«Ho provato tristezza», ha detto Robert Lewandoski dopo che il Pallone d’Oro 2021 era stato assegnato a Lionel Messi. Ma c’è un altro giocatore che ha provato sentimenti diversi, diciamo più vendicativi. Thomas Müller ha scritto su LinkedIn - il suo social preferito, su cui commenta l’attualità sportiva, condivide citazioni di Albert Einstein e sondaggi in cui lui è il calciatore più amato in Germania - che dal punto di vista «bavarese, polacco e tedesco» era stato un risultato deludente. «Mi ricorda quello che è successo con Ribery nel 2013», ha detto poi. «Il che mi motiva maggiormente a riportare la Champions League a Monaco di Baviera per mostrare a tutto il mondo quanto vale il calcio tedesco. E la prima opportunità sarà la partita con il Barcellona della settimana prossima». Alla fine di quel post piuttosto lungo si è complimentato comunque con Messi, aggiungendo di nuovo prima di chiudere «che Robert Lewandoski lo avrebbe meritato di più quest’anno. Che ne pensi?».
Il fatto che Thomas Müller prenda sul personale un mancato riconoscimento a un suo compagno è significativo della sua capacità di fondersi e fare tutt’uno con il contesto di squadra, fino quasi a non distinguere tra sé e gli altri, e di come si senta responsabile della percezione che il mondo ha del Bayern Monaco e del calcio tedesco in generale. A ben guardare, non c’è nessun altro giocatore che meglio di lui - dei suoi cambiamenti, della sua capacità di adattare un calcio verticale e intenso a uno che ha introiettato la lezione di Guardiola - che possa rappresentare gli ultimi dieci anni di calcio in Germania e, forse, in Europa. La partita col Barcellona, successiva alla cerimonia del Pallone d’Oro, il Bayern l’ha vinta 3-0, eliminando i catalani dalla competizione durante la fase del gruppo per la prima volta dopo vent’anni.
Thomas Müller ha segnato il gol del vantaggio, colpendo di testa goffamente sul secondo palo - nelle foto del gol sembra che una navicella aliena lo stia sollevando con un raggio invisibile, e che faccia parecchio male - alzando la palla in un campanile che pare un tiro a canestro, che Lenglet toglie dalla porta un attimo dopo che ha superato la linea. Era il suo cinquantesimo gol in Champions League e lui lo ha festeggiato come fosse stato il primo, o l’ultimo, come sempre fa, con le ginocchia piegate e le gambe larghe, i pugni stretti e la bocca spalancata in un’espressione diabolica. «I love play against Barça», ha twittato poi, prima di cancellare il tweet perché, forse, anche uno come Müller in fondo si preoccupa di non apparire troppo antipatico.
«Se ci fosse del buono in lui le sue esultanze non sarebbero così orribili». Nella newsletter Heat ‘Em Up, purtroppo non più attiva ma che ho conservato gelosamente e ogni tanto mi vado a rileggere, Ayan Meer paragonava, ironicamente ma neanche troppo, Thomas Müller all’anticristo. «Se un infante vedesse Müller giocare si coprirebbe istintivamente la faccia e si rannicchierebbe impaurito alla vista di questa incarnazione di Satana». Che ci sia qualcosa di diabolico in Müller, d’altra parte, è quasi oggettivo. Un calciatore così forte eppure così poco dotato tecnicamente, che ha vinto così tanto (dieci campionati, due Champions, un Mondiale, una Scarpa d’Oro della Coppa del Mondo) senza apparentemente avere niente di speciale, deve per forza aver fatto il patto col diavolo, altrimenti non si spiega. E poi basta guardarlo, Müller è scoordinato, sempre un po’ storto, fuori equilibrio, con i polpacci troppo piccoli persino per tenere su i calzini, la sua efficacia sembra davvero magica, un sortilegio.
Dopo la partita con il Barcellona, come spesso fa commentando le vittorie, Müller ha parlato dell’intensità, sua e del Bayern, che il Barça non è in grado di sostenere, e che fa la differenza tra una squadra a cui «non manca niente dal punto di vista tecnico e tattico» e le squadre parte dell’élite europea. Anche nell’agosto del 2020, dopo aver battuto il Barcellona 8-2 e aver ricevuto il premio come Man Of The Match, per provare a spiegare razionalmente cosa fosse successo quella sera, Müller ha parlato dell’aggressività della sua squadra. Si tratta di intensità e aggressività fisiche, il cui presupposto sta nella preparazione tattica collettiva, ma è anche una questione mentale per Müller - oltretutto il sostantivo “satan” di origine ebraica significava proprio aggredire, sarà un caso?
Una concentrazione totale, un’elettricità continua che passa attraverso il suo sistema nervoso e lo spinge a muoversi continuamente, a guardarsi attorno, a spostarsi magari di poco, a rallentare impercettibilmente la corsa per farsi vedere dal compagno, per staccarsi dalla marcatura, ad accelerare il passaggio, il tiro, senza badare alla coordinazione, all’eleganza del gesto, a pressare in avanti senza paura di essere dribblato, o spostato da un fisico più grande, provando a rubare un pallone per il piacere di rubarlo - come quando, nella recente partita di campionato con il Borussia Dortmund ha pressato Hummels, gli ha ribattuto un passaggio che si è alzato a campanile e gli si è infilato davanti per prendere la palla di testa: poi da dietro è arrivato Lewandowski che ha raccolto e fatto gol.
È questo che lo differenzia dagli altri anche all’interno della rosa del Bayern, che lo spinge a dare così tante indicazioni ai suoi compagni da essere soprannominato “Radio Müller”.
Ormai sono un paio d’anni che Müller ha modificato i termini del contratto stipulato con Lucifero scambiando la sua qualità in fase di finalizzazione con quella nel fornire assist ai compagni. «Forse non sono più un cannoniere. Cerco di essere più responsabile per tutta la squadra, di darle una struttura, organizzazione ed energia, e cerco di servire assist». Nella stagione 2019/20, quella della pandemia, è arrivato a 26 assist; nella stagione passata ne ha fatti 22 e in quella attuale è già a 13. Secondo i dati Statsbomb è nell’1% degli attaccanti che effettuano più assist ogni 90 minuti (0.63) e nel 3% di quelli che generano più Expected Assist (0.38).
Perché d’accordo, per avere un assist contabilizzato quando giochi nel Bayern Monaco spesso basta che passi la palla al limite dell’area a Lewandosky, o a Leroy Sané - e alcuni suoi assist sono, in effetti, delle semplici sponde per mandare al tiro il compagno dai sedici metri - ma anche far calciare un compagno da una posizione più o meno buona è un’abilità (gli xA misurano proprio le “potenzialità” del passaggio che manda al tiro, non l’esito, e Muller è stato il giocatore ad averne generati di più in 4 delle ultime 5 edizioni di Bundesliga).
Le qualità di Thomas Müller sono intangibili, e questo non ci va giù. Lui sembra esserne consapevole, ci gioca anzi, con la certezza degli stregoni che manovrano le forze oscure: è celebre l’intervista del 2011 in cui si è definito da solo un Raumdeuter, cacciatore di spazi, investigatore di spazi, oppure, e forse è la traduzione migliore in assoluto, interpretatore di spazi - come se gli spazi fossero dei sogni, che si affacciano sulla soglia della nostra coscienza e hanno bisogno di qualcuno che gli dia un senso prima che svaniscano: certo, anche messa così non è che si capisce meglio cosa esattamente sappia fare meglio degli altri.
Facciamo un paio di esempi da assist recenti in cui è difficile capire se Thomas Müller sia un genio o solo l’eletto del Maligno. Lo scorso ottobre contro l’Union Berlin ha segnato un gol e fatto due assist, tra cui quello per Leroy Sané in scivolata, al volo, prolungando un cross di Coman quasi sulla riga di fondo, e tagliando fuori il portiere avversario, in uscita, e un difensore subito dietro, con un tocco di collo delicato. È un assist geniale eseguito in una situazione estremamente complicata, una specie di acrobazia, ma è difficile capire quanto Müller avesse previsto e/o compreso di quello che aveva intorno, potrebbe benissimo essersi limitato a prolungare il cross in qualche modo verso il centro dell’area. Eppure, conoscendo Müller, è molto più probabile che sapesse benissimo che avrebbe trovato un compagno più o meno in quella posizione, magari anzi aveva tracciato con la coda dell’occhio il movimento di Sané prima di entrare in area, e per esperienza, con la memoria di chi queste cose le fa ogni giorno della propria vita, sapeva anche che avrebbe sorpreso il portiere.
Pochi giorni prima, nel 4-0 della Germania sulla Macedonia del Nord, Müller ha mandato in porta Timo Werner con un pallonetto di interno sinistra, servito di prima su un passaggio a mezza altezza, sfruttando il buco alle spalle del difensore che è uscito dalla linea per pressarlo. Quello di Müller è un gesto istintivo e al tempo stesso sgraziato, che lo costringe a una coordinazione innaturale, la caricatura di un uccello preistorico, così immediato e controintuitivo che la difesa avversaria è presa completamente di sorpresa. E in effetti, voglio dire, chi si sarebbe aspettato una palla del genere da Thomas Müller?
Qualche anno fa Barney Ronay, sul Guardian, dopo la partita di andata tra Bayern e Juventus in Champions League (2-0, Müller ha segnato il secondo infilandosi alle spalle di Bonucci e Chiellini mentre quelli stanno ancora alzando il braccio per chiedere il fuorigioco) lo ha paragonato a una «nuvola di fumo, o a un qualche forma calcistica di fungo insidioso», capace di infilarsi nello spazio che trova e farlo marcire. A me, però, questo rapporto con l’invisibile ricorda una cosa che ha scritto il saggista e critico artistico John Berger sul disegnare: «La potenza del colore è niente in confronto alla potenza della linea; la linea che non esiste in natura ma che può esporre e dimostrare il tangibile con maggiore acutezza». E poi: «Disegnare significa toccare con mano, avere la prova che voleva Tommaso.»
Eppure anziché sgranare gli occhi come San Tommaso davanti alla verità incarnata di Thomas Müller, scuotiamo la testa. Non crediamo nell’origine divina del suo talento, allora deve essere diabolica. Non ci basta, come prova, la straordinaria quantità di successi ottenuti, o il fatto che allenatori molto diversi tra loro - Joachim Löw, Guardiola, Flick, Heynckes, Nagelsmann - lo abbiano tutti fatto giocare titolare, da quando aveva 21 anni fino ad oggi che ne ha 32, in un calcio che è cambiato moltissimo nel frattempo. Ovviamente stiamo parlando di qualità che una loro tangibilità ce l’hanno, su un piano cognitivo, su quello dell’orientamento in campo, del tempismo, della manipolazione degli avversari, della furbizia, di quella che chiamiamo “intelligenza calcistica”. Ma sono qualità che i tifosi di calcio rispettano meno della semplice superiorità atletica, o tecnica.
È un problema che Cristiano Ronaldo, quello degli ultimi sette o otto anni, per esempio, ha affrontato con i numeri: la materialità del suo talento sta nella quantità indiscutibile dei gol che ha segnato. Punto, stop, inutile argomentare. Forse se stessimo parlassimo di giocatori NBA ne loderemmo la capacità di manifestarsi nel clutch cioè nei momenti cruciali di una partita, su quel confine sottile e sfumato che c’è tra vincere e perdere, con il tempismo giusto. Ma dato che siamo europei e non ci vediamo niente di straordinario nel saper cambiare le marce (clutch letteralmente significa la frizione manuale dell’auto) preferiamo rifarci alla nostra secolare superstizione.
Uno dei miei video (s)preferiti di Thomas Müller. Dopo aver vinto il Mondiale nel 2014 una giornalista, in inglese, gli dice che è andato vicino a vincere di nuovo la Scarpa d’Oro (5 gol, uno in meno di James Rodriguez). Müller ovviamente risponde in bavarese: «Non mi interessano queste stronzate, siamo campioni del mondo, abbiamo la coppa, puoi strusciarti la scarpa d’oro dietro le orecchie!», che a quanto pare è un modo di dire tedesco.
Ma torniamo indietro a qualche anno fa, a quella partita dell’otto luglio 2014 contro il Brasile, il Mineirazo. Thomas Müller aveva segnato il primo gol del 7-1 finale (così come ha segnato due gol nell’8-2 al Barcellona, ha contribuito al 7-1 del Bayern sulla Roma e all’8-0 all’Hoffenheim, come notava Emanuele Atturo in un pezzo in cui sosteneva che forse, volendo uscire dalla schiavitù della conta del gol, avrebbe persino potuto meritarlo lui il Pallone d’Oro 2020 ) e la partita con il Brasile era già sul 6-0 quando, a un quarto d’ora dalla fine, Marcelo sbaglia un passaggio all’indietro e la palla arriva dalle sue parti. Müller potrebbe dare il via a un’altra transizione ma sbaglia anche lui, la palla gli scivola dal piede, o forse non la tocca proprio, e sta finendo tra quelli di David Luiz quando Müller si allunga come un uomo che deve passare da una sponda all’altra del fiume e arriva sulla palla col piede a martello. David Luiz riesce a uscire dal contrasto in possesso del pallone ma qualcosa fa click nel suo cervello, improvvisamente si gira verso Müller e facendo finta di voler calciare la palla prova a spazzargli il ginocchio in tribuna. Müller, con un istinto e un sangue freddo da torero, evita il calcio e passa la palla a un compagno.
L’arbitro ovviamente ferma il gioco perché David Luiz è fuori di sé, ma per Müller, che forse era entrato in quel modo per riparare a un suo errore, e che in generale non sembrava voler perdere neanche un’occasione per fare un altro gol al Brasile - poco prima si era allungato la palla dopo aver saltato il portiere e girandosi a favore di camera si era lasciato andare a un sorriso davvero satanico - per Müller, dicevo, non c’era niente di strano. Come se far impazzire gli avversari fosse il suo mestiere.
In quello stesso Mondiale ci era già riuscito con Pepe, espulso a metà del primo tempo con la Germania sopra di due gol (Müller ha segnato una tripletta quel giorno e il Portogallo ha perso 4-0), per aver colpito/non colpito Müller con il braccio largo mentre quello lo pressava come un pazzo nella sua trequarti. E in ogni caso, contro il Brasile, due minuti dopo quella situazione spiacevole con David Luiz, Müller si allarga a sinistra, viene servito con una palla difficile e si inventa una giocata telepatica delle sue, girandosi coi piedi quasi sulla linea del fallo laterale e calciando di prima per Schürrle che stava entrando da solo in area e ha segnato il 7-0.
È questo genere di situazioni e coincidenze che ha reso Müller indigesto a molte persone. Eppure, proviamo a soffermarci un attimo sull’assist per Schürrle. Quanta visione di gioco, tempismo e “senso del gioco” ci vogliono per giocare, di prima intenzione, una palla del genere, che ti viene incontro rimbalzando mentre stai ancora tagliando sull’esterno, e metterla nello spazio che tu stesso hai creato portando via il centrale esattamente sul piede del tuo compagno? Poi Schürrle calcia in modo pazzesco, uno di quei tiri che ti riescono solo in un 7-1, quando alla tua squadra gira tutto bene e segneresti anche se provassi a calciare fuori appositamente, ma la giocata di Müller è comunque speciale. Sembra davvero che senta sulla propria pelle il movimento di Schürrle, che sia tutt’uno con i suoi compagni di squadra.
Forse la qualità di Thomas Müller più difficile di tutte da notare, che però esiste, c’è, è la sensibilità negli smarcamenti. E dato che i numeri aiutano a dare concretezza possiamo dire che è nel 3% dei giocatori ad aver ricevuto più passaggi dai compagni che hanno fatto progredire il gioco in avanti, e ovviamente è il primo in Bundesliga per passaggi ricevuti dentro l’area di rigore. Forse è proprio a questo che si riferiva quando si è definito un Raumdeuter. Persino in un calcio più intenso rispetto a quello a cui ha iniziato a giocare, dove gli spazi cambiano forma più velocemente, restringendosi e dilatandosi all’improvviso, Müller eccelle nella capacità di trovare una tasca, un fazzoletto, dove un compagno può vederlo e fargli arrivare il pallone. Così come eccelle nel trovare un compagno a cui recapitarlo anche nel caos dell’area di rigore.
In un’intervista con la rivista Eight By Eight, dove era definito «il giocatore più enigmatico del calcio internazionale», Müller si diceva consapevole di non avere quelle qualità che di solito servono per emergere ad alto livello. In particolare non è un dribblatore, non è abbastanza veloce, o tecnico, gli uno contro uno non fanno per lui. Per questo, dice Müller, le persone pensano non sia molto dotato, «mentre in effetti sono più tecnico di quello che mi viene riconosciuto». «So di compiere degli errori» ha detto sempre in quell’intervista, «ma d’altra parte ci sono anche momenti in cui faccio cose brillanti tecnicamente».
In un’altra intervista di una decina di anni fa Müller dice di essere consapevole di provare delle giocate che «magari sono delle grandi idee ma di difficile realizzazione». Ma quando gli capita di sbagliare non si sente inadeguato, piuttosto pensa: «È andata così, ci riproveremo la prossima volta». Anche su questo aspetto del suo gioco ci sono parecchi esempi, uno molto recente viene dalla partita di novembre con il Friburgo, in cui su una bella azione in verticale prova a servire di piatto Lewandowski in profondità poi, ma la difesa respinge il suo passaggio e la palla gli torna sui piedi, allora serve Goretzka in profondità, sempre di prima, con un passaggio praticamente uguale che stavolta porta al gol.
È proprio a causa - o grazie - ai suoi limiti che Thomas Müller ha imparato a prendersi tutto lo spazio possibile e a pensare velocemente a cosa fare con la palla. Lo scorso maggio Jonathan Liew sul Guardian ha sfruttato il momento storico in cui viviamo per scrivere che «la distanza sociale è il lavoro quotidiano di Müller, un calciatore fantasma in partite fantasma», senza pubblico cioè, «un uomo che ha costruito non solo una carriera ma persino un ruolo specifico nel restare lontano dai germi, a distanza di un braccio, due metri lontano in ogni momento».
Müller ha fatto leva sui propri difetti anziché nasconderli, sfruttandoli per diventare un giocatore unico. Forse tutti i grandi giocatori sono anche consapevoli dei propri punti di forza e di debolezza, ma nessuno come lui è riuscito a diventare grande quasi esclusivamente grazie a questa consapevolezza e alla capacità di compensare con il lavoro, con l’applicazione, con l’intelligenza, quello che madre natura non gli ha dato. In fin dei conti, Thomas Müller è il contrario di un giocatore enigmatico, è tutto sotto i nostri occhi anzi, non c’è davvero niente di misterioso, esoterico. È solo che non ci sono giocatori simili a lui. Non vogliamo vedere lo sforzo, la brutalità della competizione, preferiamo lo stile, l’eleganza del talento. A noi piacciono i grandi giocatori che fanno sembrare tutto semplice; Thomas Müller, invece, è un giocatore semplice che fa grandi cose in modo complicato.