La storia del ciclismo è piena di storie di campioni fragili, che nascondono le proprie difficoltà dietro l'apparenza di super atleti freddissimi. Lo stesso Fausto Coppi, che sembrava spesso impassibile, un calcolatore implacabile, si demoralizzava spesso e chi gli stava intorno faceva fatica, a volte, a trovare il tasto giusto su cui premere per riportarlo sulla giusta direzione, per far sì che trovasse di nuovo le forze per tornare in sella e vincere. La sofferenza, per lui, era probabilmente più un modo di non pensare ai suoi tormenti, e la vittoria - un obbligo - era quasi un liberarsi dalla pressione di dover essere ciò che tutti si aspettavano che lui fosse. Un altro esempio celebre è quello di Hugo Koblet, ciclista costretto ad essere un campione a tutti i costi, anche quando le gambe non giravano più. Koblet si rivela al ciclismo come una meteora in quel periodo a cavallo fra la fine dei Quaranta e gli inizi degli anni Cinquanta. Poi un viaggio in Messico, una strana malattia, una lunga convalescenza e quel campione alto e bello, che correva con un pettine nel taschino per sistemarsi i capelli prima dell’arrivo, che piegava le montagne ai suoi capricci, sparì per sempre. Gli ultimi anni della carriera di Koblet furono un susseguirsi di delusioni e per il fuoriclasse svizzero fu l’inizio di un tortuoso percorso che lo porterà anni dopo a togliersi la vita. Se c’è una cosa che accomuna questi due campioni è la pressione che furono costretti a sobbarcarsi una volta arrivati all’apice delle rispettive carriere, e l’umana insicurezza che un po’ tutti abbiamo dentro di non sentirsi all’altezza delle aspettative.
Pochi giorni fa a questa stirpe di campioni fragili, di cui ho citato solo due tra i tanti esempi, si è aggiunto anche Tom Dumoulin, che si è momentaneamente ritirato dal ciclismo per prendersi un periodo di riflessione e affrontare alcuni problemi personali. in un certo senso, vive lo stesso tormento dell’eroe caduto, incapace di rispondere alle attese di un pubblico che si è abituato ad amarlo nei momenti di gloria e che ora cerca di spingerlo a tornare in sella, a tornare a vincere. «Per troppo tempo ho sentito la pressione di correre e di voler sempre fare il meglio per la squadra, gli sponsor, i tifosi. Ma in tutto questo ho un po’ dimenticato me stesso. Ho dimenticato cosa voglio davvero dal mio sport e dal mio futuro», ha scritto Tom Dumoulin a poche ore dall’annuncio del suo momentaneo ritiro dal ciclismo. «È da un po’ di tempo che sento che è molto difficile per me riuscire a trovare la mia strada nei panni di “Tom Dumoulin il ciclista”. Con la pressione che questo porta, con le aspettative di tutti», ha detto nel video pubblicato sul sito della sua squadra. «Ma cosa voglio io? Voglio ancora essere un ciclista? E come?». Ma soprattutto «cosa vuole “Tom Dumoulin l’uomo” dalla sua vita in questo momento?». La pressione è al centro di ogni sua dichiarazione di questi giorni. Il modo in cui l’ha affrontata, spingendo i suoi limiti sempre un pezzettino più in là ma dimenticandosi nel frattempo il perché di tutto questo.
In questo senso, per contestualizzare meglio le condizioni che hanno portato al suo ritiro è importante ricordare alcune caratteristiche importanti della sua carriera. Nel 2017 Tom Dumoulin è stato il primo olandese nella storia a conquistare il Giro d’Italia. E il primo olandese dai tempi di Erik Breukink (1990) a salire sul podio del Tour de France, nel 2018. Due anni in cui "la Farfalla di Maastricht" ha brillato fra le stelle del ciclismo tanto che sembrava fosse pronto, da un momento all’altro, a imporre un suo lungo dominio sulle grandi corse a tappe. Così non è stato, per colpa di un infortunio al ginocchio più grave del previsto. Una di quelle cadute che sembravano banali, in una tappa apparentemente insignificante, a un paio di chilometri dal traguardo di Frascati durante la 4ª tappa del Giro d’Italia 2019, e che invece alla fine si è rivelato determinante.
Il primo, seminale, paradosso della carriera di Dumoulin è che l’Olanda è un paese di biciclette. Chiunque sia mai andato in una città olandese conosce bene la quantità enorme di persone che si sposta in bicicletta. E quindi l'Olanda è anche un paese che, di conseguenza, sforna tanti ciclisti professionisti di vario genere. Il problema è che la stragrande maggioranza sono generalmente di scarso talento per le corse a tappe. I più anziani ricorderanno Joop Zoetemelk, ancora oggi l’unico olandese a comparire nell’albo d’oro del Tour de France alla voce “1980”. Sono passati più di quarant’anni e nessuno ci è mai neanche andato vicino. A parte ovviamente Tom Dumoulin, che spicca nella storia sportiva del suo paese.
Il ciclista di Maastricht si impone all’attenzione del grande pubblico nel il 2015, alla Vuelta. Dumoulin è il campione nazionale a cronometro, deve ancora compiere 25 anni, è alto quasi un metro e novanta ed è una delizia a crono. Ma in quella Vuelta il giovane olandese prende la testa della classifica generale e la molla solo alla penultima tappa, vittima di un’imboscata della Astana per favorire il loro capitano, Fabio Aru.
L’anno dopo, alla partenza del Giro d’Italia da Apeldoorn, nei Paesi Bassi, Tom Dumoulin è già l’idolo di un’intera nazione pronta ad abbracciare un nuovo campione. Quel giorno per le strade di Apeldoorn si riversa una folla oceanica, guidata dallo stesso Guglielmo Alessandro d’Orange-Nassau, il re dei Paesi Bassi, arrivato alla partenza del Giro d’Italia per dare il via alla Corsa Rosa e ammirare quella strana forza della natura che rispondeva al nome di Tom Dumoulin.
"La Farfalla di Maastricht" vola più veloce degli altri e strappa la maglia rosa a uno sconosciuto sloveno di nome Primoz Roglic per una manciata di centesimi. Caso vuole che quell’allora sconosciuto sloveno sarà poi il suo futuro capitano quattro anni dopo al Tour de France. Quello che sembra il trionfo della definitiva affermazione è invece l’inizio di un volo che sarà più breve del previsto, perché dei problemi fisici lo costringeranno prima a uscire di classifica e poi al ritiro nella tappa 11.
Ma la stagione di Dumoulin non finisce lì perché a giugno vince di nuovo il campionato nazionale a cronometro, a luglio si prende due tappe al Tour, ad agosto l’argento olimpico a Rio alle spalle di Fabian Cancellara. È una stagione trionfale, nonostante nei grandi giri non arrivino i risultati sperati. Una stagione di transizione, se vogliamo: una tappa nel suo percorso di trasformazione che dovrà portarlo dall’essere un dominatore delle cronometro al diventare una macchina costruita per vincere le grandi corse a tappe.
È in questo periodo che Tom Dumoulin - oltre ad abbandonare il suo vecchio soprannome di “farfalla” che poco gli si addiceva - spinge all’estremo il suo fisico e probabilmente anche la sua testa. Nella sua folle corsa ai marginal gains, cioè quei piccolissimi miglioramenti atletici che sommati portano a un vantaggio consistente sugli avversari, Dumoulin trascina il suo corpo al limite. «Il mio corpo ha i suoi limiti e io li ho raggiunti - racconta in un’intervista del 2019 -. Non ho mai pedalato così duramente come negli ultimi anni. L’unica via per migliorare è incrementare la mia resistenza e ridurre il mio peso».
Ma in quegli anni le vittorie gli danno ragione. Nel 2017 vince la maglia rosa - il primo e finora unico olandese a riuscirci - e poi i Mondiali a cronometro di Bergen. Nel 2018 fa secondo al Giro, secondo al Tour e quarto ai mondiali in linea e secondo a cronometro e nella cronosquadre. Risultati che possono sembrare una sconfitta ma che invece dimostrano tutta la sua forza e la sua completezza. L’impresa della doppietta Giro-Tour solo sfiorata è comunque un risultato che non si vedeva da anni nel mondo del ciclismo.
Con i risultati, però, arriva anche la pressione. Tutti, nei Paesi Bassi, gli tengono gli occhi addosso e riversano sulle sue spalle le loro speranze di vittoria. È un peso però che in quel biennio 2017-2018 Dumoulin è pronto a sopportare, aiutato dalle vittorie che gli fanno superare anche tutti i sacrifici fatti per arrivare fin lì. È un peso però che lo schiaccia non appena un infortunio che sembrava banale arriva a tagliargli le ali fino a portarlo, dopo quasi due anni di calvario, alla decisione di dire basta con il ciclismo. Chiudere almeno per il momento la porta di quella che per anni è stata la sua più grande passione.
Non è facile capire adesso cosa c'è dietro una decisione così radicale, che probabilmente lo stesso Dumoulin ci metterà un po' a metabolizzare. Sul suo modo di affrontare la pressione e il fallimento, però, penso possa essere utile un’intervista del 2019 al De Limburger - riportata integralmente da Soigneur con l’eloquente titolo di No Hero. Una domanda, in particolare, in cui si chiede a Dumoulin come ci si sente ad essere estremamente bravo in qualcosa e ricevere così tante attenzioni per questo. «Non mi è mai stato insegnato a venerare eroi a casa. È per questo che è così strano essere trattato come se io lo fossi». E poi, ricordando le celebrazioni per la vittoria del Giro 2017, Dumoulin aggiunge che «in quel momento, ho desiderato che fosse più semplice. Poi che avrei potuto davvero godermelo. In quel momento, ho pensato una cosa come “Mi guarderò indietro più tardi e realizzerò che è stato davvero speciale”, ma lì per lì lo trovai imbarazzante. Trovo strano quando le persone mi acclamano, perché non penso che ciò che faccio sia così speciale». E ancora: «Se non fossi un atleta, non andrei mai in piazza per acclamare un ciclista o un calciatore».
Difficile interpretare queste di Dumoulin come parole di circostanza. Anzi, sembrano dichiarazioni di un uomo comune condannato dal suo talento ad essere uno dei migliori e quindi condannato a essere un eroe per il suo pubblico, il campione destinato a tenere sulle sue spalle le aspettative di un’intera nazione.
Scrive Marc Augé in “Le Nuove Paure” parlando della società contemporanea che «l’isolamento o la folla (passiva o fanatizzata) sono due modalità sempre più diffuse di non-rapporto con gli altri». Una frase che riesce a descrivere con poche parole la sensazione di sentirsi soli in mezzo alla folla, anche se questa ti acclama come un eroe, che deve aver provato Tom Dumoulin in quei momenti della sua carriera. E poi l’isolamento in cui si è abbandonato quando invece i risultati hanno smesso di arrivare: due estremi di quella stessa sensazione di solitudine, di non-rapporto con gli altri e quindi con se stessi.
L’intervista è del gennaio 2019, in un momento in cui Tom Dumoulin si apprestava a correre una stagione da protagonista dopo un triennio in cui aveva raccolto dei risultati straordinari. L’argento olimpico, il titolo mondiale a cronometro, la vittoria al Giro, e poi la lunga serie di secondi posti del 2018 a Giro, Tour e Mondiali in linea e a cronometro.
Forse già in quel momento la paura di non essere riuscito a vincere e a soddisfare le aspettative dei suoi tifosi e della sua squadra avevano steso un velo di disappunto nei suoi pensieri. Un carico già pesantissimo su cui poi si è posato l'ultimo peso, l’infortunio al ginocchio al Giro 2019, dove si presentava come uno dei principali favoriti per la vittoria finale. L’essersi spinto oltre i suoi limiti per così tanto tempo potrebbe a quel punto aver giocato un ruolo fondamentale nella sua salute mentale ancor prima che fisica, nel momento in cui non riusciva più a ritrovare la giusta forma. Il ginocchio ha continuato a dargli fastidio per tutta la stagione 2020 appena trascorsa, impedendogli di tornare ai fasti di due anni prima. E quando le vittorie hanno iniziato a mancare, è crollato il castello di carte che si era costruito attorno per sostenere il peso del dover essere il campione che tutti si aspettavano che fosse.
«Un paio d’anni fa ho ottenuto grandi risultati e improvvisamente sono diventato Tom Dumoulin, il grande ciclista olandese. E infatti le persone a casa, la squadra e io stesso, tutti avevano grandi aspettative. E io invece ero abituato a dover gestire solo le mie di aspettative. Voglio dire: come atleta di alto livello le tue aspettative sono già piuttosto complicate da gestire. Ma quando anche gli altri iniziano ad averne su di te è facile dire: “hey, aspetta un attimo, cosa c’entrano loro con tutto questo?”. È facile dirlo, ma alla lunga l’ho trovato più difficile del previsto. Ed è così da troppo tempo».
Dopo il Tour 2020, corso in appoggio a Primoz Roglic, Dumoulin tornò a parlare. Il campione olandese disse che «dopo l’infortunio al ginocchio ho avuto un periodo terribile. Poi sono arrivati i problemi intestinali in primavera e poi il coronavirus. Posso dire di essere stato più vicino al fermarmi che al continuare». Un pensiero, quello del ritiro, che quindi già covava nella sua mente ancor prima dell’annuncio di pochi giorni fa che ha sconvolto il mondo del ciclismo ancor più di quanto fece a suo tempo Marcel Kittel in una situazione analoga.
Una volta che Dumoulin si è fermato, il pubblico ha immediatamente iniziato a pensare al futuro, a quando tornerà, se tornerà. Il ciclista olandese, però, sembra aver messo in pausa la sua carriera proprio per riappropriarsi del presente. «Non so dove questo mi porterà», ha detto ancora nel video in cui ha annunciato il suo addio «In ogni caso, parlerò molto, chiamerò altre persone. Penserò, porterò a spasso il cane e cercherò di capire cosa io, come essere umano, voglio dal ciclismo e dalla mia vita». Forse, però, per noi che l'abbiamo ammirato in tutti questi anni, e che tanto ci aspettavamo da lui, l'aspetto più sconvolgente è che la sua crisi esistenziale è talmente profonda da aver messo in discussione la sua stessa natura da ciclista, che nelle nostre teste era l'unica possibile per lui. «Forse voglio ancora essere un ciclista», ha dichiarato ancora Dumoulin «Ma è importante che adesso io inizi a preoccuparmi meno di ciò che pensano gli altri e a pensare più ai miei progetti. Mi prenderò del tempo per questo».