L’eleganza non è frigida
Tokyo 2020 (21) è stata davvero un’Olimpiade d’eccezione, incomparabile a (quasi) ogni altra. E lo è stata soprattutto in quanto terza (o meglio quarta) Olimpiade in età epidemico-pandemica.
Le prime due ci riportano all’Olimpia di età arcaico-classica, con le edizioni del 428 e 424 a.C. collocate durante e poco dopo la “peste di Atene” raccontata da Tucidide (430-26), una devastante epidemia il cui agente patogeno è ancora dibattuto (peste bubbonica, tifo, febbre emorragica o tifoidea), che uccide da un terzo a due terzi della popolazione ateniese, serrata tra le mura della città - su ordine di Pericle- per affrontare il nemico spartano nel secondo anno delle “guerre del Peloponneso”. Per Diodoro Siculo, quelle sono le Olimpiadi di Simmaco da Messina, “homo fortis” vincitore due volte della “corsa veloce”; l’antefatto ancestrale di Lewis, Bolt, Jacobs.
Ma anche la terza, quella di Anversa 1920, un secolo fa esatto- che sembrerebbe avvicinarsi a una specie di passato prossimo- suona a sua volta, in epoca di “presentismo” postmoderno, quasi preistorica. Eppure, quell’Olimpiade differita sul lungo periodo (tra aprile e settembre) condivide diversi tratti con Tokyo 2020, in quanto svolta sulla coda della Spagnola, la “Big Flu” che miete decine di milioni di vittime e contagia 500 milioni di persone su una popolazione globale di 2 miliardi. Il punto è che la Spagnola- anche per la diversa cultura epidemiologica del tempo- viene velata e relativizzata dalle atrocità della Grande Guerra, che miete meno vittime (8 milioni e mezzo, con 21 milioni di feriti) ma esercita una pressione psicosociale più profonda. Basti dire, per sintetizzare le gerarchie percettive, che uno degli outbreak decisivi di H1N1 avviene nelle oceaniche feste dell’Armistizio, novembre 1918, con masse festanti dovunque incontenibili per strade e piazze, molto blandamente disciplinate dalle autorità.
Sostituendo Parigi, ancora troppo prostrata, Anversa viene eletta, proprio come Tokyo 2020, a luogo-simbolo di “ripartenza” e “rinascita”, tra spinta effettiva e volontarismo retorico. E in effetti, nonostante tutto il torneo si svolga in un’atmosfera di diffusa cupezza, quasi depressiva- accentuata dalle piogge costanti e battenti- la città reagisce, con le molte bandiere che si stagliano sulle macerie urbane (tra cui, per la prima volta, quella coi cinque cerchi, disegnata da De Coubertin) e una vita sociale che vede riaprire locali, cabaret, sale da ballo.
Parata olimpica ad Aversa.
A Tokyo 2020, la partenza è più incerta e conflittuale, con una parte consistente dell’opinione pubblica e il Comitato di Toshiro Muto contrari e diffidenti fino all’antivigilia. In questa diffidenza incide certo la “memoria” antropologica di un Paese per secoli isolato geograficamente, e quindi immunologicamente, con effetti ambivalenti: da un lato il vantaggio (spesso solo iniziale) della preservazione da tanti outbreak epidemico-pandemici; dall’altro, una maggiore fragilità immunitaria a livello di popolazione, con tempi più estesi nel rendere endemici tanti agenti patogeni. Ma se tutto questo si è sedimentato via via nella cultura popolare, alimentando visioni come quella degli indigeni Ainu - per cui il vaiolo è una divinità che dissolve i confini tra celeste e terrestre e i contagiati sono degli “spettri” che infettano i viventi, come nei kwaidan, le “storie di fantasmi” di cinema e letteratura-, tale visione è stata poi contrastata e sovvertita da un razionalismo scientifico di importazione occidentale, come riassume la figura dell’eminente medico-batteriologo Kitasato, “allievo” di Robert Koch e co-scopritore, nel 1894, del batterio della peste. Il quietarsi del contrasto è passato anche per imposizioni autoritarie: nell’ultima fase dello shogunato Tokugawa la cultura del vaccino è stata imposta, esortando gli Ainu a essere “meno primitivi” e “più giapponesi”: ma da tempo il “no vax” mesmerico è relegato al folklore.
Il ritardo vaccinale che alimenta la diffidenza preolimpica nell’avvicinarsi di Tokyo 2020 è quindi da collegarsi soprattutto a fattori più pragmatici: al fatto che per lungo tempo i numeri (di contagi come di decessi) sono stati piuttosto bassi, tali da poter presupporre una gestione pandemica solo ingegneristico-sociale, con mascherine, lockdown e controlli sui trasporti); una gestione però insostenibile davanti all’“invasione” di atleti e addetti di tutto il mondo. In realtà, grazie all’implacabile rigore burocratico-logistico del Paese, i dati di questi giorni mostrano come l’inevitabile incremento sia stato e sia molto contenuto; e alla fine sembra che in Giappone- dall’Imperatore ai suoi sudditi- prevalga l’orgoglio di aver ospitato e organizzato proprio un’Olimpiade d’eccezione.
Tra le altre chiavi dell’eccezionalità- oltre al salto hi-tech, perfettamente in tono con la megalopoli che ha ispirato le scenografie dark di Syd Mead per Blade Runner (come vedremo poi) quella decisiva consiste proprio nel vedere quella cornice burocratico-cerimoniale incessantemente increspata e agitata da un’intensità affettivo-emotiva (di gare, record, storie sottostanti) espressa poche volte a questa continuità e intensità, forse proprio perché troppo a lungo compressa dalla stretta pandemica. Parafrasando un famoso libro di Parise sul Giappone, si può dire che mai l’eleganza sia apparsa meno frigida.
Le luci dell’Italia…
Il record di medaglie dell’Italia - un rotondo 40 - è un concentrato di sequenze mosse da quell’intensità affettivo-emotiva e dalle relative storie sottostanti. Molte di quelle medaglie hanno volti italiani nel senso di un’antropologia da cinema, tra neorealismo e visione pasoliniana. Sono i casi di Irma Testa, la pugile di Torre Annunziata che il coach Lucio Zurlo porta a un grande bronzo nei leggeri, “richiamo”- più che degli ori e egli argenti di supermassimi e massimi come Cammarelle e Russo - di un altro bronzo, quello del minuscolo Vincenzo Picardi da Casoria (mosca, a Pechino 2008); di Maria Centracchio, bronzo nel judo («Il Molise esiste ed è forte»); di Diana Bacosi, che emerge da un tunnel depressivo nel periodo pandemico per arrivare a un argento più “pesante” dell’oro di Rio; e degli ori “pugliesi”, da quello di Vito Dell’Aquila (che sconfigge nella finale di taekwondo -58kg il favorito tunisino Jendoubi) a quelli della marcia, con Stano e la Palmisano lungo la grande linea tracciata da Frigerio, Dordoni, Pamich, Damilano, Brugnetti (amico e maieuta di Stano) e dalle piemontesi Perrone e Rigaudo (quest’ultima ispirazione per la Palmisano).
Ma non c’è dubbio - fuori da ogni ipocrisia - che l’immagine destinata a depositarsi come icona italiana di Tokyo 2020 sia l’abbraccio Jacobs-Tamberi dopo i dieci minuti (21.42-21.52 ora nipponica) più irreali dello sport italiano: irreali nel senso di iper-reali, tali da richiedere il ricorso, per protagonisti e spettatori, alla cosiddetta “sospensione dell’incredulità” (suspension of disbelief nell’espressione originaria di Coleridge); quell’artificio che ci permette di ritenere plausibili i poteri dei supereroi o gli eventi “fuori parametro” rispetto all’orizzonte delle nostre aspettative psicologiche.
Quell’abbraccio è un “doppio” (un’eco) impressionante di quello tra il Mancio e Vialli a sigillo di Euro 2020, dato che avviene di nuovo tra un marchigiano e un lombardo: là uno iesino (il Mancio) e un cremonese (Stradivialli); qui un ragazzo di Civitanova Marche e uno del Garda bresciano (Desenzano) per parte di madre (padre texano di El Paso).
È inutile tornare a quei dieci minuti che comprimono l’oro di Tamberi in ex-aequo col qatariota Mutaz Barshim (a 2,37 metri d’altezza) e quello astonishing di Jacobs sui 100 (9’’80, mai prima un italiano in finale), su cui esistono già biblioteche e scanning molecolari. Piuttosto, può essere utile spostarsi nel fuoricampo, nell’“ombra” di quell’abbraccio, per seguire altre due sequenze su due figure attigue, quella di Barshim stesso e di Filippo Tortu.
…e l’elogio dell’ombra
Per capire l’incidenza profonda dell’amicizia/rivalità tra Barshim e Tamberi bisogna tornare per un attimo ai giorni precedenti la finale dei 200 a Mosca 1980, quando un mito come Valerij Borzov, da poco costretto al ritiro per le conseguenze di un infortunio, visita l’amico/rivale Pietro Mennea al villaggio olimpico, e questo poco dopo che il barlettano- arrivato lì, per sua stessa ammissione, “molto teso” e frastornato dal clima da Guerra Fredda- è appena uscito nella semifinale dei 100, indice di uno stato di forma che non fa presagire meraviglie nemmeno per la “sua” gara, i 200. L’incontro è una colazione cui partecipano Franco Carraro, il professor Dalmonte, i giornalisti Giacomo Crosa e Gianni Merlo, mediatore-officiante; menù: spaghetti al salmone cucinati dal lottatore siciliano Caltabiano, lo “scudiero” di Pietro, accompagnati solo dalla vodka donata da Borzov all’amico (insieme all’orsetto misha, mascotte dei giochi). I due velocisti a un certo punto cominciano a conversare su tutto, come ricorderà Mennea stesso: non solo si confrontano sul bipolarismo politico, abbattendo quel muro «che altrove sarebbe caduto molto più tardi» (con Borzov che nota con amarezza come la “grande libertà” occidentale troppe volte resti “carta bianca, un bene prezioso inutilizzato”), ma approfondiscono “lungamente” tutti “gli aspetti tecnici” dei 100 appena conclusi e dei 200 in arrivo. Quell’incontro non sarà forse l’unico fattore ad alimentare il riscatto, la vittoria del 28 luglio (Mennea ricorda anche il lungo “isolamento” e l’auscultazione interiore, insieme al rigetto dei giornali), ma acuirà la sicurezza (la “volontà di potenza”) necessaria per raggiungerla. E che Borzov, sapendo di avervi contribuito, sigillerà con un commento da par suo sulle tribune, a gara appena finita: «Il diamante ha ritrovato finalmente la luce».
Mennea e Borzov
Per molti aspetti è quello che accade (su tempi più lunghi) fra Tamberi e Barshim, secondo un flashback (il fuoricampo) rievocato dall’atleta italiano il giorno dopo l’oro. Bisogna risalire al 15 luglio 2016, meeting Herculis di Montecarlo: un Tamberi in stato di grazia vince con 2,39 metri, ma poi, tentando la misura dei 2,41 metri, lede il legamento deltoideo della caviglia sinistra, con conseguente forfait agli imminenti giochi di Rio, dove sarebbe stato tra i favoriti. Comincia per lui un lungo percorso ibrido, tra il Calvario e l’incubazione della rivincita, in cui la “stazione” decisiva è misconosciuta.
Siamo ora nell’estate 2017: dopo un anno di tormentata rieducazione, Tamberi rientra in gara, prima a Ostrava (2,20 metri) poi a Parigi, dove naufraga, chiudendosi in albergo e disperando di tornare ai suoi livelli. Il giorno dopo, alla porta della stanza un bussare insistito: è Barshim, che non demorde davanti alla resistenza di Tamberi («Gimbo, Gimbo, per favore, voglio parlarti») e riesce a farsi ricevere. Un Tamberi in lacrime gli si abbandona, come un paziente riluttante a un analista tenace: e Barshim, che ne ha a sua volta passate di ogni (la lunga odissea dopo la frattura alla quinta vertebra lombare) e altre ne passerà (un infortunio alla caviglia in un meeting ungherese 2018 in cui sfiora il mondiale a 2,46 metri) lo invita a una rielaborazione progressiva: «Non precipitarti, hai avuto un grave infortunio, ma sei già di nuovo in Diamond League. Nessuno se lo sarebbe mai aspettato. Ora devi prenderti il tuo tempo, non pretendere troppo da te stesso all’inizio». Da lì, il Calvario diventa solo incubazione della rivincita, con Gimbo che si iscrive all’ultim’ora (e in segretezza) a un meeting di Budapest, iniziando a gareggiare in un tutt’altra prospettiva mentale.
Anche in questo caso, l’incontro parigino e il rinsaldarsi successivo dell’amicizia con Barshim non saranno stati l’unica spinta motivazionale della “road to Tokyo” (scritta incisa sul gesso-cimelio del 2016): avranno contato la perizia degli ortopedici, la pazienza e l’ossessività del padre-coach Marco (a sua volta altista a livello nazionale), il rapporto con la compagna Chiara (che lo convince ad abbandonare la rasatura rituale half-shave). Ma certo sarà stato tra quelli decisivi, come si apprende al momento-clou della gara di Tokyo, quando la “consultazione” a tre per l’oro ex-aequo viene interrotta dalla mano tesa di Mutaz. Subito dopo, le due esultanze opposte; Gimbo che avvinghia scompostamente l’amico/rivale e esplode in una corsa-danza estatica da uomo-ortottero; Barshim (che ha distrutto in gara varie paia di cyber-occhiali da X-Man) col cappellino obliquo e un quieto sorriso luminoso, felice per sè stesso e per l’amico, a sigillare un doppio riscatto, un oro pacificante per tutti e due.
Se la luce di Gimbo ha potuto irradiarsi grazie al “lavoro nell’ombra” di Barshim, Filippo Tortu a Tokyo nell’ombra è precipitato rischiando di restarci: un altro tipo di ombra, coincidente con l’“oblio” secondo gli antichi greci, in una spirale accelerata fino a pochi anni prima - o anche solo pochi mesi - inimmaginabile.
Il break - il trauma - è presto riassumibile. Fino a tutto il 2020, Filippo Tortu è “il” velocista italiano, l’erede dei Berruti e dei Mennea; come ratifica il mitico spot-Fastweb (“questo ragazzo è l’italiano più veloce di sempre”) è l’atleta che ha attraversato il muro dei 10 secondi (9’’99 a Madrid, 23 maggio 2018). Poi, nel 2021 - in un crescendo prepotente - l’outsider Lamont Marcell Jacobs lo ridimensiona da protagonista a deuteragonista e poi a comparsa: il 6 marzo (a Torun, Polonia) vince i 60 indoor in 6’’47, record italiano e mondiale stagionale; il 13 maggio a Savona (tradizionale feudo di Tortu) porta il record italiano dei 100 a 9’’95; e a Tokyo lo abbatte portandolo a 9’’94 in batteria, a 9’’84 in semifinale, a 9’’80 in finale. Intanto, Tortu esce malinconicamente in semifinale (7° in 10’’16). Lì, il ragazzo entra in un “punto critico”, una di quelle soglie che possono separare la tenuta dall’implosione.
Anziché abbandonarsi a un legittimo crash mentale e magari alla schadenfreude verso Jacobs (infatti si parla di rapporti cariati tra i due), aspetta nell’ombra l’occasione della staffetta, comprendendo - con intelligenza e realismo- che proprio Jacobs potrebbe aiutarlo a uscirne, a permettergli di dimostrare intatto, se non accresciuto, il proprio valore. Certo lo sostengono i compagni, il bravissimo tecnico Filippo (anche lui) Di Mulo, l’ambiente tutto. Ma lui raduna e comprime le forze, liberandole in batteria e semifinali, ma soprattutto nella finale. Una finale giustamente scannerizzata in ogni dettaglio, in cui le sincronie dell’ensemble (i magistrali “cambi asimmetrici”) e le performances individuali (la tenuta in curva di Desalu) culminano nella frazione-monstre di Jacobs (8’’925, con qualche metro in più degli altri, secondo canone del secondo frazionista) e nel fantastico 8’’845 di Tortu, l’“anchor leg” che si mangia Mitchell-Blake per un centesimo, ennesimo schiaffo ai britannici. In questa frazione conclusiva, anche lui echeggia il Mennea di Mosca: sia per il “recupero” (meno esteso ma ugualmente elettrico), sia per il riscatto dalle semifinali dei 100.
Vedere Filippo Tortu a fine gara cianotico, incontenibile come Gimbo nel suo marasma estatico, è stata un’altra, memorabile lezione sull’ombra e sulla sua ambiguità: regione dello spazio che può annientare come nutrire rinascite.
Iperborea: il vento del Nord…
Col termine Iperborea- dall’antichità classica al Settecento illuminista e oltre- si è indicato un “nord” remoto, insieme mitico e reale, volta a volta coincidente con Atlantide, la favolosa isola di Thule (ripresa da Guccini), la “prima casa degli ariani” (!?), varie porzioni-combinazioni geografiche di Nord Europa. Alla fine, la si collega soprattutto alla definizione di certi classici greci (come Aristotele e Strabone) che la identificano con l’attuale Scandinavia o il Nord Europa in genere; definizione adottata dall’omonima, meritoria casa editrice italiana fondata da Emilia Lodigiani, e che sembra ricondursi anche all’etimo (terra “oltre il vento del nord”). Cioè il vento che a Tokyo 2020 è stata la vera, profonda irruzione sull’Olimpiade.
Nell’atletica, storicamente, i fuoriclasse e i campioni nordici si sono espressi per lo più in ambiti specifici: tra le corse, mezzofondo e fondo (da Nurmi a Lasse Viren, finlandesi); tra i concorsi, soprattutto il giavellotto (vedi, negli ultimi anni, il finnico Pitkämäki e ancora più il norvegese Thorkildsen, 2 ori olimpici e 1 Mondiale tra 2004 e 2009). Tra i talenti in altre discipline, gli svedesi Holm (altista) e Carolina Klüft, meravigliosa regina dell’eptathlon. A Tokyo, invece, l’impatto è stato inedito per consistenza di risultati e varietà di discipline, anche se solo in ambito maschile; in ambito femminile, l’unico vero acuto olimpico è l’argento svedese del calcio femminile (sconfitta ai rigori col Canada). In più, coi finlandesi in questo caso out (due bronzi in tutta l’Olimpiade), quell’impatto è stato un’esclusiva di Svezia e Norvegia.
In ordine crescente, un primo livello si è avuto nei lanci. Nel martello, il norvegese Elvind Henriksen ottiene l’argento inserendosi tra i polacchi Nowicki e Fajdek, esponenti di una “scuola” recente che ha nella pluriprimatista Anita Wlodarczyk (ovviamente oro anche a Tokyo) l’atleta di punta. Nel disco, invece, si impone la diarchia svedese composta da Daniel Stahl (oro con 68,90 m., ottima misura anche se lontano dal suo personale di 71,86) e Simon Pettersson (argento con 67,39). Stahl (argento Mondiale a Londra ’17 e oro a Doha ’19) potrebbe avviare una lunga egemonia, com’è successo in passato a colossi come lo yankee Al Oerter o il tedesco Robert Harting.
Il secondo livello ci porta al mezzofondo e al fondo, ovvero al norvegese Jakob Ingebrigtsen, che ad appena 20 anni è già un semidio del settore, mostrando una non comune polivalenza. Infatti, nonostante nel 2021 sia primatista mondiale dei 5000, decide di presentarsi a Tokyo sui 1500, disciplina di cui si sente più padrone e dove comunque vanta già un europeo 2018 vinto a 17 anni. Fin dalle batterie, si muove da predestinato, esibendo un controllo e una plasticità (di cadenza e tattica) che da sempre l’hanno reso adatto sia a gare “selettive” ad alto ritmo che a gare più lente con rush conclusivo: vince la finale con elegante, algebrica spietatezza e gran tempo (3’28’’32, record olimpico ed europeo) mettendosi dietro il fenomenale keniano Cheruiyot e il 23enne britannico inglese Josh Kerr, ennesimo erede di una scuola leggendaria.
Il “caso Ingebrigtsen” per inciso, è anche una prova a favore della (controversa) “regola delle 10.000 ore”, esposta da Malcolm Gladwell in Outliers (Fuoriclasse), cioè il minimo sindacale di addestramento (quantitativo e qualitativo) necessario a ogni talento per arrivare all’eccellenza in ogni disciplina, Mozart incluso. Le evidenti predisposizioni genetiche del ragazzo (a partire da una morfologia e una complessione da longilineo aggraziato, 182 cm. per 70 kg.) vengono infatti subito sollecitate fin dall’infanzia dal padre Gjert, già coach (autodidatta) dei due fratelli maggiori di Jakob, Henrik e Filip, a loro volta ori europei di mezzofondo e fondo tra 2012 e 2016. Dopo lo “svezzamento” di Jakob bambino (8 anni) fra le strade di Sandnes (cittadina di 80.000 abitanti a 15 chilometri da Stavanger, celebre per il Preikestolen, il Pulpito, suggestivo sperone a strapiombo sul mare cobalto), “padre Gjert” ne imposta un allenamento che passa per una routine ferrea (2 sedute al giorno per 130 chilometri alla settimana) e per personalizzate pratiche-standard, come lo schema “live high, train low” (vivi in alto, allenati in basso) svolto anche tra Sankt Moritz e Chiavenna, dove il “team Ingebrigtsen” - titolo di un docu-fiction norvegese sulla famiglia- è ormai di casa.
Il futuro gli appartiene: africani permettendo, secondo i canoni di una contesa antica. Ma ci sono atleti di Iperborea che nel futuro hanno già fatto irruzione: l’astista svedese Armand Duplantis e un altro norvegese, l’ostacolista dei 400 Karsten Warholm.
A sua volta parte, come Gimbo e Ingebrigtsen- di una famiglia estesa di sportivi, “Mondo” Duplantis (nickname che contrae Armand) segue un’educazione anfibia, secondo le identità antropologico-culturali dei genitori. Il padre Greg, a sua volta ex astista (personale di 5,80 m.) è di Lafayette, Louisiana, ma di ascendenza Cajun, i canadesi francofoni originari dell’Acadia, la regione della Nuova Scozia occupata da migranti ugonotti, “deportati” in Louisiana nella seconda metà del Settecento e qui aggregati con migranti spagnoli e tedeschi a loro volta adattati al francese. Il termine Acadia, tra l’altro, ha genesi contesa: forse viene dall’opera Arcadia di Sir Philip Sidney, forse (o più probabilmente) è la versione francese di algatig, vocabolo usato dai nativi americani mi’kmaq. La madre, Helena Hedlund, è stata eptatleta (come la Klüft) e giocatrice di volley, e non meno decisiva del marito Greg nell’avviare allo sport gli altri figli, cioè i fratelli maggiori di Armand, Andreas (altro astista) e Antoine (baseball), oltre alla sorella minore Johanna.
Questa doppia identità (armonizzata) segna tutta la parabola di “Mondo”: da bambino apprende l’inglese e lo svedese, anche se riuscirà a sbloccarsi in pubblico, sulla lingua materna, solo dopo il recente oro di Tokyo; trascorre gli inverni in Louisiana e le estati a Uppsala, secondo funzionalità climatica al training; e la scelta di gareggiare per la Svezia anziché per gli USA- nonostante il suo “profondo radicamento” a Lafayette- non dipende solo dalla scelta di bypassare l’ambiguità selettiva dei Trials, ma anche dalla pervasività della matrice svedese: “Mondo” ha di recente confessato che quando ad Avesta (città della madre) il comune ha issato una barra con la misura del suo mondiale (6,15 m.) davanti al più grande Dala Horse di Svezia (il cavallino ligneo del folklore nazionale), non ha potuto fare a meno di «sciogliersi in lacrime».
È anche la controprova di come dietro il suo volto da “fauno dagli occhi curiosi” (secondo efficace espressione di Giorgio Cimbrico) e sotto il suo stupefacente controllo corticale da adulto precoce, si agiti - domato ma tutt’altro che sopito - un pathos infantile-adolescenziale. Lo stesso che aggalla all’ascolto degli amati Eagles per gasarsi (Take It to the Limit) o nelle mimesi geniali dei salti di amici/rivali come il quasi conterraneo Kendricks (Mississippi) o del grande Lavillenie.
La sua crescita e la sua evoluzione hanno gli stessi tratti “mozartiani” di Ingebrigtsen, dove l’aggettivo si riferisce sia a un paternage didattico severo, sia alla lievità della corsa e del gesto: comincia a saltare con l’asta a 3 anni (!?); al primo 1,50 m. superato viene filmato da Greg; a 7 passa 2, 33 m.; a 12 abbandona deviazioni possibili (calcio o baseball) e diventa “professionista”. In continuità con questa precocità inquietante, il suo crescendo- dal 2015- è costante per misure e per messa a fuoco tecnico-stilistica, fino all’annus mirabilis 2020, in pieno COVID, coi record indoor (6,17 m. a Torun, 6,18 a Glasgow) e outdoor (6,15 al Gala di Roma) e un totem-tabu come Sergej Bubka (di cui Duplantis condivide le “proporzioni” morfologiche: 1,81 m. per 79 kg. versus 1,83 per 80 dell’ucraino) dimensionato da Everest a K2.
Con lo stesso Bubka, “Mondo” condivide del resto- anzi, se possibile lo sopravanza- il raggiungimento di una sintassi di corsa/salto in cui forma e funzione diventano tutt’uno: come ricorda sempre Cimbrico, gli ultimi 15 metri di rincorsa producono l’“effetto fionda” necessario, mentre le sequenze del salto - ascensione, capovolta, avvolgimento- vengo legate in un continuum senza cesure. Oltre alla lievità mozartiana, qui c’è l’essenzialità di una linea Bauhaus, tale da rendere gli altri astisti dei disegnatori disperatamente tortuosi.
A Tokyo- in assenza di Kendricks, positivo al SARS-CoV-2- Duplantis vince per distacco (6,02 m.) sfiorando di niente il nuovo mondiale a 6,19 metri. Ma misure anche superiori- la barriera dei 6,20 e oltre, come l’infinito di Buzz Lightear- sono solo questione di quando, non di se.
…e il “buco di verme” nella GOAT delle corse
È facile ma inevitabile, introducendo Karsten Warholm, collegarvi un’altra icona dell’abnorme, quella del calciatore Erving Haaland, paragonato giustamente da Emanuele Atturo a un “troll” delle saghe norrene. Poche figure, in effetti, possono condensare simbolicamente allo stesso modo, almeno a livello pop, l’irruzione di Iperborea nello sport di oggi.
Anche per Warholm- tra la filologia, il tòpos e il fumetto- sono state evocate analogie suggestive: i vichinghi, Thor col martello mjöllnir o- anche questa facile quanto inevitabile- L’urlo di Munch per la stupefazione facciale dell’atleta (speculare a quella di molti di noi a casa) davanti al tempo dell’oro di Tokyo. In realtà, Warholm è un ragazzone provinciale, che non può nemmeno contare sulla nascita “mitologica” di Haaland (concepito sulle panche dello spogliatoio di Leeds dal difensore Alf-Inge e dalla compagna Gry Marita). La sua Ulsteinvik, per quanto fiabesca (un arcipelago tra le montagne raggiungibile solo via nave o tunnel sotterraneo, eletto nel 2012 a borgo più attrattivo di Norvegia) è un paesucolo di 6.000 abitanti; anche se prima di lui, tra i locali, sono ascesi a una certa notorietà il portiere della Nazionale femminile di calcio a Pechino 2008, Erika Skarbo (figlia di Dag, Direttore della Rolls Royce Marine) e il fumettista underground Oysten Runde, che accosta nei suoi graphic novel Ibsen e gli zombie.
La parabola di Warholm non è seducente come quella di “Mondo” o del team Ingebrigtsen. O meglio, ne tornano diversi tratti, ma in modo più dimesso: comincia anche lui a allenarsi a 8 anni, ma senza alone di predestinazione; i suoi genitori (Mikal e Kristine Golin Haddal, madre-manager) sono sullo sfondo, tanto che si stenta a reperirli in qualche foto di rotocalco norvegese (VG) o nel caotico filmato Youtube sull’esultanza di parenti e amici post-oro; e la sua progressione di risultati dai tempi juniores in su è inesorabile ma più lenta, se a Rio- a 20 anni- non entra nemmeno in finale.
Identica invece, è l’adeguatezza morfologico-funzionale rispetto alla disciplina praticata: con la sua complessione armonica (1,87 m. per 80 kg.) Warholm è un atleta “classico”, fuori dal tempo, da Momenti di gloria; e identica è l’intensità dell’allenamneto, da lui stesso riassunta: 6 giorni su 7 con 3 a maggiore intensità (lunedì-mercoledì-venerdì: sprint, ostacoli, pesi, lavoro pliometrico di allungamento-accorciamento muscolare) e 3 a minore (sessioni più brevi, con più intervalli o tapis-roulant). Il tutto integrato dagli energici schiaffi che si assesta su corpo e viso, e che in gara diventano il suo surplus psico-agonistico.
Per capire la GOAT delle corse del 3 agosto - e l’irruzione di Warholm -, bisogna contestualizzarla storicamente. L’evoluzione dei 400 ostacoli ha avuto altri break scioccanti o barriere abbattute, spesso legati a personalità quali “letterarie”, tanto da farne una delle discipline più avvincenti: l’oro-monstre (48’’12) di David Emery a Messico ’68, col tedesco Gerhard Hennige (argento) staccato di un secondo. Il muro dei 48’’ abbattuto 4 anni dopo dall’ugandese John Akii- Bua (47’’82), atleta dalla vita breve e infelice, a lungo perseguitato dal dittatore Idi Amin Dada, geloso della sua notorietà. La lenta erosione del “secondo” successivo da parte di Edwin Moses, fisico-ingegnere che rifonda la disciplina (vedi i “13 passi” sistematici tra gli ostacoli), ma non riesce a sfondare il muro dei 47’’ (si ferma a 47’’02), sgretolato da Kevin Young a Barcellona ’92 con un primato (46’’78) durato quasi 30 anni, fino a Warholm. Niente di tutto questo, però, è lontanamente paragonabile alla corsa del 3 agosto, in cui non solo viene abbattuta una barriera, quella dei 46’’, situata nel futuro (Warholm scende a 45’’94), ma anche il secondo (l’americano Rai Benjamin, 46’’17) demolisce il primato “in vigore” prima della gara (46’’70, dello stesso Warholm a Oslo, maggio di quest’anno) e il terzo (il brasiliano Dos Santos) lo sfiora di 2 centesimi. Né, a detta di atleti e addetti, il discorso cambierebbe se si evocassero break di altre corse e persino altri concorsi-monstre: l’8.90 di Beamon nel lungo, sempre a Messico ‘68; il “quadruplo” shock di Bolt tra Pechino 2008 e Berlino 2009 (coi 100 abbassati a 9’’58 e i 200 a 19’’19); il giro in apnea di David Rudisha negli 800 a Londra 2012 (1’41’’01).
In più, un dettaglio “interno” a Tokyo 2020. In questa Olimpiade, sono caduti nell’atletica 3 primati: oltre ai 400 ostacoli maschili, il triplo femminile (15,67 m. della venezuelana Rojas) e i 400 ostacoli femminili, in un’altra gara-break, con l’americana Sidney McLaughlin che porta il suo stesso mondiale di 51’’90 (quest’anno a Eugene) a un incredibile 51’’46, la seconda classificata (l’altra fuoriclasse americana, Dalilah Muhammad) a 51’’58 e la terza (la ventunenne olandese Femke Bol) a 52’’03, record europeo. Di fatto, una gara-clone di quella maschile, ma in versione minore, e quindi parzialmente (ma fatalmente) oscurata da quella.
La gara del 3 agosto (soprattutto per chi l’abbia vista in tempo reale, in Italia alle 5.20 del mattino) richiede qualcosa di più della “sospensione dell’incredulità”. È uno “stargate”, una porta verso altri mondi. A dirla tutta, Warholm è quasi l’anagramma del wormhole (letterale, “buco di verme”) meglio noto come “ponte di Einstein-Rosen, il “cunicolo spazio-temporale” impiegato in tante opere di Science Fiction (per esempio in Interstellar) per connettersi a altre epoche o altri universi. La gara, quindi, somiglia a una (pre)visione, a un’allucinazione: è come se Warholm e i suoi avversari ci avessero mostrato una gara che avverrà, ma con la vividezza di contorni e di dettagli di una gara che avviene, che è avvenuta.
E questa percezione-sensazione resta, come un residuo tenace, anche rivendendola e riportandola dentro i margini storici, biologici, tecnici, psicologici: la notte insonne di Warholm e Benjamin, il norvegese che dirà di aver provato «la stessa sensazione della vigilia di Natale a 6 anni» (e sappiamo quanto i nordici sentano quella ricorrenza); la partenza folle di Warholm che vuole “stressare” gli avversari, col suo brand canonico di stile e cadenza (l’attacco mancino rasente all’ostacolo, i 13 passi, che diventano 15 tra il 9° e il 10°); Benjamin che cerca di seguirlo, ma- dirà alla fine- sbaglia un calcolo di passi prima del quarto ostacolo e perde centesimi fatali; Mc Master (altro fuoriclasse) che invece si trattiene, perché «andare oltre Warholm e Benjamin sarebbe stato un suicidio»; Benjamin che sembra recuperare negli ultimi metri e Warholm che non solo non cede, ma riaccelera; il “dopo” come un “oltre” indomabile dalla ragione, con Warholm trasfigurato (la canotta sbrecciata) che traveste di mistica quello sforzo ai limiti della fisiologia («avrei potuto morire per quella medaglia») e Benjamin in lacrime, a sua volta schiantato dalla suspension of dislief, che si abbandona in lacrime a una resa attonita («It’s a lot to process») sentendosi forse come Tyson Gay a Berlino (9’’71 contro il 9’’58 di Bolt).
Tra le tante immagini della corsa, una si staglia: quella frontale dell’arrivo, gli atleti a formare una spina di pesce, una V perfetta con Warholm al vertice e gli altri atleti ai lati a distanze perfettamente simmetriche; a sfrangiarla, sulla destra, il solo Sibilio, ultimo della gara come un osservatore, un testimone. La “scena” - congelata- è illuminata da una luce kubrickiana, comunque aliena, a sigillare il passaggio dimensionale.
Tokyo-tech: La “guerra delle scarpette”
In continuità con la spinta innovativa di Tokyo 1964 - Olimpiade in cui appaiono il primo calcolatore, un mastodontico Ibm governato da 240 tecnici; la prima pista a 8 corsie; i primi cronometraggi elettronici-, anche Tokyo 2020 si è distinto per l’hi-tech con novità sui materiali della pista e delle scarpette, invocate per spiegare la gara GOAT e altre performances eclatanti nella corsa.
Nell’uno e nell’altro caso le innovazioni hanno inseguito due obiettivi: l’assorbimento dell’urto (dell’attrito) e la restituzione dell’energia all’atleta, favorendo la propulsione. Ma mentre sulla pista c’è stata unanimità di gradimento, sulle scarpette si è scatenata invece una guerra, soprattutto di una fazione verso un’altra. Qualche dettaglio può aiutare a dirimere la questione.
La pista Mondotracks Ws dell’azienda-leader Mondo di Alba (si, proprio come il nomignolo di Duplantis) è il risultato di una ricerca biennale svolta in sinergia coi laboratori Asics di Osaka. Ha una superficie di 14 millimetri, divisa fra uno strato superiore di 6 (composto da granuli TY e materiali semi-vulcanizzati per garantire il loro legame molecolare) che offre un grip ideale, coniugando appunto assorbimento degli urti e ritorno di energia nella fase di spinta; e uno strato inferiore di 8 (composto di bolle d’aria) per creare dei “vuoti sotto pista” e migliorare “l’elasticità della risposta”.
Questo equilibrio dinamico tra assorbimento e feedback di energia è appunto l’obiettivo anche di tutte le nuove scarpe (andando quindi ad aggiungersi a quello offerto dalla pista); un obiettivo ottenuto per lo più con plate in carbonio (più larghe della pianta) che aumentano la stabilità negli appoggi e la propulsione. Solo che ogni marchio cerca la propria via e i propri “ritocchi” segreti.
Warholm si è affidato alla Puma (in sinergia con la Mercedes per la ricerca sulla fibra in carbonio), intervenendo in prima persona insieme al suo coach, l’anziano guru Leif Olav Alnes, per il design e l’affinamento della resa biomeccanica. Il suo rivale Rai Benjamin e altri utilizzano invece delle Nike Air Zoom Victory, che sotto la plate in carbonio dispongono uno strato “altamente elastico” di schiuma (foam) e una “larga sacca d’aria” (copyright Vaporfly), con un duplice effetto: non stancare il piede e aumentare ulteriormente la propulsione. In realtà, secondo un report di Aylin Woodward, senior science reporter di Insider, i benefici- creduti sostanziali anche nella velocità- sarebbero effettivi solo per il fondo, con un vantaggio da 1 a 3 secondi per miglio: non a caso, se ne è servito Eliud Kipchoge nella sua maratona sotto le due ore nel 2019.
Perché allora Warholm attacca con veemenza le “super spikes” Nike parlando di “ammortizzatori” e “materassi” e definendole «bullshit» che «tolgono credibilità al nostro sport»? E perché Usain- prima di riconoscere il valore dell’atleta- ha fatto lo stesso con Jacobs (Nike Maxfly), definendo “ridicoli” i suoi vantaggi propulsivi dovuti alle scarpette? Si tratta di ovvia guerra di brand (anche Bolt è uomo-Puma? Di cos’altro?).
Alla fine, Warholm stesso è tornato su piani più realistici ricordando come i “guys” contino più dei materiali. Se così non fosse, non avremmo avuto 3 record, ma molti di più. Nessuna scarpa ha ancora applicato la Volma (l’onnipotente “gomma volante” antigravitazionale) inventata da Fred Mc Murray in Professore tra le nuvole; o nel remake, Flubber, da Robin Williams.
Il tempo perduto e il tempo (ri)trovato
Seguendo una discussione avviata col calcio, anche a Tokyo si è dibattuto sull’incidenza o meno del pubblico in rapporto alle performances degli atleti, come se la freddezza burocratico-cerimoniale nipponica potesse fondersi col “gelo” degli spalti-simulacri in una “tempesta perfetta” di anaffettività. Invece, come abbiamo detto e visto, non solo quel timore è risultato infondato, ma, dopo un oltre un anno, quella discussione è in parte dissolta. Anche perché, in assenza di vere prove controfattuali e/o di studi sul lungo periodo, sono state più o meno focalizzate le tipologie adattative: atleti (i più emotivi e ansiosi) “sollevati” dallo stadio vuoto; altri (in addiction da stimolo esterno per attivare l’adrenalina) opacizzati; altri ancora, plasticamente indifferenti, come lo stesso Duplantis, che lo scorso anno realizza i due record indoor in palazzetti gremiti (Torun e Glasgow) e quello outdoor al Golden Gala in un Olimpico deserto.
Meno si è discuso invece di una delle forze- quasi nel senso della fisica- che hanno plasmato la “forma” di questa Olimpiade: quella dilatazione spazio-temporale (il rinvio di un anno) che Federica Pellegrini ha efficacemente sintetizzato come “il rimando”. Tale rinvio, va da sé, non può essere addotto a cofattore esplicativo (peggio: ad alibi) di molti dei successi o dei fallimenti: certe gerarchie e certi valori tecnico-atletici sembrano poterne prescindere; anche se condizioni (stati di forma) buoni o meno buoni sono stati comunque, nel bene e nel male, riazzerati, e la preparazione ad hoc per l’estate 2020 è stata per tutti da riprogrammare. Certe debacle (lo sprint USA; per certi aspetti il volley maschile e femminile italiano) sembrerebbero patire deficit strutturali più che contingenti, e certe leadership (quelle di Iperborea) già compiute nel 2020, con l’unica incognita della gara o della strategia sbagliata, com’è successo per lo strafavorito giavellottista tedesco Johannes Vetter - nemmeno sul podio- o per Nole Djokovic, cui una folle hybris ha sottratto un oro sicuro. O, a rovescio, dell’atleta sfortunato: un Greg Paltrinieri del 2020, senza l’handicap della mononucleosi, avrebbe probabilmente ottenuto più del pur consistente bottino giapponese (un argento e un bronzo). Qui l’ammirazione per lui è pari solo al rimpianto.
Ma non c’è dubbio che il “rimando” abbia danneggiato diversi atleti e avvantaggiato altri. Tra i danneggiati ci sono soprattutto quelli arrivati al “passo d’addio”, che avendo programmato l’ exit per il 2020 si trovano a dover prolungare la gestione dell’ “anzianità” atletico-agonistica: caso da manuale Simone Biles, che già nel 2019 lamentava un’usura (un dolore osteomuscolare) non più sopportabile e i cui disagi a Tokyo - a partire dagli ormai famosi twisties, le distonie neuropsicologiche di propriocezione- sono da ricondurre anche a un “extra-time” indesiderato. Nel suo “schema” rientra, a ben guardare, anche Roger Federer, che aveva programmato la “vendetta” a Wimbledon per il 2020 e si è trovato a provarci 40enne, dove un anno in più- a quell’età- ne vale 5.
Tra gli avvantaggiati, invece, ci sono atleti per cui un anno è servito da maturazione; il caso eclatante è proprio quello di Jacobs, nel 2020 lontano anni-luce dalla forma e dai tempi attuali. Ma altrettanto significativi sono quelli di due stupefacenti ragazzine cinesi: la ginnasta Guan Chenchen, 16enne che vince l’oro nella trave (prova dell’unica medaglia della Biles, bronzo); e la tuffatrice Quan Hongchan, 14enne che sembra poter raccogliere l’eredità della leggendaria Guo Jingjing.
Sempre nell’ottica del rimando, sono poi da ammirare atleti che hanno saputo cogliere l’“ultima occasione” o quella che è probabilmente tale, come Mariya Lasitskene, altista-ballerina russa (sembra uscita da un Degas) in perfetta simmetria con Tamberi, se anche lei nutre per 5 anni il “riscatto”, mancando Rio per il caso-doping della Russia, e anche lei lo ottiene (indimenticabile il suo pianto liberatorio, china sulla ringhiera dello stadio); o atleti il cui passo d’addio viene toccato dalla grazia, come la stessa Pellegrini (senza medaglie) o l’eterea ed eterna Allyson Felix, che supera (con un oro e un bronzo) il medagliere di Carl Lewis, dopo avere costituito, del “figlio del vento”, l’equivalente estetico in ambito femminile.
In tutto questo, un corollario prospettico: il “rimando” ha dilatato a 5 anni un intervallo olimpico, ma ora contrae il prossimo a 3: il che significa, per tanti atleti “bruciati” dall’acerbità (come Benedetta Pilato), arriva un’occasione ravvicinata di rivincita; per altri, come Jacobs, una maggior possibilità di prolungare un plateau di forma.
Varrà quindi per tutti, a maggior ragione, il famoso aforisma di Einstein: «Non penso mai al futuro, arriva così presto». Warholm approverebbe.