati incasinato stamattina, ora non posso rispondere… ci sentiamo dopo”. Neanche la minima traccia dell’indignazione mostrata per le parole di Ferry. Evidentemente qualcosa dev’essere cambiato negli ultimi due anni...

EXIT STRATEGY

A mio modo di vedere, a questo punto Levenson cerca di avviare una exit strategy ben precisa: posto che i contenuti di quella mail e di quei commenti sarebbero prima o poi diventati di dominio pubblico (Gearon lo scrive nella sua lettera, velatamente “minacciandolo”), la sua idea è di prendersi tutte le responsabilità e cercare di “coprire” Ferry, che avrebbe potuto mantenere il suo posto alla guida della squadra e continuare il suo ottimo lavoro nella costruzione dei “Spurs East”, puntando sulla versione per cui Ferry abbia solamente citato il report senza realmente condividere quei commenti (cosa che, come abbiamo visto, è un po’ traballante dopo la condivisione dell’audio, probabilmente fatto trapelare all’Atlanta Constitution-Journal dallo stesso Gearon).

Per questo la notizia viene fatta uscire in un periodo morto della stagione (inizio settembre), con l’America interessata alla NFL e – per loro grande fortuna – successivamente coinvolta nell’enorme scandalo delle violenze domestiche di alcune sue stelle e le relative nefandezze del commissioner NFL Roger Goodell. Di questa storia non si interessa praticamente nessuno, né nei grandi media né nell’opinione pubblica — d’altronde gli Atlanta Hawks non interessano nemmeno ai cittadini di Atlanta… — e questo, nell’era post-Sterling, fa enorme gioco sia all’NBA che alla proprietà, evitando ad entrambi un nuovo scandalo a sfondo razzista. I media si dimostrano molto più interessati al fatto che la NBA ha appena firmato un nuovo contratto televisivo che porterà 24 miliardi di dollari nei prossimi 9 anni, cosa che non fa che aumentare il valore di mercato delle sue franchigie. “Non c’è mai stato un momento migliore per essere proprietari in NBA”, come detto dall’owner degli Wizards Ted Leonsis. Essendo le squadre solamente 30, quando una di queste diventa disponibile i grossi investitori ci si buttano a capofitto, come dimostrato dai 2 miliardi di dollari pagati dall’ex CEO di Microsoft Steve Ballmer per i Clippers.

È anche per questo particolare momento storico della NBA che Levenson gioca d’anticipo, “costituendosi” davanti alla Lega e concordando con loro una strategia per limitare il più possibile i danni, forte del fatto che ne uscirà con parecchi soldi (stimabili in non meno di 700 milioni per la totalità della franchigia, quindi la metà andranno a lui) nonostante il danno d’immagine. Gli è riuscito anche, se è mai stato un suo obiettivo, di impedire che la squadra passi di mano e diventi proprietà di Gearon: la NBA non può costringere il gruppo di Atlanta a vendere le sue quote, ma si rumoreggia che quanto fatto da Gearon non sia piaciuto per nulla ai piani alti dell’Olympic Tower. D’altronde, Gearon ha infranto una regola sacra della NBA: “quello che succede al nostro interno, rimane al nostro interno”. Se rendi pubblico il modo in cui si fa business in un’ambiente ultra-conservatore come quello NBA, ne paghi le conseguenze, anche (o forse soprattutto) se fai sapere che si usano epiteti razzisti all’interno dei front office (perché se pensate che Ferry sia l’unico a parlare in quel modo in NBA siete decisamente sulla strada sbagliata). Gearon, forse accecato dall’odio per Ferry, ha corso il rischio e ora si ritrova Adam Silver contro.

Quello che non è riuscito a Levenson, in compenso, è il colpo alla “Cavaliere Oscuro”. Come Batman alla fine di “The Dark Knight” si prende la responsabilità dei crimini di Due Facce per salvare l’immagine idealizzata di Harvey Dent, allo stesso modo Levenson avrebbe voluto coprire i commenti di Ferry per permettergli di mantenere la sua immagine di “salvatore degli Hawks” e tenerlo al suo posto. E dire che per il general manager si era esposto in prima persona anche il commissioner Adam Silver, che come Ferry viene da Duke University e ha dichiarato che “in base alla mia conoscenza delle circostanze, quei commenti da soli non sono meritevoli del licenziamento”. Nonostante le scuse di rito espresse a tutti, e in particolare verso Luol Deng, nelle scorse settimane Ferry si è preso un’aspettativa a tempo indeterminato dal suo lavoro di GM degli Hawks, lasciando tutto in mano al coach Mike Budenholzer e al CEO (e socio di minoranza della squadra) Steve Koonin. E i suoi giorni in NBA sembrano destinati ad essere finiti.

RIPERCUSSIONI

Non si può dire che in questa storia ci sia qualcuno che davvero ci ha guadagnato, ma solo chi ci ha perso di meno. Chi ha perso meno di tutti è sicuramente Levenson, che venderà la franchigia a una cifra ben superiore del doppio di quanto già pattuito tre anni fa con Meruelo e, per quanto il contenuto della mail rimarrà per sempre il primo risultato di Google alla ricerca “Bruce+Levenson+Hawks”, si può affermare che tutti si saranno dimenticati presto di questa storia (anzi, è già successo ed è passato solo un mese). Anche Gearon, che a quanto pare non intende vendere le sue quote azionarie, ne esce bene, rimanendo all’interno di un mondo i cui guadagni si prospettano come enormi nei prossimi anni.

Ad uscirne piuttosto bene, date anche le circostanze complicate dell’era post-Sterling, è la NBA, anche se la posizione di Adam Silver sulla vicenda non è del tutto chiara (se la tolleranza per il razzismo è e deve essere zero, perché dire che le parole di Ferry non meritano il licenziamento? È un favore personale ad un amico?) e, soprattutto, potrebbero esserci ulteriori casi simili in futuro, vista la presenza dei cagnacci di Sterling a caccia di prove per incastrare altri proprietari. Viene da chiedersi come avrebbe risposto la NBA se tutto questo fosse successo in altri momenti della stagione (attorno all’All-Star Weekend, ad esempio), ad altri proprietari più in vista (Mark Cuban tanto per citarne uno), mercati più grandi (come New York o Chicago) o squadre con superstar a roster (Cleveland per dirne una molto in vista in questo momento), ma questo è un discorso ipotetico troppo complicato da affrontare ora.

A uscirne male è sicuramente Danny Ferry, i cui giorni in NBA potrebbero essere finiti: se anche per caso i nuovi proprietari degli Hawks decidessero di ri-affidagli le sorti della franchigia, quali free agent sceglierebbero di andare ad Atlanta? E allo stesso modo, se un’altra squadra lo prendesse, con che coraggio un giocatore afro-americano sceglierebbe “la squadra del razzista” invece di un altra, a parità di condizioni? La NBA è un mondo spietato e basta un singolo errore per venire etichettati: Danny Ferry lo sa, e per quanto si sia dimostrato un ottimo GM nei suoi due anni agli Hawks, viene difficile pensare di poterlo rivedere con incarichi importanti.

Ad esprimere meglio di tutti questo concetto ci ha pensato Carmelo Anthony: “Non c’è nessuno che vorrebbe andare lì. Parlo a nome di tutti gli atleti: non prenderei mai in considerazione un ambiente in cui si fanno quei commenti. Come destinazione per i free agent, Atlanta si trova ancora più indietro ora come ora”.

Ecco, a uscirne peggio di tutti sono sicuramente gli Atlanta Hawks e i suoi tifosi: le cose sembravano andare per il verso giusto e la squadra era finalmente in mani capaci, ma questa storia potrebbe avere effetti destabilizzanti troppo grossi per continuare quanto di buono era già stato fatto. Ci vorranno anni per ricostruire una reputazione nella NBA, e non è che quella precedente fosse chissà che: una delle stelle attualmente in squadra, Kyle Korver, dichiarò in tempi non sospetti che “quando sono stato scambiato agli Hawks [nel 2012] non ne fui felice, perché quello che sapevo era che c’era una brutta cultura, nessun tifoso e nessun entusiasmo in città”. Se già questa è la reputazione della squadra, immaginatevela ora dopo tutto questo.

Come detto sul blog degli Hawks su SB Nation riguardo all’era di Danny Ferry “It’s Over". Ma per la NBA potrebbe essere solo l’inizio di molti casi simili nel prossimo futuro.

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