A vederlo oggi, sempre sorridente nei suoi post su Instagram, che sia al mare, in giro per l’Europa con l’aspirapolvere sul quale ha scommesso per la sua vita dopo il calcio, in mezzo alla neve o appoggiato a un canotto a forma di unicorno, sembra che Tomas Brolin abbia siglato un qualche patto misterioso per raggiungere la felicità eterna. Ha la stessa espressione di felicità che aveva dopo i gol che ne hanno segnato la carriera, come quello contro l’Inghilterra a Euro 1992, e poco conta che il suo corpo porti i segni dell’abbandono alle prelibatezze della cucina e dell’addio agli allenamenti intensi che regolano la vita di un professionista del mondo del calcio.
Brolin ha detto basta molto presto, a 28 anni, quando ancora poteva andare in giro per l’Europa a rimediare contratti più o meno remunerativi: si era stufato degli allenamenti, dello sforzo quotidiano, del lavoro necessario per essere sempre al top, o almeno per cercare di esserlo. Soprattutto, si era consumato poco a poco sotto le bordate della critica inglese, passando nel giro di quattro anni dai piedi del podio del Pallone d’Oro (quarto nel 1994 alla pari con Gheorghe Hagi) all’etichetta di uno dei più clamorosi bidoni della storia della Premier League. E allora meglio smettere, perché non c’è un presto o tardi: si smette quando non si ha più la forza di andare avanti, e in quel momento è iniziata la seconda vita di Tomas Brolin.
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Un post condiviso da Tomas Brolin Official (@tomasbrolin11) in data: 23 Nov 2018 alle ore 3:35 PST
Brolin vestito da Babbo Natale con il suo aspirapolvere in mano è insindacabilmente quanto di meglio possiate chiedere alla vostra giornata.
Apparso dal nulla
Cresciuto a Finflo, in uno di quegli angoli della Svezia così sconosciuti da sembrare la location perfetta di un giallo nordico, Brolin mostra presto il suo talento. Esordisce a soli 14 anni con la prima squadra del Näsvikens, anche se solo in quarta divisione. Viene notato dal GIF Sundsvall, che gli concede il salto fino alla massima categoria del calcio svedese. Il giovanissimo Tomas non sfigura tra i grandi, anche se la squadra, dopo due anni, retrocede. A vent’anni Brolin si appresta a disputare una stagione da protagonista nella seconda serie, ma arriva la chiamata improvvisa dei campioni in carica del Norrköping. Un titolo agognato per un club che aveva scritto la storia della Svezia negli anni subito successivi alla Seconda guerra mondiale, ma che a tutti era parso un fuoco di paglia: la stagione regolare era stata vinta dal Malmö, poi piegato nei cervellotici playoff con una serie di tre partite che avevano visto il Norrköping imporsi due volte, con un pareggio nel terzo scontro. Schiacciato tra le ambizioni di Malmö e Göteborg, il nuovo club di Brolin non pare in grado di reggere la sfida e, da calendario, viene subito sfidato a duello dall’IFK. Olle Nordin, CT della Svezia, è davanti alla TV nel giorno in cui Tomas Brolin, senza preavviso, decide di diventare una stella. Segna tre gol nel 6-0 rifilato dal Norrköping al Göteborg di Kennet Andersson, Ingesson e Ravelli. Nordin, per spinta popolare, è costretto a convocarlo per l’amichevole del 25 aprile 1990 contro il Galles: Saunders porta in vantaggio gli ospiti ma Brolin ribalta tutto già al 25’.
Doppietta all’esordio in Nazionale, a un mese e mezzo dal Mondiale. Tomas fa parte dell’elenco dei convocati e parte per l’Italia, dopo aver segnato altre due reti nel 6-0 in amichevole sulla Finlandia. Non può ancora immaginare che lì troverà la sua nuova casa.
Davanti al pubblico di Stoccolma, Brolin bagna l’esordio in Nazionale con una doppietta. Sono due gol che pesano per il suo futuro.
Nel giro di sei anni, Brolin passa dall’esordio in quarta serie al Mondiale, dove esordisce contro il Brasile di Careca. A sbirciare le partite c’è Nevio Scala, allenatore del Parma neopromosso che deve ancora scegliere gli stranieri. Non gli dispiace, quel Taffarel, e decide di farlo diventare il nuovo portiere dei ducali. Brolin, invece, dovrà ripetere in Serie A quello che ha fatto vedere al Mondiale. Nel 5-3-2 di Scala, avrà l’incarico di affiancare Alessandro Melli, svariando alle sue spalle in un ruolo a metà tra la seconda punta e il regista offensivo. Rapido, tecnico, abilissimo nelle letture, Brolin è un calciatore sontuoso se si considera la giovanissima età e la relativa poca esperienza. Sa ricevere tra le linee, fare da raccordo tra i reparti e sfruttare la sua grande velocità quando ha campo da attaccare palla al piede. Diventa presto uno degli idoli del Tardini: «C’erano club tedeschi e spagnoli, ma quando è arrivata la chiamata del Parma non ho avuto dubbi, volevo l’Italia, giocare in Serie A negli anni ’90 era fantastico, tutti i calciatori più forti erano lì e la città era perfetta per me. Nelle altre città italiane un calciatore fa fatica a passeggiare per strada perché l’affetto dei tifosi è tanto, ma Parma era tranquilla, ti permetteva di vivere una vita normale. Eravamo una squadra giovane che voleva attaccare dal primo all’ultimo minuto, in un campionato con molte squadre spaventate all’idea di giocare in attacco: era un calcio improntato sullo 0-0. Abbiamo sorpreso un sacco di avversari giocando in quel modo. La squadra di una piccola città che non era mai stata in Serie A: l’obiettivo era rimanere in A, ma fu una stagione stupenda e finimmo sesti».
La prima stagione con i ducali è quella delle sorprese, la seconda è per le conferme. I sette gol dell’annata del debutto non vengono replicati dallo svedese, sempre più impegnato in un’opera di raccordo, in una posizione quasi intercambiabile con quella di Marco Osio, il guastatore della mediana pensata da Scala. Brolin non lo sa ancora, ma il tecnico ha in mente per lui una trasformazione tattica ancora più profonda, fino a passarlo stabilmente mezzala. Gioca sempre in campionato (34 partite, 4 gol), in una squadra meno spettacolare dell’anno precedente ma altrettanto solida. L’avventura europea termina presto, ma Minotti e compagni volano fino alla finale di Coppa Italia anche grazie a Brolin, che marchia la semifinale di andata con uno dei “suoi” gol: spunta quasi di nascosto sul palo lontano per sparare in rete il pallone dell’1-0, risultato replicato dalla Sampdoria nel match di ritorno (1-0, gol di Pari). Tutti ai supplementari, dove la decide Sandro Melli con una doppietta. In finale c’è la Juventus di Trapattoni, Baggio risolve il primo atto su calcio di rigore, il 14 maggio 1992 al Tardini c’è l’atmosfera delle grandi occasioni. Nelle prime cinque partite giocate contro la Vecchia Signora dal momento dell’arrivo in Serie A, il Parma non è mai riuscito a vincere. Stavolta va diversamente, l’impianto di gioco di Scala ribalta le stelle bianconere: finisce 2-0 e l’azione che porta al gol decisivo di Osio è probabilmente il manifesto della qualità della squadra.
Nel filmato, da 0.39, la rete del 2-0: Brolin in posizione di regista offensivo trova la ricezione profonda di Melli, sponda per Cuoghi che pesca l’inserimento senza palla di Osio. Un puro gol “scalesque”.
Un nuovo Tomas
Non c’è tempo per rifiatare: la Svezia è il paese ospitante dell’Europeo 1992 e Brolin ci arriva più carico che mai. Le gare dei padroni di casa si giocano a Solna, gli scandinavi sono in un girone apparentemente di ferro, come era inevitabile negli Europei a otto squadre: Francia, Inghilterra, Jugoslavia. Ma è storia nota: Stojkovic e soci non volano per la Svezia, con la “Jugo” esclusa per i tristi fatti bellici e sostituita in fretta e furia dalla ripescata Danimarca. Come giusto che sia, è per tutti la rassegna del miracolo danese, una delle più incredibili sorprese della storia del calcio continentale e non solo. In pochi ricordano che quel Gruppo A lo vinse la Svezia, fermando la Francia sull’1-1 nel match d’esordio e battendo proprio i futuri campioni d’Europa nella seconda sfida.
Brolin gioca da seconda punta insieme a Martin Dahlin, centravanti fisico, visto con occhio curioso dai giornali italiani, costretti a commentare uno svedese che non presenta la carnagione tipica dei nordici, essendo nato da padre venezuelano che, per non farsi mancare nulla, gli ha anche messo il nome in onore di Martin Luther King.
La partita con i danesi viene risolta da Brolin con un tocco di grande reattività, quasi un riflesso incondizionato su un pallone che era stato apparentemente allontanato dalla difesa avversaria, forse l’unico modo per superare il muro umano meglio noto con il nome di Peter Schmeichel. La Svezia arriva all’incontro con l’Inghilterra con 3 punti, seguono i "Leoni" con 2, come la Francia, mentre la Danimarca è ultima a 1. Sono di fatto due spareggi per la qualificazione, e quello della squadra di Tommy Svensson inizia nel peggiore dei modi.
Lineker pennella da destra, Platt calcia a centro area in modo orribile, quasi tirandosi addosso, ma per volere divino il pallone va a depositarsi nell’angolo, con Ravelli ipnotizzato da cotanta bruttezza. All’intervallo, il CT raccoglie il lavoro di Scala: fuori Limpar per Ekström, Brolin scala svariati metri indietro. Il pari arriva con una testata di Eriksson sugli sviluppi di un angolo da sinistra, poi la partita conosce una svolta inattesa. Con l’Inghilterra alla ricerca disperata di un gol per la qualificazione, Graham Taylor decide di richiamare in panchina Gary Lineker, alla sua ultima gara con la maglia dei Tre Leoni. Non una mossa brillantissima da parte di un tecnico che aveva già dovuto rinunciare a Gascoigne per infortunio e, per scelta puramente personale, al genio di Chris Waddle. Per Lineker, arrivato inoltre a un solo gol di distanza dalla leggenda Bobby Charlton, è un insulto alla sua storia. Esce lanciando la fascia da capitano per fare spazio ad Alan Smith e finisce malissimo, “colpa” di Brolin.
Tomas riemerge dalla fanghiglia di un duello a centrocampo, scambia con Ingesson partendo da lontanissimo, poi chiede un altro uno-due a Dahlin. Il pallone di ritorno non è dei migliori, sembra finire sotto al corpo del numero 11, che sta vivendo un’estate di grazia e se ne frega delle apparenze. Sforna un’altra conclusione di puro istinto e grande tecnica, scavalcando il portiere con un tiro di prima intenzione che entra nella storia del calcio svedese. «Fu un gol speciale per me, tutto di prima e con un bel tiro. Ho giocato tante partite in coppia con Dahlin: più giochi insieme, più sviluppi una connessione. Tutti si aspettavano la qualificazione di Inghilterra e Francia, e invece fu una grande sorpresa».
La Svezia è in semifinale contro la favorita assoluta per la vittoria finale del torneo, la Germania. Il pronostico viene rispettato: apre le danze un altro “Tommasino”, il romanista Hässler, con una delle sue punizioni al cianuro, e i tedeschi vanno sul 2-0 con la zampata di Kalle Riedle, centravanti della Lazio. Brolin accorcia dal dischetto prima delle reti ancora di Riedle e di Kennet Andersson.
Gli scandinavi escono tra gli applausi, la Germania prenota il posto nella parte sbagliata della storia, contro l’inattesa Danimarca: «Pensavamo di farcela, di poter arrivare in finale, fu frustrante perdere quella partita con la Germania». Ancora più frustrante, per Brolin, è tornare a Parma e trovare un nuovo attaccante a rompergli le uova nel paniere. È veloce, bizzoso, irresistibile e, che diamine, ha anche un’esultanza più spettacolare della sua. L’uragano Tino Asprilla è pronto a mettere a soqquadro la Serie A e i regolamenti non aiutano Brolin: in campo vanno tre stranieri e il Parma ha ancora Taffarel in porta e Grün in difesa.
«Tino era incredibile, un ragazzo brillante, un giullare negli spogliatoi e un giocatore fantastico. Non si poteva mai immaginare cosa stesse per fare: a volte qualcosa di splendido, altre volte meno. Ricordo quando Scala ci diede una settimana libera e Tino si ruppe un piede per prendere a calci un autobus in Colombia». Lo svedese trova posto in formazione soltanto 22 volte in campionato, prevalentemente a causa dei problemi di Taffarel, che di partite ne gioca 6, una miseria. È un bel Parma, non c’è dubbio. Arriva terzo in campionato e gioca la prima finale europea della sua storia: dopo aver eliminato Ujpest, Boavista, Sparta Praga e Atletico Madrid, i ducali si presentano a Wembley e vincono la Coppa delle Coppe contro l’Anversa, con le reti di Minotti, Melli e Cuoghi. Per Brolin, lì davanti, la concorrenza si fa ancora più spietata nella stagione successiva, quando dal Napoli arriva Gianfranco Zola. Ma ormai Scala è pronto per la rivoluzione che aveva in mentre già da un paio di campionati: spostare Brolin a centrocampo. Non c’è più Osio, ceduto al Torino e sostituito da Crippa: lo svedese deve dimostrare di aver imparato a lavorare da mezzala anche in fase difensiva, con due punte davanti. Scopre un nuovo ruolo, gli piace, si diverte, torna a essere protagonista di una squadra sempre più ambiziosa, che vince la Supercoppa Europea e bissa la finale di Coppa delle Coppe, perdendo però contro il “boring Arsenal” di George Graham, ovviamente 1-0. Una partita che è ancora un tarlo nella mente di Brolin: «Se ripenso alla mia carriera, quella è la partita che avremmo dovuto vincere. Loro fecero la cosa giusta: spaventarono i nostri attaccanti, Zola e Asprilla. Furono molto aggressivi, li presero a calci dall’inizio, ma questo è il gioco. Purtroppo sprecai due incredibili chance sullo 0-0, in una di queste occasioni colpii il palo. Se fossimo andati in vantaggio, avremmo vinto quella finale comodamente». La ricostruzione di Brolin è fin troppo feroce: la prima palla-gol è un colpo di testa in tuffo tutt’altro che semplice, finito alto, la seconda un diagonale apparentemente chirurgico, respinto dal palo interno.
Con l’umore sotto i tacchi per questa sconfitta, Brolin affronta il secondo Mondiale della sua vita. La Svezia è nel girone con Camerun, Russia e Brasile. Riesce a riemergere dopo un deludente 2-2 con i Leoni Indomabili battendo agevolmente la Russia (3-1, Brolin su rigore e doppietta di Dahlin), con i verdeoro è una passerella che finisce 1-1 (Romario-Andersson) e porta entrambe agli ottavi. L’accoppiamento è morbido, c’è l’Arabia Saudita: Svensson si concede Brolin a centrocampo e la coppia pesante Andersson-Dahlin, sono loro due a siglare le reti che proiettano la Svezia tra le prime otto del torneo. Ai quarti c’è da sudare, c’è la Romania di uno scintillante Gheorghe Hagi. Prima della partita, Svensson pensa con grande cura ai calci piazzati. Ha studiato il Parma e ha visto una punizione calciata in maniera particolarmente brillante: Brolin, nascosto nella barriera, sfila alle spalle dei difensori per ricevere palla rasoterra. «Tomas, ti ho visto fare questa cosa…», gli dice il c.t., preoccupato da possibili spie avversarie. La Svezia non prova mai questa soluzione in allenamento per evitare occhi indiscreti, ma insieme a Ingesson e Schwarz prepara a voce il jolly da calare a gara in corso. L’occasione propizia arriva al 78’. I due centrocampisti sono sul pallone, scatta il filtrante rasoterra. Brolin sfila via come da manuale, e a questo punto stravolge il copione, che avrebbe in preventivo un suo cross in mezzo: «Avrei dovuto servire Dahlin o Andersson, ma avevo la porta sotto tiro e ho pensato: “Fanculo, faccio tutto da solo”. Calciai e segnai».
Brolin segna il vantaggio svedese su un’esecuzione perfetta. La partita finirà ai calci di rigore dopo il pari di Raducioiu all’88’ e le reti ancora del centravanti ex Brescia e di Kennet Andersson.
Con il risultato di 2-2 al 120’, sono gli undici metri a decidere chi vive e chi muore: festeggia la Svezia, per la prima volta in semifinale dal 1958. C’è ancora il Brasile ma la Svezia non ne ha più. I supplementari con la Romania imballano le gambe più del normale, l’espulsione di Thern non aiuta e alla fine vince chi ha in squadra Romario: è suo il gol che interrompe il sogno. I giocatori si parlano, c’è ancora la finale terzo-quarto posto con la Bulgaria: «Avevamo giocato un grandissimo torneo, fui tra i primi a parlare: “Dobbiamo fare una grande partita, non possiamo tornare a casa senza una medaglia”, e così fu». Gli scandinavi spazzano via la Bulgaria con un netto 4-0, Brolin sblocca il match dopo soli 8 minuti e viene omaggiato, unico svedese, della nomina nel miglior 11 del Mondiale, in un ideale centrocampo completato da Dunga, Balakov e Hagi. A fine anno chiude quarto, alla pari con Hagi, nella classifica del Pallone d’Oro. Brolin è un giocatore esaltante, eccitante, completo, e ha soltanto 25 anni. Ma la sua carriera vede all’orizzonte il viale del tramonto.
Spegnersi in Inghilterra
Novembre 1994, Svezia-Ungheria: Brolin segna il gol del vantaggio e serve a Dahlin l’assist per il raddoppio. Durante l’esultanza per il 2-0, però, è a terra, urlando nel tentativo di richiamare i medici. Dahlin va dal compagno per festeggiare, non capisce subito l’entità del problema, poi inizia a sbracciarsi. Brolin piange, si dispera, viene abbracciato da chi lo soccorre. Si è sbriciolato il piede sinistro, rimasto incagliato a terra in una torsione innaturale al momento di mettere in mezzo.
L’inizio della fine.
Lascia il Parma primo in classifica, i medici gli prospettano almeno nove mesi di stop. Se la cava in sei, ma quando torna nel rush finale di stagione non è in forma, e i ducali sono già lontani dalla zona scudetto. Si inizia a malignare sul suo conto, in estate viene ritenuto sovrappeso, non più adatto al progetto di una squadra che ha il tricolore come chiodo fisso. Inizia la stagione con il Parma ma capisce che non c’è più posto per lui. Rifiuta qualche offerta in Italia, vuole provare qualcosa di nuovo, tutti gli dicono che la Premier League è perfetta per lui. Gli telefona Howard Wilkinson, manager del Leeds. Si informa, capisce che c’è margine per acquistarlo a novembre: «Voglio farti giocare a centrocampo, dovrai essere il nostro regista avanzato, l’arma per innescare Tony Yeboah». Brolin si scioglie, si sente al centro del nuovo progetto e accetta. Non giocherà mai in quella posizione.
Wilkinson lo mette subito in attacco, al posto dell’infortunato Yeboah, in una partita persa 6-2 contro lo Sheffield Wednesday. Per gli amanti del trash, questo è il video del gol di Brolin all’esordio, perfetto per inaugurare una raccolta di gollonzi. È l’inizio di un’agonia, che lo svedese attribuisce totalmente a Wilkinson e al suo erede, George Graham. «Amavo i tifosi del Leeds e seguo ancora la squadra come tifoso. Il mio ruolo in campo e la scarsa qualità dei manager furono i motivi delle mie difficoltà. Ricordo quando venni tenuto in panchina nella finale di Coppa di Lega con l’Aston Villa, sentivo i tifosi che intonavano cori per me, mi volevano in campo, era frustrante. Avevano capito che stava succedendo qualcosa di strano». Sul periodo al Leeds di Brolin si sprecano le leggende metropolitane.
La prima riguarda un suo boicottaggio ai danni di Wilkinson, che decise di farlo giocare esterno destro di centrocampo in un match contro il Liverpool: «Non è vero, non giocai male di proposito, ma di sicuro non potevo dare il meglio in quel ruolo. Wilkinson fu duro, mi disse che era lui a decidere. Ero reduce da due gol segnati contro il West Ham e tutti parlavano bene di me, lui prese e mi mise esterno ad Anfield. Dopo quella partita, mi ritrovai fuori». Wilkinson lo tiene fuori per tre partite consecutive nonostante l’emergenza e Brolin, in preda alla frustrazione, il primo aprile si presenta in diretta alla televisione svedese, dicendo di aver firmato un contratto di prestito con il Norrkoping fino a fine stagione. È un pesce d’aprile che guasta ancora di più il rapporto, nonostante la decisione di Wilkinson di minimizzare la rottura in pubblico.
Pur di lasciare un ambiente ormai tossico, Brolin accetta la cessione in prestito allo Zurigo, dove gioca per uno stipendio di 800 sterline a settimana. Sembra l’inizio di una nuova vita, ma dura pochissimo a causa di un cambio in panchina al Leeds. Il nuovo manager, George Graham, proprio l’uomo che alla guida dell’Arsenal lo aveva privato della seconda Coppa delle Coppe consecutiva, pretende l’immediato ritorno a Leeds dello svedese, minacciando un’azione legale in caso di mancato rientro. Brolin cede, ma inizia a trattare con i vertici della società un nuovo prestito. Ha sentito qualche amico a Parma, poi ha avuto modo di parlare con Carlo Ancelotti.
Lascia sul tavolo 500mila sterline pur di tornare dove era stato grande. Il tecnico italiano si fida dell’esperienza di Brolin, lo usa prevalentemente a partita in corso nel tentativo di recuperarlo del tutto fisicamente. In cambio, Tomas dà tutto quello che ha, accettando ogni tipo di ruolo in campo: centrocampista centrale o esterno nel 4-4-2, sia a destra che a sinistra. È convinto di essere prossimo al ritorno a Parma in pianta stabile ma la società non esercita il riscatto. Deve rientrare a Leeds ancora una volta, sapendo che troverà un clima a dir poco ostile. È qui che si materializza la seconda leggenda metropolitana della carriera inglese di Brolin, che arriva in ritardo di un’ora al primo allenamento della stagione.
Secondo la stampa britannica, il centrocampista avrebbe avuto un incidente in auto con un alce, finendo per perdere l’aereo di rientro in Inghilterra. «Non fu un alce, esperienza che avrei provato qualche anno più tardi, distruggendo completamente la macchina. Un uccello si schiantò contro il mio parabrezza, non riuscivo a vedere più nulla e non potevo lasciare la macchina nel bel mezzo dell’autostrada. Persi il volo per l’Inghilterra, mi presentai con un’ora di ritardo all’allenamento e mi tolsero una settimana di stipendio. Un bel modo per cominciare». Il rapporto con Graham è un disastro, il manager arriva a confiscargli il passaporto per evitare che Brolin torni in Svezia, ma lo status dell’ex Parma è tale da permettergli di salire a bordo di un aereo anche senza documenti: «Come ci sono riuscito? Ero Tomas Brolin!».
Non ancora ventottenne, pensa già al ritiro, scenario che slitta di qualche mese soltanto grazie a Steve Coppell e Mark Goldberg, allenatore e proprietario del Crystal Palace. Lo chiamano per aggregarlo alla squadra e testarlo, dopo neanche due giorni il tecnico gli comunica che vorrebbe schierarlo il sabato successivo. Brolin si illumina, accetta la nuova sfida, ma i tabloid inglesi sono appollaiati come avvoltoi e iniziano a dargli pubblicamente del “fatty boy”. «Erano un mucchio di stronzate. Nessuna squadra mette sotto contratto un giocatore sovrappeso, durante le visite mediche ci sono controlli di ogni tipo. Per fortuna non devo più preoccuparmi della stampa inglese, che si è comportata esattamente come ha fatto il Leeds, bullizzandomi. Hanno sempre agito in questo modo e non sono sicuro che miglioreranno in futuro, è la loro cifra stilistica».
Astro nascente a 20 anni, ai vertici del calcio mondiale a 24, Tomas Brolin si ritrova, a soli 28 anni, a essere un uomo svuotato, che ha iniziato a odiare tutto quello che gli aveva portato soldi e fama. «Allenarmi con il Palace all’inizio era divertente, ma dopo qualche mese ho iniziato a chiedermi: “Sono disposto a fare tutto questo anche il prossimo anno?”. Ci ho pensato molto e ho deciso di smettere. Non c’entrano gli infortuni, se vuoi continuare a giocare ad alti livelli devi allenarti nel modo migliore ogni singolo giorno, e non avevo più la passione giusta per farlo. Avevo altri progetti per la mente, un inventore venne da me con questo progetto innovativo su un aspirapolvere e ho aperto la compagnia, ponendomi un obiettivo: se entro dicembre avessi voluto giocare ancora, lo avrei fatto. Quel sentimento non è più tornato. Tutti mi hanno detto che ritirarsi a 28 anni è prematuro, ma dipende da quello che hai fatto in quei 28 anni. Io penso di aver fatto abbastanza». Alla carriera di grande successo da imprenditore – la sua linea di aspirapolvere vende più di 130.000 pezzi l’anno - ha provato ad affiancarne altre: ha aperto, senza troppa fortuna, il ristorante di cucina italiana “Undici” a Stoccolma, chiuso dopo otto anni. Soprattutto, Brolin è stato un grande frequentatore dei tavoli di poker sportivo di mezzo mondo. Una sfida intrapresa nel 2006 e condotta con buoni risultati per una decina di anni: «Penso sia stata un’esperienza divertente, ero stato ingaggiato da una agenzia di scommesse. Ora non gioco più con quella frequenza ma mi sono divertito parecchio per circa dieci anni. È una passione nata giocando con gli amici, ma cercavo di evitare di giocare per soldi. Con il passare del tempo ho capito che il poker sportivo non è un gioco sporco, non è roba da bische e ambienti fumosi, quella è un’altra cosa. La vita è troppo corta per fare cose noiose: se una cosa non è divertente, non la faccio o smetto di farla». Si è concesso un po’ di spazio anche per un’escursione in ambito musicale, producendo un singolo insieme a Dr. Alban e a un’altra icona dello sport svedese come Björn Borg. «Registrare quel pezzo fu molto divertente. Tanti giocatori si prendono in giro, autoconvincendosi del fatto di voler rimanere all’interno del mondo del calcio, io non sono quel tipo di persona. So trovare altri modi per divertirmi e stare bene».
Una canzone francamente oscena, un video che sfonda un ipotetico tamarrometro, con ragazze in costume, frammenti di Borg ancora in attività e di Brolin che palleggia goffamente in quello che ha l’aria di essere un lungo fiume: 3 minuti e 22 secondi di puro trash.
Brolin non è stato il primo e non sarà l’ultimo sportivo a provare repulsione per il proprio lavoro, come ha magistralmente spiegato Andre Agassi in Open. È passata una vita da quando, con la sua intelligenza calcistica e la capacità di leggere meravigliosamente gli spazi a sua disposizione, accelerando in campo aperto e rallentando nel traffico, lo svedese era una stella della Serie A. Adesso ci ricordiamo di lui soltanto quando i grandi media sfornano quelle gallery di ex giocatori un po’ imbolsiti e ingrassati dai segni del tempo, con titoli roboanti in stile “Guardate come si sono ridotti questi ex campioni!”, sarcasmo becero per quattro click in più.
A Tomas Brolin, che torna spesso a Parma, è un imprenditore di successo e per dieci anni si è divertito in giro per il mondo giocando a poker, e su Instagram mette foto sorridenti anche quando sta facendo seminudo l’angelo in mezzo alla neve, non importa più di tanto.