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Enrico Brizzi

Tifare Bologna, o dell’impermanenza della felicità

Una storia personale del tifo per il Bologna, dagli anni '80 alla Champions League.

Opinioni pubbliche e segrete speranze

Il calcio è un meraviglioso giuoco, una passione sfrenata, un immenso business, un sistema di segni, un rituale collettivo, una questione geopolitica, un’espressione della cultura popolare e molte altre cose ancora. Le contraddizioni, va da sé, sono dietro l’angolo: la crema della società britannica lo elesse a paradigma della gentlemanship, mentre la working class lo vide come strumento di riscatto; la dittatura fascista lo impiegò come leva per il prestigio nazionale e forma di controllo delle masse, mentre Pasolini trovava ovvio il parallelismo con la scrittura, al punto da attribuire ai fuoriclasse degli anni ’60 caratteristiche di poeti o narratori.

 

Oggi i cultori delle scienze esatte applicano al “gioco del pallone” paradigmi matematici per calcolare il rendimento di singoli giocatori e squadre; l’industria della moda flirta con i club e i marchi tecnici a suon di collaborazioni brandizzate, quella dei videogiochi si scapicolla per questioni di licensing. Ancora: gli appassionati di street culture censiscono in automatico, nei loro spostamenti quotidiani, felpe, sciarpe e adesivi; cultori dell’araldica, designer e semiologi hanno il loro daffare con l’evoluzione degli stemmi verso la dimensione asciutta dei loghi; insigni docenti di sociologia e financo antropologi studiano con la massima serietà le dinamiche del tifo…

 

Potremmo continuare a lungo, parlando magari di scommesse e squadre vintage di Subbuteo, di sorprendenti gemellaggi internazionali o di vetuste amicizie rotte in maniera sanguinosa sull’altare pagano del fantacalcio. Se però c’è una faccenda di cui non si può dubitare, perlomeno nel Bel Paese da sessanta milioni di commissari tecnici, è la pervasività del nostro sport nazionale nel discorso pubblico. Se ne parla ogni giorno, in famiglia come al bar, sui social e sulle chat Whatsapp. Troppo, secondo gli odiatori di Eupalla; troppo poco, o per le ragioni sbagliate, secondo gli appassionati. Appena prova a silenziare il rumore di fondo, però, ogni tifoso si trova di fronte al sé stesso ragazzino e alle sue speranze più autentiche e ingenue: che la squadra del cuore vinca la prossima partita, essenzialmente. La scaramanzia ci impone di non esprimere ad alta voce le nostre speranze più recondite, così come il pudore consiglia di tacere in occasione dei pranzi di lavoro i propri sogni erotici. Resta il fatto che quando fantastichiamo di vedere il nostro undici vittorioso ci addentriamo nella dimensione irrazionale del sentimento e del desiderio.

 

Giusto, discutibile o profondamente sbagliato che sia, al calcio deleghiamo una quota della nostra felicità. E qui, come si suol dire, casca l’asino: di cosa parliamo quando parliamo di felicità? Dello “stato d’animo di chi è sereno, non turbato da  dolori e preoccupazioni, e gode di questo stato”, come suggerisce la Treccani, o non piuttosto della fuggevole sensazione di un attimo?

 

Il nostro imprinting

Dell’impermanenza della felicità hanno scritto per secoli filosofi e poeti, dunque saremmo propensi a dare l’ipotesi per buona: la felicità, quella vera, ahinoi non dura a lungo. La dottrina buddhista familiare a Roberto Baggio è fondata sulla sua ricerca e sulla simultanea accettazione della sua transitorietà; persino zia Wanda, che perse i sensi quando il Divin Codino sbagliò dal dischetto a Pasadena,  è ben conscia che si tratta – parole sue –  di un apostrofo rosa nel flusso quotidiano delle tribolazioni. (Cosa ci azzeccano, potrebbe domandarsi qualcuno, il più luminoso talento del calcio italico e una anziana signora che incassa mensilmente la pensione di reversibilità del marito? Tranquilli, ci arriviamo).

 

Flashback: Bologna, interno piccolo borghese, circa 1980. Chi oggi scrive queste righe su UU, all’epoca è un cinno all’alba delle elementari, pratica con tigna e scarso talento il fòtbal giù in cortile e ne approfondisce la conoscenza grazie a strumenti impagabili: gli album Panini, le pagine sportive del Carlino e Repubblica, le azioni da gol disegnate sul Guerin Sportivo e il Giornalino, il settimanale per l’infanzia delle Edizioni Paoline, che vanta fra i suoi collaboratori Ormezzano, Giacinto Facchetti e, più tardi, Michel Platini. È proprio su quelle colonne che un giorno s’imbatte in una notizia che lo fa sussultare: il Bologna risulta essere una delle tre sole squadre, con le corazzate Inter e Juventus, a non essere mai retrocessa in serie B. “Ma tu guarda” si dice.

 

A sentire zia Wanda e zio Delmo, che lasciano di corsa i pranzi domenicali per portarsi al Dall’Ara, la squadra regala poche gioie. La nonna, poi, partecipò in divisa da Piccola Italiana all’inaugurazione dell’allora ‘Littoriale’, e ancora ragazza vide arrivare sei scudetti e le coppe europee; secondo la sua rispettata opinione di matriarca, il Bologna è indubitabilmente al punto più basso della sua storia. “Sarà” si dice il cinno, ma almeno si può nutrire un legittimo orgoglio: mai stati in B.

 

A stretto giro, i Rossoblù precipitano in serie cadetta. Le speranze che il purgatorio duri una sola stagione si concretizzano nella maniera più crudele: nuova retrocessione, benvenuti all’inferno, serie C1 girone A. Sull’album Panini, niente più effigi dei giocatori. Tutto ciò che resta dello “squadrone che tremare il mondo fa” è una figurina doppia, la numero 345 della raccolta, che mostra il blasone sociale in tandem con quello dell’Ancona.

 

 

Neppure il più ottimista potrebbe immaginare che nella seconda metà del decennio il “calcio champagne” di Gigi Maifredi riporterà il Bologna in A e addirittura a giocare la Coppa UEFA. Torneranno le figurine singole, gli scudetti prismatici, una presenza discreta e pugnace nel “campionato più bello del mondo”.

 

Poi il diavolo ci metterà la coda: sarà ancora B, e di nuovo terza serie. Se l’imprinting ha la sua importanza, questo è il nostro: “discese ardite e risalite”, come cantava il poeta, “su nel cielo aperto e poi giù il deserto”, con tutto quello che ne può venire a livello di consapevolezza e autostima.

 

Il missing link fra zia Wanda e il Pallone d’oro

Zio Delmo se ne andò alla vigilia di Bologna-Spal, sfortunata semifinale playoff per risalire in B, stagione 1993-94. Zia Wanda, ormai vedova, non cercò altri uomini, non almeno che io sappia. Il dionisiaco non faceva più per lei, ma l’apollineo è un altro paio di maniche, e per lei s’incarnava nelle plastiche figurazioni palla al piede di Roberto Baggio, fresco vincitore del Pallone d’oro. Vi lascio immaginare che duro colpo, a pochi mesi dalla perdita del marito, quel suo famoso errore dal dischetto. Eppure, da brava donna emiliana di zigomo forte, seppe perdonarlo, come aveva perdonato in vita il marito per certe scappatelle che non vale la pena qui di rivangare impietosamente. (Ormai l’avrete capito, amici. Il missing link fra zia Wanda e il Divin Codino è proprio l’autore di questo pezzo).

 

Il tempo corre veloce, nei ricordi. Siamo già all’estate del 1997. L’ex cinno, ormai nel fiore dei vent’anni, frequenta abitualmente con gli amici la curva Andrea Costa, settore Supporters 1979, per incitare Kennet Andersson, Ciccio Marocchi, lo “Zar” Kolyvanov e il resto della banda italo-russo-scandinava di Renzaccio Ulivieri. Va anche in trasferta su base fissa, ché lo striscione del gruppo va esposto e tutelato,  ma questa è un’altra storia.

 

 

La nostra attiene al manifestarsi in tutta la sua gloria di Roberto Baggio. Accade a Sestola, stazione climatica dell’Appennino Tosco-Emiliano e sede del ritiro rossoblù. Basta vederlo palleggiare in tenuta da allenamento del BFC e si sfiora la sindrome di Stendhal. La sua presenza in squadra, a dispetto di un inedito taglio di capelli da oplita spartano, convince zia Wanda a sottoscrivere nuovamente l’abbonamento insieme ad altri 26.975 tifosi, fra i quali le sue amiche Egle e Sonia.

 

Baggio a Bologna è una meteora che rischiara il cielo per nove mesi filati. Manda tutta la città in brodo di giuggiole col record di marcature personale (22), un repertorio tecnico commovente e la consapevolezza di potersela giocare con quasi tutti. Nella città dell’università più antica di Occidente,  il dualismo tra il fantasista per eccellenza e il mister leninista scatena forbite discussioni filosofiche; il tema è il valore del singolo contrapposto a quello del collettivo, ognuno dice la sua, e le speculazioni sono empiricamente condite in curva da sberle e cinghiate fra teorici delle diverse scuole di pensiero.

 

Settimo posto, pass Intertoto in mano, a mettercisi d’impegno si giocherà la UEFA. Si può essere più felici di così? Forse sì. E si può persino sopravvivere con successo all’abbandono in simultanea di numero 10 e allenatore. (Prendano nota i tifosi rossoblù troppo giovani per ricordare dal vivo quella stagione: anche dietro gli abbandoni più dolorosi, può celarsi qualche ottima sorpresa).

 

Lo striscione dei Supporters a zonzo per l’Europa

Estate 1998. Baggio, ormai certo della convocazione per i Mondiali, se ne va all’Inter. Ulivieri, incrinato senza rimedio il rapporto con la proprietà, passa al Napoli in B. Nella stagione a venire nessuno dei due farà faville. In vista della campagna europea arrivano a sostituirli un imbolsito Beppe Signori e il sor Carletto Mazzone.

 

Gli abbonati scendono di cinquemila unità, ma zia Wanda, le sue amiche e gli altri transfughi si perdono un’annata memorabile: Beppe risorge, più snello che mai, 3-0 alla Juventus, nuovo arrivo nella colonna sinistra della classifica, nuova striscia vincente in Coppa Italia che si arresta in semifinale, e soprattutto una cavalcata europea senza precedenti. I Rossoblù vincono l’Intertoto, entrano nel tabellone principale della UEFA e si liberano in successione di avversari ben attrezzati: i portoghesi dello Sporting, lo Sparta Praga, il Betis di Denilson e l’Olympique Lione.

 

Maggio ’99. Semifinale contro l’Olympique Marsiglia di Pirès, Ravanelli e Dugarry. L’andata al Velodrome si gioca in un clima da ordalìa con striscioni dati alle fiamme, furiosi scontri fra ultrà e pacifici tifosi ospiti terrorizzati dalle sassaiole. Sul campo, pareggio a reti inviolate. Due settimane dopo, al Dall’Ara, i sogni sembrano a portata di mano: il “Saraceno” Paramatti porta il Bologna in vantaggio, il tempo scorre, sugli spalti si pregusta una trasferta moscovita per una finale tutta emiliana contro il Parma. Il Bologna non riesce a chiudere il match, i francesi attaccano a folate sotto la San Luca, e a una manciata di minuti dal termine si procurano un rigore. Dal dischetto Blanc tira una gran botta centrale a mezza altezza, ma Antonioli ormai si è tuffato sulla propria sinistra e non può nulla. Il settore ospiti esplode, il nipote di zia Wanda e i suoi correligionari sperimentano in diretta come la felicità possa trasformarsi nel suo esatto contrario.

 

Momento! Ravanelli era indebitamente entrato in area! L’arbitro ordina di ripetere il tiro!

 

L’altalena delle emozioni congela le lacrime, si torna a sperare. (Per gli amanti degli psicodrammi, è possibile ripescare su YouTube la sequenza col commento RAI. “Adesso lo può sbagliare!”. “Incredibile finale!”. “Blanc non se la sente di tirare! Sta parlando con Ravanelli!”. “In effetti è una situazione molto delicata per lui… Chiede ai compagni ma nessuno lo vuole sostituire… Batte ancora Blanc!”. “Speriamo nel miracolo! Non ti muovere, Antonioli, parti all’ultimo secondo! Forza Antonioli, dài!”).

 

Niente da fare: questa volta il portiere si tuffa sulla destra e non vede neppure il siluro, ben angolato sul lato opposto, che gonfia nuovamente la rete. Addio sogni di gloria, e titoli di coda su una furibonda rissa, questa volta tra giocatori.

 

Altro giro, altro regalo: la stagione successiva il Bologna si fa strada in UEFA eliminando in maniera perentoria i pietroburghesi dello Zenit e l’Anderlecht, quindi si trova di fronte il Galatasaray. A Bologna è 1-1: al gol di Beppe risponde il “Toro del Bosforo” Hakan Şükür. La tifoseria più tiepida non trova prudente avventurarsi in Turchia per il ritorno. Ma noialtri, all’epoca, non ne facciamo parte.

 

Lo striscione dei Supporters 1979 e il bandierone inaugurato per il ventennale raggiungono, scortati da un’esigua ma motivata pattuglia, il torrido Ali Sami Yen di Istanbul. Si perde 2-1, ma si rincasa sani e salvi, e in fondo è già una buona notizia: in quella stessa campagna UEFA, la trasferta sul terreno del “Gala” costerà la vita a due tifosi inglesi del Leeds United.

 

 

Il viandante e il profeta

Un quarto di secolo più tardi, la nonna è in paradiso, zia Wanda ha ottant’anni suonati e suo nipote va per i cinquanta.
Col senno di poi, gli spiace essersi perso l’ultimissima apparizione europea del Bologna,  la sfortunata finale Intertoto dell’agosto 2002 a Loftus Road contro il Fulham, decisa da una tripletta del giapponese Inamoto, classe 1979 (giura Wikipedia che gioca ancora in patria nel Nankatsu, quinta serie del Sol Levante).

 

I doveri di padre, voi sapete. Le responsabilità. I divorzi. I traslochi, con quello che pesano i libri.

 

Le trasferte, oggi che vive sul Lago di Como insieme alla donna che ama, le fa per tornare al Dall’Ara e seguire il Bologna. È ancora abbonato, ma nei distinti, e quando proprio non riesce a liberarsi spedisce in sua vece allo stadio le figlie ormai maggiorenni. La passione, però, non si spegne con la ragionevolezza. E allora vai di sciarpe nuove realizzate per i vecchi amici e canzoni rock in italo-bulgnàis dedicate al BFC, da presentarsi direttamente da bordo campo e detonate dagli altoparlanti del Dall’Ara. Se però cerchiamo di dare un senso a questa storia, che dal punto di vista della logica cartesiana un senso forse non ce l’ha, occorre fare un altro, modesto, salto indietro nel tempo.

 

Siamo sul finire della stagione calcistica 2002-23, circa tredici mesi orsono. Una sera, durante un viaggio a piedi in Scozia lungo la West Highland Way, il solito nipote di zia Wanda fa tappa in un minuscolo villaggio chiamato Kinlochleven. Il rituale è quello di sempre: doccia e cena al pub in scarpe da riposo, jeans e tracktop del Celtic, una squadra per la quale simpatizza da sempre. Potete immaginare che da quelle parti è una scelta forte. O susciti un’immediata simpatia, oppure rischi di restare senza birra e guardato in cagnesco.

 

Quella volta, però, succede un’altra cosa ancora: il viandante italico non solo viene accolto con calore dai locali tifosi dei Bhoys, ma addirittura si trova a fare la conoscenza di un profeta. Sulle prime, va detto, non lo individua come tale. Gli sembra semplicemente un simpatico ventenne dall’accento impossibile, piccolo di statura ed ipertrofico causa passione evidente per gli anabolizzanti (Zia Wanda, ne è certo, lo definirebbe “ercolino”). Assai diverso, insomma, dalle rappresentazioni consuete di Ezechiele o Isaia.

 

Il compatto calédone è documentatissimo sul calcio continentale, e appena realizza che il viandante tifa Bologna resta a bocca aperta. «Really?» trasecola. «It’s my favourite Italian team!», e aggiunge di essere impegnato a guidare i Rossoblù in Champions su Football Manager.

 

Quella simmetria di passioni che fino a un momento prima correva invisibile fra il Dall’Ara e il Celtic Park viene suggellata da un buon paio di pinte. Sorseggia che ti sorseggia, il compatto assume un’aria ieratica. Salmodia nella notte scozzese i nomi di Ferguson, Zirkzee, Thiago Motta, poi spara la bomba. L’anno prossimo in Champions ci andate davvero, garantisce.

 

Il nipote di zia Wanda sente uno strano brivido correre lungo la schiena. Va bene che da quelle parti la sera fa fresco, ma la sicurezza del compatto ha un che di soprannaturale. Cosa ne sa, lui, che quando si portava lo striscione dei Supporters al Velodrome e a Istanbul non era neanche nato?

 

Te lo assicuro, insiste, e da buon britannico si ripromette di giocarci su cento pounds. Peccato, col senno di poi, non avergli dato retta.

 

Capriole nei prati e vertigini

Il resto è cronaca recente, anatomia di una cavalcata appena conclusa. In un’intera stagione, al Dall’Ara sono passate solo il Milan, alla prima giornata, e l’Inter ammazza-campionato, che pure ci si è levati lo sfizio di eliminare in Coppa Italia in quel di San Siro.

 

Il gioco propositivo di Thiago, certe sue letture visionarie a partita in corso, lo stato di grazia di un collettivo che si rispecchia in una posizione in classifica insolitamente favorevole; la consacrazione di Ferguson come tuttocampista e uomo-squadra, la fioritura di un attaccante atipico ai limiti della psichedelia come Zirkzee, l’inattesa esplosione del vulcano Calafiori; l’incredulità che lascia il posto alla speranza, il fastidio sempre più vivo per la stampa sportiva che prende sottogamba l’exploit di una “provinciale” – una definizione che a Bologna irrita anche i più miti – e pronostica una normalizzazione che, invece, non arriva mai.

 

Il 3 marzo si coglie una vittoria preziosissima a Bergamo, poi è primavera di bellezza, schegge di match decisivi. Un gol nel recupero di Fabbian, il nipote che ogni zio vorrebbe avere, vale tre punti al Castellani; al Dall’Ara contro la Salernitana lo stadio è quasi pieno. Ormai saltano sul carro anche gli occasionali. 3-0, la corsa continua.

 

Davanti, l’Inter corre irraggiungibile verso la seconda stella, il Milan le trotta dietro, mentre la Juve sperpera punti con inspiegabile costanza. Al netto di miracoli, però, non è sulle tre “strisciate”  che si fa la corsa; l’obiettivo è il quarto ticket per la Champions, e la rivale più pericolosa è la Roma, rivitalizzata dall’arrivo di DDR. Lo scontro diretto si tiene all’Olimpico il 22 aprile. Il Bologna è reduce da due pareggi micragnosi contro Frosinone e Monza, il nipote di zia Wanda di nuovo in cammino, stavolta verso Santiago; vista la tappa da 42 chilometri, al fischio d’inizio è ancora lungo la via. Così segue il match sul telefono, in sordina per non disturbare i compagni di marcia.

 

 

Al precoce gol in rovesciata di El Azzouzi esulta, stupefatto, in forma privata. Per quello di Zirkzee dello 0-2 non trattiene un coro. La Roma accorcia con Azmoun quando la ripresa è ancora giovane. Cala il sacro terrore. Passano davanti agli occhi le diapo del disagio: certe rimonte subite in maniera beffarda, la frustrazione provata quando ad allenare la squadra era Pippo Inzaghi, le delusioni ai rigori in Coppa Italia… Non resta che aggrapparsi idealmente all’icona bizantina di Sinisa, che ci restituì l’orgoglio e ora ci guarda da lassù. All’elegante pallonetto di Saelemaekers che porta il match sull’1-3, cadono le ultime inibizioni: il viandante disarciona lo zaino, e sono capriole nei prati come ai tempi degli album Panini.

 

Quando eravamo felici

Mancano ancora cinque giornate, tante quanti i posti Champions che per magia si riveleranno disponibili in quest’anno di grazia, e all’improvviso il Bologna è chiamato a una missione imprevista: non si tratta più di inseguire ma di amministrare il vantaggio ed evitare le vertigini.

 

Ferguson è rotto, si naviga di conserva nelle strette finali del torneo, l’occhio ai risultati degli altri: pareggio fortunoso contro un’Udinese in piena lotta-salvezza, un altro pari vissuto in diretta in casa del Toro nella sera delle celebrazioni per l’anniversario di Superga. Si gioca venerdì sera sotto una pioggia incessante, campo pesantissimo, in tribuna c’è una vecchia gloria come “El Trenza” Palacio, con in braccio la figlia in maglia rossoblù. Sulla carta, un anonimo 0-0, ma si esce a piedi puntando Porta Nuova con la sensazione di aver raggranellato un altro punto prezioso. Siamo felici, quella sera.

 

E lo siamo ancor di più otto giorni dopo, l’indimenticabile sabato in cui il Bologna vince con la facilità che si sperimenta nei sogni in casa del Napoli, disastrato campione d’Italia. Quella notte si è in tremila, a occhio e croce (duemila per la Gazzetta, la questura non si pronuncia) ad attendere la squadra a Casteldebole fra cori, sventolii di bandiere e giochi pirotecnici in autogestione.

 

Il pullman arriva avvolto dai pennacchi dei fumogeni come un drago da capodanno cinese. Il modesto servizio d’ordine è preso alla sprovvista, si entra in massa nel centro sportivo, si fa festa con i giocatori sotto la direzione di uno scatenato Orsolini e di un Saelemekers compìto come un direttore d’orchestra.

 

Poi un orrendo presagio. Al coro “Chi non salta è juventino”, Thiago appare stranamente statico, Calafiori imbarazzato. Zirkzee, che a Napoli è uscito in lacrime, infortunato, è l’unico a non indossare la tenuta sociale. Nel giro di 24 ore, una Juve alla deriva si ferma sul pari contro la già retrocessa Salernitana, e anche la matematica dice Champions per i Rossoblù. A Bologna son caroselli fino a tarda notte, noi si pensa al profeta di Kinlochloven e a quanto sarà lieto di incassare la sua scommessa.

 

Hangover

A 180’ dalla fine del torneo la classifica recita Bologna terzo, Vecchia signora quarta, e il penultimo match in programma è proprio Bologna-Juventus.

 

Certo, l’Atalanta ha una partita da recuperare, ma l’opportunità di finire sul podio passa quasi in second’ordine rispetto all’occasione di battere i Bianconeri e chiudere il torneo davanti a loro. Capirete, la squadra più tifata d’Italia è giocoforza anche la più detestata, e preferiamo fermarci senza tirar fuori Davide e Golia. Al sodo: dall’arcaico 3-0 dell’epoca Signori, noialtri la si è sconfitta unicamente nel 2011 – l’anno di Delneri sulla panchina bianconera, l’ultimo prima dell’inaugurazione dello Juventus stadium e del ciclo-Conte – con una memorabile doppietta corsara di Marco Di Vaio. Una volta in tutto il XXI secolo, capirete.

 

La volontà di potenza prevale già sulle gioie semplici della vita? Il rischio del peccato di hybris è dietro l’angolo? C’è dell’altro, amici: si dice che Thiago sia già in parola proprio con la Juve. E che sia pronto a tirarsi dietro Calafiori. Zirkzee, invece, starebbe valutando seriamente una proposta del Milan.

 

In una settimana succede di tutto: al tramonto di un triennio modestissimo, Allegri vince la Coppa Italia e si trasforma in diretta in una furia. Si sfoga contro Giuntoli e la classe arbitrale, distrugge a calci un set fotografico, minaccia forsennato di staccare le orecchie al direttore di Tuttosport e di picchiarlo sul muso. Sa già di essere a fine corsa, e puntualmente viene sollevato dall’incarico.

 

A Bologna la Juve si presenta così guidata da Montero, e i Rossoblù la mettono sotto di prepotenza: uno, due, tre gol come ai tempi di Beppe. Sulle gradinate si piange di gioia, s’inneggia alla partita dei sogni, alla stagione perfetta. Si sperimenta una forma ancor più spericolata di felicità, forse. A un quarto d’ora dalla fine il tabellone mostra sempre l’irreale punteggio di 3-0.

 

“Fossero ancora qui nonna e zio Delmo” si pensa abbracciati agli amici. “E zia Wanda? La starà ascoltando alla radio?”.

 

Thiago, sempre avveduto nel gestire le rotazioni fino all’ultimo momento utile, ha già esaurito i cambi. Per concedere l’ovazione ai migliori in campo, ovvio, anche se i malpensanti ci vedranno altro. Fatto sta che la Juve risorge: accorcia, riapre la partita, pareggia. Si erano subite 27 reti in tutto il torneo, ce ne sono piovute addosso tre in otto minuti. Alla fine si rischia di prendere pure la quarta. Ma no, 3-3, partono i fuochi d’artificio e l’inno della Champions, e noi si esce dallo stadio stravolti. Lo “stato d’animo di chi è sereno, non turbato da dolori e preoccupazioni, e gode di questo stato” ormai è solo un ricordo. Euforia, frenesia, isteria, ecco cosa ci abita stasera, e già s’insinua l’ombra del rimpianto.

 

 

We can be heroes just for one day”

Ultima di campionato. In casa di un Genoa che non ha nulla da chiedere, il Bologna si presenta, sportivamente parlando, sazio e disperato: tra i festeggiamenti passati, la prospettiva della parata sul bus scoperto che si terrà di lì a pochi giorni e l’ormai certo addio di Motta, la squadra sembra aver perso ogni mordente.

 

2-0 per il Grifone, si scende dal podio, addirittura si chiuderà quinti, ma la nostra attenzione è tutta per il discorso di congedo di Thiago, il condottiero che ci ha portato più in alto che mai e che adesso, senza una ragione al mondo che faccia rima col sentimento, ci scarica. Parla di viaggi in moto verso la penisola iberica, assicura di non avere ancora preso decisioni, a un certo punto si emoziona e piange. Tutto molto umano, ma a noi resta addosso lo sgomento.

 

Il sabato del villaggio è passato. Questa è una triste domenica sera, e domani si torna a scuola, in caserma, in ufficio.
Ma siamo matti? Le strade di Bologna sono imbandierate, persino i bus inalberano vessilli rossoblù, e l’anno prossimo si gioca la Champions come annunciato dal profeta! Si badasse a realizzare sciarpe e gadget assortiti, a rinnovare l’abbonamento e tenersi liberi per le otto-partite-otto garantite dalla nuova formula del torneo!

 

Ed eccoci qui, a bocce ferme, che cerchiamo di interrogare questo hangover dell’anima.

 

Ci domandiamo trepidanti se Joey Saputo avrà voglia di investire ancora, se Sartori tirerà fuori dal cilindro del calciomercato altre sorprese, se arriverà Italiano, Palladino o chi altri a guidare la squadra. Ci compiace l’idea che bimbi portoghesi, danesi e turchi di sei o sette anni, la stessa età che avevamo noi quando il Bologna retrocesse la prima volta, sentiranno in tivù il nome della nostra squadra, della nostra città, e speriamo che almeno un po’ le si affezionino. E, naturalmente, speriamo di vender cara la pelle, di levarci soddisfazioni, di rinnovellare i fasti delle antiche trasferte con un briciolo di senno in più.

 

All’improvviso ci viene da sorridere ripensando alle notti di fine anni ’90, quando eravamo ragazzi e dalla curva s’intonava un goliardico incitamento per Beppe, Carlo Nervo, il povero Klas Ingesson e tutti gli altri: “La coppa UEFA non basta più, vogliàm la Champions League!”.

 

Eccola. Ci siamo. Siamo carichi? Hai voglia, carichissimi! Ma ormai sappiamo che la felicità è un’altra cosa, che si vede solo nello specchietto retrovisore perché abita sempre nel passato, negli almanacchi e negli album, in una vecchia bandiera che rispunta a sorpresa dagli scatoloni di un trasloco e nelle riprese video d’epoca. (Come cantava Bowie? “We can be heroes just for one day”. Appunto).

 

Non è questione di struggersi nella nostalgia, ma di una consapevolezza dolceamara forgiata dall’esperienza: la felicità, quella vera, esiste solo nel ricordo. Dunque, a rigor di logica, non può spingerci in avanti.

 

A indirizzarci verso il futuro deve provvedere una virtù che i tifosi, quali che siano i loro colori, conoscono da sempre. Il suo nome è speranza.

 

 

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Enrico Brizzi (Bologna, 1974) è un narratore noto per il suo romanzo d’esordio “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”. Attualmente è al lavoro sul sequel di quella storia, in uscita a settembre per HarperCollins Italia. Ha quattro figlie, ritiene i Blur superiori agli Oasis, e una volta è andato a piedi dall’Alto Adige alla Sicilia.