Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
So long, Splash Brothers
05 lug 2024
Ode alla coppia Curry e Thompson.
(articolo)
12 min
(copertina)
IMAGO / ZUMA Press Wire
(copertina) IMAGO / ZUMA Press Wire
Dark mode
(ON)

Il 21 dicembre 2012 i Golden State Warriors ospitano i Charlotte Bobcats. All’intervallo il punteggio è di 58 a 49, Steph Curry e Klay Thompson hanno segnato insieme 7 delle 11 triple tentate. L’account ufficiale della franchigia lo riporta così.

«È qualcosa che nessuno mi potrà portare via in nessun modo. È la prova che ho vissuto su questa terra», con questa enfasi Brian Witt rivendica il suo posto nella storia, la stesura di questo tweet apparentemente banale. È la prima apparizione del soprannome Splash Brothers per indicare la coppia Curry-Thompson e la loro abilità nel tiro da tre punti ("splash" è il suono onomatopeico della retina che si muove dopo una tripla segnata). Lo spunto, ha raccontato, gli è arrivato dal nome con cui venivano chiamati Mark McGwire e Jose Canseco quando giocavano per gli Oakland Athletics: Bash Brothers.

Da quel giorno, e per i successivi 12 anni, Splash Brothers è stato non solo un soprannome particolarmente azzeccato, ma anche e soprattutto il sinonimo di una rivoluzione culturale, due parole che hanno racchiuso alla perfezione il senso di una dinastia. Non sono sempre stati uguali gli Warriors, ma Curry e Thompson, Thompson e Curry erano la costante, la miglior coppia di tiratori della storia, la più efficiente, letale e vincente. Insieme in campo hanno segnato 3.583 triple, tirando con il 43.1% (il doppio della seconda coppia in classifica, Lillard e McCollum).

Se parlo al passato è perché dal primo luglio non sono più una coppia: Klay Thompson è diventato nuovo giocatore dei Dallas Mavericks e la rottura con gli Warriors è stata piuttosto traumatica. Thompson si è sentito sminuito dalle offerte economiche della franchigia che ha contribuito a rendere grande e dall’essere stato retrocesso a sesto uomo per una parte dell’ultima stagione. Gli Warriors, forse, non si fidavano più di lui, dopo il terribile doppio infortunio (crociato prima, tendine d’Achille poi) che ci ha restituito un giocatore diverso, benché capace di essere decisivo nella vittoria di un altro titolo nel 2022. Il risultato è una sign-and-trade sbiadita, che ricuce solo in minima parte uno strappo difficile da spiegare a parole e dai retroscena piuttosto tristi. La sua ultima partita in blu e giallo rimarrà il play-in contro i Kings e quello sciagurato 0 su 10 al tiro.

Ma questo è il presente, la materialità del denaro, la meschinità degli uomini, lo scorrere delle stagioni. L’essenza degli Splash Brothers già inizia a cristallizzarsi nel tempo e nello spazio. È difficile quantificare l’impatto di questi due sul gioco. Se il tiro da tre punti oggi ha tutto questo peso è merito di tante contingenze e sicuramente anche loro; però, forse, si può dire che Steph e Klay siano stati un’eccezione piuttosto che la regola. C’è infatti il rischio palpabile che due tiratori così non li avremo più, non all’interno dello stesso sistema, non con delle caratteristiche così compatibili, non così forti.

Curry viene scelto al Draft da Golden State nel 2009, Thompson nel 2011, ma è nel 2012 che la storia inizia a realizzarsi davanti ai nostri occhi. Sono figli di due ex giocatori NBA, il backcourt di una squadra giovane e smaliziata, in un mercato nascente e in un momento di transizione della lega. Al termine di quella stagione regolare in due hanno segnato 483 triple, record storico per un duo. Curry con 272 triple realizza il primo di una valanga di record, mentre Thompson si ferma a 211 (22esima prestazione migliore di sempre all’epoca). Siamo ancora agli albori della rivoluzione del tiro da tre punti, soprattutto è ancora un ruolo da specialista. A prendersi tante triple sono i Kyle Korver, i J.J. Redick, i Ryan Anderson, soprattutto nessuna squadra ne ha due insieme che sono anche i due migliori giocatori della squadra.

È sempre nel 2012 che Marc Jackson, che in questa storia non è certo quello che ne esce meglio, li definisce per la prima volta the best-shooting backcourt in NBA history, una definizione per cui allora venne canzonato, ma che oggi è come dire che l’erba è verde e il cielo è blu.

Nel 2013 migliorano di una tripla il loro record con 484 (261 Curry primo nella lega, 223 Thompson secondo). Curry tira col 42.4%, Thompson col 41.7%. Il rapporto tra volume e efficienza del loro tiro da tre punti è davvero qualcosa di mai visto e, a quel punto, impensabile. È però dalla stagione successiva, curiosamente la stagione in cui gli Warriors erano pronti a dividere la coppia, organizzando uno scambio poi naufragato tra Thompson e Kevin Love, che gli Splash Brothers portano in cima al mondo il loro stile.

Nel 2014-15 con Steve Kerr in panchina aumentano ancora le triple realizzate - Curry batte il suo record arrivando a 286 (spoiler: lo batterà ancora), Thompson gli arriva dietro con 239, il totale è 525 (41 più dell’anno prima, tirando col 44%) - ma soprattutto gli Splash Brothers diventano il grilletto di un sistema che fila che è un piacere. L’attacco degli Warriors infatti non è costruito meccanicamente sul tiro da tre punti: Curry e Thompson con il loro range, velocità di esecuzione e precisione in ogni situazione sono piuttosto una minaccia fantasma ma eterna per le difese avversarie, che sono costrette ad allungarsi fino a rompersi per provare a risolvere un enigma irrisolvibile.

Pur essendo di fatto un sistema molto codificato, gli Warriors conservano la bellezza del basket fatto di giocate collettive e individuali, di spaziature perfette, passaggi extra e velocità. Alla fine della stagione arriva il primo titolo della dinastia: è la versione forse meno forte degli Warriors, ma anche la più ortodossa e intransigente.

In quel momento Curry e Thompson rappresentano alla perfezione lo spirito del tempo. Sono gli anni in cui si inizia a parlare di statistiche avanzate, di algoritmi, di tiri che vanno presi e tiri che non vanno presi. Anche la comunicazione si sta rivoluzionando: arrivano i social network, la diffusione di video di highlights in ogni angolo del pianeta, ma anche i blog, la scrittura sportiva che si ibrida con quella più popolare. Grantland racconta l’impatto degli Splah Brothers con le mappe di Kirk Goldsberry, ma riesce anche a coglierne il lato pop, che va molto oltre le percentuali al tiro da tre punti (qui potete leggere tutti quelli a tema). Se un tempo il tiro da tre era considerato quasi un peccato, Curry, Thompson e tutta Golden State riescono a renderlo sexy e vincente.

Tutti vogliono un pezzo di questa storia: attori, cantanti, televisioni, ma anche politici. Anche Barack Obama, che se non fosse il presidente degli Stati Uniti, beh: non sfigurerebbe come terzo Splash Brother. L’impatto di questa versione dei Golden State Warriors sul NBA come “spettacolo mainstream” è forse ancora sottovalutato, come abbiano cambiato per sempre non solo il proprio destino, passando da franchigia un po’ sfigata a marchio riconoscibile in tutto il mondo (e facendola traslocare da Oakland a San Francisco), ma anche proprio la lega e come viene fruita dal pubblico. E se il merito è di tanti, è indubbio che gli Splash Brothers sono il centro di tutto, dentro e fuori dal campo.

Pur essendo simili, i due non potrebbero essere più diversi. Curry è in perenne movimento, è il centro del sistema, è la stella della squadra, il leader, la figura istituzionale, il modello da imitare. Le sue triple arrivano dal palleggio o sparate da nove metri. Non ha un rilascio convenzionale, non è canonicamente un bel tiro, ma lo diventa perché lui è Steph Curry: in mano a chiunque altro sarebbe un disastro. Curry è l’America che si realizza con il lavoro duro e con la volontà, che ringrazia Dio e la famiglia, che riesce lì dove tutti gli dicono che avrebbe fallito. È una storia di successo che sembra scritta a tavolino, che è troppo perfetta per essere umana, vicino a noi.

Thompson al contrario sembra sempre essere in campo per puro caso. È l’amico che si ammazza di canne ma poi è comunque il più dotato, quello a cui tutto riesce incredibilmente semplice. Thompson non mette palla per terra, sbuca all’improvviso dal nulla e vince le partite segnando 3, 4, 5, 6 triple in fila. Che sia libero o raddoppiato, se ha deciso di segnare, segnerà. Non ha bisogno di palleggiare o di pensare. Thompson tira e il suo tiro è perfetto nella forma e nella sostanza: difficilmente ne vedrete uno migliore. Se Curry è il divo, Thompson è l’anti-divo: arriva al palazzo in barca (anche se credo che a Dallas sarà difficile), passa il suo tempo libero insieme al cane Rocco, è sempre con la testa tra le nuvole. C’è un bellissimo articolo di The Athletic in cui i compagni raccontano la randomness di Thompson, la casualità con cui può fare le cose, nel bene e nel male.

Forse il singolo episodio che più cattura questa essenza di Thompson: un'intervista in cui parla dei pericoli delle impalcature a New York, rilasciata a una giornalista che non lo aveva riconosciuto.

Quella di Curry e Thompson è una grandezza simbiotica che si è però autoalimentata con prestazioni individuali. La gara-3 di Curry contro Houston nel 2015, la gara-6 di Klay nelle finali di conference 2016 contro OKC (la nascita della leggenda di Game 6 Klay), i 37 punti in un quarto contro i Kings di Klay, le 12 triple di Curry contro OKC con il doppio “bang” di Mike Breen, i 60 punti contro Indiana con 11 palleggi di Klay, la gara-4 di Curry nelle Finals 2022 contro Boston. Potrei continuare ancora per molto, ma avete capito: se avete vissuto da spettatori questa epoca, ognuna di queste partite vi rimanda un senso di dominio intangibile e inarrestabile, come frutto di un incantesimo (la mia preferita: i 37 punti di Klay in un quarto, semplicemente un glitch nella realtà).

Ovviamente gli Splash Brothers non si esauriscono con le prime stagioni, quelle dello svelamento, della sorpresa, della magia. Nel 2016, l’anno delle 73 vittorie, Curry finisce la stagione regolare con 402 triple segnate (record che rimane ancora imbattuto), Thompson con 276. Insieme fa 678, 153 più del loro record precedente, un numero semplicemente spaventoso. Nei playoff contro OKC hanno segnato 68 triple in due, 13 in più di tutti i Thunder messi insieme, prima di essere sconfitti da Cleveland in rimonta, col tiro decisivo di Kyrie Irving (che ora sarà compagno di Klay).

Visualizza questo post su Instagram

Un post condiviso da Kirk Goldsberry (@kirkgoldsberry)

Negli anni hanno arricchito il loro gioco, che non è certo solo il tiro da tre. Curry è uno degli attaccanti più completi della sua generazione, Thompson è stato uno dei migliori difensori sul perimetro prima degli infortuni. Hanno vinto altri due titoli da protagonisti. La loro essenza si è fatta più matura, scomparendo quasi dietro a tutto il resto. Sono infatti le stagioni in cui Durant cerca il suo posto al sole, in cui Green inizia a mostrare il suo lato problematico, in cui il ruolo di Iguodala cala, in cui la dirigenza cerca di rendere Golden State una specie di Dream Team. Si parla meno degli Splash Brothers e più di Death Lineup, di Hamptons Five, del quintetto con tutti All-Star quando DeMarcus Cousins si aggiunge alla festa.

Eppure l’anima degli Warriors restano loro. Diventa evidente durante le drammatiche, dal loro punto di vista, Finals del 2019 contro i Toronto Raptors. Prima c’è la rottura del tendine d’Achille di Durant, infortunio che sarà uno dei motivi della sua dipartita, poi tocca a Thompson. Se ricordate quella gara-6, Klay dopo l’infortunio esce dal campo quasi in lacrime portato a spalla, per poi tornare subito indietro per tirare i due liberi in un momento in cui la partita è punto a punto. Non è la prima volta che succede, che un giocatore infortunato si occupi dei liberi che gli spettano, ma dopo il 2 su 2, con un crociato rotto, Thompson corre in difesa. Lo staff di Golden State deve farlo uscire quasi con la forza.

È attraverso le difficoltà che si è cementificato il mito degli Splash Brothers. Curry che chiude quelle finali solo e marcato da una box-and-one abbastanza esplicativa, la stagione successiva chiusa con il peggior record della NBA, con Curry che si rompe una mano dopo 5 partite. L'infortunio al tendine d’Achille di Thompson mentre si preparava a tornare dall'infortunio al crociato, una notizia così assurda che all'inizio non sembrava neanche potesse essere vera. Poi il Covid, il tentativo (fallimentare) degli Warriors delle two timelines, di creare cioè un nucleo giovane che andasse ad affiancare prima e sostituire poi Curry, Thompson e Green. Alla fine del tunnel, però, c'era il titolo del 2022, quello più inspiegabile, quello che forse - da una parte - ha elevato Curry a uno status troppo alto per essere considerato all'interno di una coppia (nessuno parla mai di LeBron, Jordan e Kobe al plurale), ma che dall'altra ha reso immortali gli Splash Brothers proprio per l'improbabilità che uno giocasse la sua stagione migliore di sempre a quell'età (magari dopo il 2015-16 per livello di gioco, ma non per leadership e capacità di prendersi la squadra sulle spalle) e che uno tornasse da due infortuni che stroncano le carriere degli atleti e riuscisse a essere decisivo seppure con un impatto minore (poi, bisognerebbe discutere quanto solo la presenza degli Splash Brothers abbia influito sull'assurdo rendimento di Jordan Poole e Andrew Wiggins, che non hanno mai più avvicinato il livello di prestazioni di quei playoff).

Le ultime due stagioni avevano lasciato intendere che c'era una scollatura forte da questa anima. Gli Splash Brothers hanno continuato a esistere (Curry primo e Thompson quarto per triple segnate in stagione) ma intorno è mancato quel senso di spensieratezza e magia. Curry è riuscito a mantenere il suo livello di prestazioni elevatissimo nonostante i 36 anni, Thompson invece ha pagato gli infortuni con una incostanza che prima non esisteva. C'era però la sensazione che la coppia potesse continuare, almeno per quel senso di riconoscenza che spesso le franchigie riconoscono alle loro stelle. Non è stato così e, forse, è meglio: 13 anni sono stati uno spettacolo sufficiente. Anche se non avete amato quella squadra, anche se non vi ritrovate nell'idea di basket che Curry e Thompson hanno reso quasi una dittatura, anche se tifavate le squadre sotterrate dalle loro triple, anche se pensate che il basket sia una questione di chi fa meglio a spallate e non sparare triple da nove metri come se fossero lay-up, la grandezza degli Splash Brothers rimane qualcosa che non si può non riconoscere e ammirare. Lo spettacolo sempre meraviglioso della storia dello sport mentre viene scritta sotto i nostri occhi.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura