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Tony Parker, il piccolo principe
13 nov 2019
La scalata al vertice della pallacanestro del giocatore francese più forte di sempre.
(articolo)
26 min
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«Chi sogna può muovere le montagne»

(dal “Fitzcarraldo” di Werner Herzog)

Tony Parker non è il componente più famoso dei celebri “Big Three” dei San Antonio Spurs e probabilmente non passerà alla storia come quello più amato dai tifosi nero-argento, se escludiamo ovviamente quelli di origine transalpina.

Tim Duncan è stato il punto focale della franchigia sportiva più vincente degli ultimi venti anni e Manu Ginobili ha stravolto la narrazione NBA grazie a caratteristiche di stampo squisitamente latino, e per questo il nativo di Bruges è spesso rimasto in ombra. Eppure anche lui ha cesellato una carriera in cui ha cancellato i luoghi comuni che pesavano sui playmaker europei come macigni e ha scolpito una serie di pietre miliari capaci di far arrossire diversi inquilini della Hall of Fame di Springfield.

Al momento del ritiro i tributi della stampa specializzata e degli appassionati non sono mancati, ma rintracciare un filo comune tra le differenti valutazioni è certamente un’impresa titanica. Come misurare la sua innegabile grandezza e il contributo effettivo all’interno di una delle più longeve dinastie sportive di ogni epoca? Partiamo da un principio di base: assumere la posizione di terzo protagonista di un ideale “treppiede” è senza dubbio un esercizio complesso per l’ego di un giocatore di primo livello. Parker ha spesso sacrificato la sua naturale propensione per le luci della ribalta, dimostrando senso pratico e abnegazione al sistema, nonostante forse abbia riscosso meno credito del dovuto nel momento migliore della carriera. Un incassatore dalla mascella d’acciaio che ha risposto sul campo con determinazione a ogni tipo di critica che gli è piovuta addosso - perplessità che in molti casi sono arrivate direttamente dal fuoco amico.

Le sue doti umane e una buona dose di carisma hanno contribuito ad appianare le numerose divergenze con coach Popovich il quale, investito dall’onere della sua formazione, ha spesso utilizzato il bastone e meno di frequente la carota. Un condottiero che non ha fatto mistero di preferire dei profili tecnici differenti, ma che, alla prova dei fatti, ha permesso ad entrambi di ricavare la miglior sintesi possibile. Pop è arrivato al punto di rivedere la collocazione in campo del suo allievo e, spinto dall’esempio del mentore Larry Brown ai Sixers con Allen Iverson, gli ha esplicitamente richiesto di lasciare la gestione del pallone ad un altro direttore di orchestra. Uno scenario respinto con fermezza, a dispetto di una pressione che avrebbe scoraggiato e fatto vacillare in molti al suo posto.

Il francesino ha continuato ad arricchire il proprio bagaglio tecnico con traiettorie distanti dalle tendenze comuni: titolare di uno stile di gioco ispirato ai grandi interpreti degli anni ‘80 e ‘90, è riuscito a incastonare nelle sue caratteristiche elementi che miscelano una rilettura degli spin move di Gary Payton, l’efficacia vicino al ferro dei playmaker di classica estrazione newyorkese e delle peculiarità dinamiche proprie dei riferimenti contemporanei. Poco ortodosso per quanto efficace, un agonista dal primo passo bruciante e dalla grande etica del lavoro, è stato un giocatore ricco di curiose sfaccettature che per la maggior parte della carriera è rimasto un po’ nell’ombra di figure ingombranti come quelle di Tim Duncan, Manu Ginobili e Kawhi Leonard.

Tutto comincia con MJ, tanto per cambiare

Il patrimonio genetico è quello di un predestinato: nasce infatti dall’unione di una giocatrice di tennis belga e di un giocatore di pallacanestro forgiato dall’università di Loyola e cresciuto nei playground di Chicago. Tony Senior ha speso 15 anni di carriera in Europa, conoscendo le maggiori soddisfazioni nel campionato francese; il colpo di fulmine del suo primogenito Tony Jr. con il pallone a spicchi risale all’estate del 1991, quando raggiunge Chicago per trascorrere del tempo in compagnia dei nonni paterni. La città è inebriata dalle imprese di Michael Jordan e dei Bulls freschi del primo titolo, la sua fantasia veleggia verso un futuro da protagonista nella lega più celebre del mondo.

Ben presto però si rende conto di avere caratteristiche molto diverse da MJ e si mette alla ricerca di giocatori dotati di grande agilità come fonte di ispirazione, scegliendo Gary Payton e Isaiah Thomas come muse ideali. Il suo percorso di aspirante professionista conosce un grande salto di qualità quando da 14enne approda nella squadra dell’istituto nazionale di educazione fisica (il celebre INSEP) che traghetta alla miglior stagione della storia con un record di poco superiore al 50% di vittorie. Abbandonare casa da adolescente per inseguire il suo sogno ne accelera la maturazione e ne rafforza, se possibile, un’autostima di ragguardevoli proporzioni.

La sua permanenza nel centro federale mette in luce la velocità di base e una sorprendente resistenza ai contatti fisici più duri nonostante il peso modesto e una struttura muscolare ancora in fase embrionale. Tratta il pallone in modo sopraffino, si dimostra un discreto realizzatore ma si trova davvero a suo agio solo in presenza di ritmi elevati e mostra qualche lacuna con il tiro da fuori. Ripete a più riprese ai suoi istruttori di essere destinato a grande traguardi e promette agli amici con cui gioca ai videogiochi NBA che un giorno ci sarà anche lui a portata di joystick. Si allena cercando di imitare le situazioni di gioco che lo affascinano di più e in breve tempo si costruisce una reputazione di piccolo fenomeno. Si dedica al basket integralmente, ma non trascura la formazione accademica e cresce insieme a talenti del calibro di Boris Diaw e Ronny Turiaf, con cui sviluppa un solido rapporto d’amicizia. Migliora costantemente: in breve scala le gerarchie delle nazionali transalpine e arriva l’offerta di una borsa di studio dalla prestigiosa Oak Hill Academy (che avrebbe poi forgiato tra gli altri Carmelo Anthony e Josh Smith) per agevolare la transizione al gioco di oltreoceano. La famiglia suggerisce prudenza e Tony decide di assecondarla di buon grado, terminando il suo percorso tecnico e scolastico. La sua marcia di avvicinamento alla NBA è cadenzata e scientifica.

Nel 1999 firma il primo contratto da professionista per il Paris Basket Racing e in un paio d’anni ne diventa uno dei giocatori di riferimento, dopo aver speso del tempo come riserva di Laurent Sciarra. Alle soglie del nuovo millennio conquista una fugace celebrità dopo una partita magistrale al Nike Hoop Summit del 2000 disputata a Indianapolis, in cui spicca tra Darius Miles e Zach Randolph. Si scatena una piccola ma intensa guerra di reclutamento tra le diverse corazzate NCAA, ma Parker sorprende tutti e sceglie di giocare ancora un anno in Francia prima di rendersi eleggibile per il Draft del 2001. La decisione fa crollare le sue quotazioni a dispetto di un ottimo campionato e genera un effetto domino presso gli scout che sollevano dubbi sulla sua vena di passatore e, soprattutto, sul suo passaporto.

Parker non è neanche tra i titolari della squadra del resto del mondo allenata da coach Alessandro Gamba (sic). In quintetto Marko Popovic, Sergi Vidal, Goran Cakic, Bostjan Nachbar e Olumide Oyedeji.

Un giocatore europeo dal gioco affine alla scuola statunitense suscita più di qualche perplessità e inesorabilmente i classici luoghi comuni inquinano le valutazioni del caso. A preoccupare c’è anche il fisico: sembra impossibile che il suo corpo regga lo scontro con il tonnellaggio di molti esponenti del piano di sopra e la moda al tempo imponeva play muscolari come Chauncey Billups e Baron Davis. Il paradigma del giocatore totale lanciato da Jason Kidd e il forte ritorno della figura classicheggiante del “floor general” non lo agevola.

I Boston Celtics e gli Orlando Magic cercano disperatamente un esterno, dispongono delle due scelte ravvicinate ai pick 20 e 21 e al principio sembrano orientate a concedergli spazio e fiducia. I biancoverdi in modo particolare sono alle prese con il declino di Kenny Anderson e dovrebbero essere consapevoli che alla fine del primo giro le alternative a disposizione scarseggiano. L’interesse sfuma solo quando Red Auerbach in persona pone il veto, ma il francese è in cima ai desideri di Sam Presti - che in quel periodo è uno sconosciuto 24enne, un semplice stagista in forza allo staff dei San Antonio Spurs.

Non è un caso che solo un giovane abbia voglia di scommettere a occhi chiusi su un talento così atipico: Presti è convinto che sia una potenziale chiave di volta per tutta l’organizzazione - la spalla perfetta per Tim Duncan - e forte di questo convincimento mette a rischio la sua credibilità. Il futuro GM degli Oklahoma City Thunder ha una visione che coincide con le più sfrenate fantasie di un giocatore desideroso dimostrare le sue capacità: i suoi connazionali sono vagamente scettici, le basse aspettative sono simili a quelle di Tariq Abdul-Wahad selezionato alla fine della Lottery dai Sacramento Kings nel 1997 e a quelle di Jerome Moiso approdato ai Boston Celtics nel 2000.

Tony partecipa al suo primo provino nella città dell’Alamo, ma per colpa dell’emozione e forse del jet lag combina un disastro. A condurre le operazioni c’è Lance Blank, un modesto ex giocatore NBA che forte dei suoi 193 centimetri e di un corpo modellato da un decade di professionismo in giro per l’Europa gli infligge una lezione umiliante sotto gli occhi di Gregg Popovich. I workout successivi con le altre squadre si concludono con luci e ombre e sono influenzati dai resoconti della pessima figura rimediata con gli Spurs. Qualche rumors lascia filtrare timidi sondaggi degli Utah Jazz che devono necessariamente cominciare a svecchiare il roster (con John Stockton potenziale maestro), ma la terra dei mormoni è poco propensa al rischio. Il francese è solo un teenager ma non va in crisi di fiducia, le sue azioni cominciano a precipitare sempre più vertiginosamente ma per sua fortuna il “pigmalione” Presti sta lavorando per concedergli una seconda possibilità.

Lo stagista neroargento prepara un video con una selezione delle sue migliori giocate su suggerimento di R.C. Buford, che ha cominciato a sostenere la causa del ragazzo e convince Popovich ad un’ultima occhiata. Alla sua seconda chance Parker sfodera una prestazione scintillante e si prende una sonora rivincita su Blank. Se al termine del primo workout il suo potenziale appariva nebuloso, al termine del secondo il suo futuro allenatore si lascia sfuggire una profezia: “10 partite e finisce in quintetto”. Al pick numero 28 è ancora disponibile e viene ovviamente selezionato con l’ultima scelta del primo giro del Draft 2001.

Gli anni della formazione e dei primi titoli in Texas

L’impatto del 19enne francese va oltre ogni aspettativa. Parker conosce tutte le regole scritte e non scritte del suo stato da matricola - leggendarie le ciambelle aromatizzate al cocco che procura al caraibico prima degli allenamenti - e riesce a dialogare con i compagni di ogni età anche grazie anche a una cultura musicale che spazia dal rap al migliore rhythm & blues. Siamo ai livelli di trasformismo dello Zelig di Woody Allen: un imberbe europeo veste i panni nella matricola perfetta che convince un allenatore ultra-conservatore a dispetto dell’esperienza e guida una squadra zeppa di veterani costruita per vincere il titolo.

Popovich lo promuove in quintetto alla sua quinta partita in un momento difficile e prova a impostarlo come una versione moderna di un playmaker tutto fosforo come John Stockton. La realtà è ben diversa: Tony si dimostra una dinamo instancabile che trasforma il movimento incessante in preziosa inerzia e un ingrediente insostituibile per oliare le complesse spaziature necessarie alla coppia Duncan-Robinson. Quando viene sfidato al tiro dimostra di punire le difese a dispetto di percentuali che restano poco incisive; se spinto verso il ferro capitalizza al meglio la sua agilità. A dispetto dei numeri discreti (9.2 punti, 4.8 assist in 29 minuti di utilizzo), che dovete leggere in un contesto di gioco molto più lento, fisico e a basso punteggio rispetto alla lega del 2020, è la sua capacità di salire di livello nei momenti chiave che fa la differenza del caso.

Se all’esterno sembra tutto perfetto, la realtà è ben diversa e giocare con l’apparente maturità di un trentenne ha un prezzo molto salato. Dopo ogni partita l’esordiente più sorprendente del campionato viene pungolato, persino aspramente rimproverato, da David Robinson che si unisce al trattamento ruvido del suo allenatore e viene indirizzato in palestra per aumentare la muscolatura. In un paio di circostanze la pressione lo fa scoppiare a piangere a dirotto, quando è costretto a stringere i denti per qualche infortunio e per il classico rookie wall che puntuale fa capolino nel mese di febbraio.

Tony Senior lo supporta, ma incoraggia l’atteggiamento della franchigia convinto che una situazione del genere rappresenti un’occasione imperdibile per capitalizzare gli anni della formazione. Quando è giù di morale o deve ricaricare le batterie si rifugia nel miglior ristorante francese della città che elegge a ideale quartier generale. In precedenza gli Spurs non avevano mai puntato su prospetti da formare: la strategia di fondo era quella di lavorare sugli scambi e sulle firme a cifre strategiche. Parker è a tutti gli effetti il Paziente Zero di Buford e Popovich: la capacità di “costruire” i giocatori in casa e il meticoloso programma di sviluppo origina in gran parte dai frutti della sua esperienza. Un apripista che ha sopportato e supportato la creazione di un vero ecosistema che presto sarà la chiave dei texani.

Lampi ai playoff da rookie contro i Lakers di Shaq & Kobe.

Alle fine della stagione regolare 2001-02 è il leader di squadra per assist e palloni rubati e conquista un posto nel primo quintetto rookie, il primo giocatore di origine straniera a raggiungere questo traguardo. La serie convincente giocata contro i Lakers durante i playoff ne cristallizza definitivamente il potenziale e contribuisce a solidificare la sua posizione agli occhi di una dirigenza che intende sfruttare al massimo le ultime energie dell’ammiraglio. L’anno seguente si uniscono al roster anche Manu Ginobili, Steve Kerr e Speedy Claxton. A completare il potenziale degli Speroni c’è anche la crescita di Stephen Jackson che - dopo un anno segnato da infortuni e da un processo di crescita lento e lontano dalla rotazione - sembra finalmente pronto a contribuire.

Il numero 9, con una stagione di esperienza alle spalle, sale di livello e ancora una volta si dimostra capace di andare oltre le aspettative: alle spalle di un Tim Duncan in edizione MVP il francesino è il secondo marcatore della squadra (15.5 punti con il 50% dal campo e 5 assist), e l’intesa con il caraibico comincia a diventare telepatica. È già mefistofelico nella creazione di giocate dal palleggio, ma va costantemente disciplinato negli aspetti più strettamente legati alla distribuzione del gioco.

Il franco-belga mette la firma sul campionato del 2003 grazie a dei playoff in cui sfrutta tutte le armi del suo arsenale, anche se Popovich non si fa scrupoli e lo dirotta in panchina a ogni errore. Il suo allenatore ridefinisce il concetto stesso di pressione e tuona a ogni esecuzione poco soddisfacente di ogni singolo pick and roll: il ragazzo però non fa mai una piega e accetta di buon grado un trattamento di una durezza tale che spesso sorprende anche i compagni più navigati. In questo modo però ottiene il rispetto della squadra, anche perché attacca il ferro senza sosta e risponde in modo costruttivo a ogni critica, un atteggiamento positivo che si ripercuote sull’armonia dello spogliatoio.

Alla vigilia della vittoriosa Gara-6 delle finali di conference con i Dallas Mavericks ha persino il modo di affrontare un personalissimo “nausea game”, presentandosi alla palla a due privo di energie a causa di un’intossicazione alimentare. La creme brûlèe fornita la sera precedente dal servizio in camera è particolarmente indigesta e finisce per agevolare una delle partite più rappresentative della carriera di Steve Kerr, che ne prende il posto nei momenti decisivi. Un avvicendamento su cui la stampa ricama parecchio e che mette in evidenza un impeccabile istinto diplomatico di Tony, che dribbla con abilità qualsiasi domanda scomoda dei giornalisti.

Conosce un altro momento di difficoltà quando durante Gara-6 delle Finali lo staff dei New Jersey Nets spedisce sulle sue piste Kerry Kittles e la panchina degli Spurs risponde lanciando al suo posto uno Speedy Claxton che griffa 13 punti pesantissimi. La serie è anche l’occasione per sfidare quel Jason Kidd che San Antonio ha individuato come oggetto del desiderio della imminente free agency. Un duello in cui Parker regge il confronto e dove brilla in Gara-3 con 26 punti, ma in cui evidenzia cali di tensione che denunciano la data sulla carta d’identità. Il suo gioco è ancora in fase di sviluppo ed eccessivamente legato al tiro da fuori (26.8% nella post-season), aspetti che lo trascinano regolarmente sul banco degli imputati e che gli impongono di maturare ad una velocità pari a quella che mette sul campo.

Popovich gli comunica il desiderio di firmare Kidd per aiutare la sua crescita e il progetto di cambiare il suo ruolo. La reazione del francese è gelida e guasta involontariamente la soddisfazione per il primo titolo e quando il leader dei Nets annuncia la sofferta decisione di restare a difendere i vecchi colori, la situazione a San Antonio resta delicata. La dinastia della squadra nero-argento lo ritiene un elemento prezioso ma sacrificabile sull’altare della massima competitività. Il suo corso di studi accelerato presso l’accademia Spurs è ricco di sliding doors.

Le finali del 2007 e la maturazione tecnica

La trasformazione da giocatore ricco di talento ma ancora monocorde e facilmente controllabile a solido pilastro nei finali di partita richiede tra le quattro e le cinque stagioni di duro e incessante lavoro. In questo sviluppo costruisce una serie di movimenti quasi immarcabili che diventeranno il suo marchio di fabbrica e lavora con alterne fortune sul tiro da fuori, che a conti fatti è il tallone d’Achille più evidente. Piano piano diventa però l’incubo delle difese avversarie, che frequentemente ricorrono alla maniere forti per evitare di assistere alle sue scorribande nel pitturato. I giocatori dei Los Angeles Lakers, ad esempio, maturano in fretta una piccola ossessione per il francese ed a più riprese la scarsa velocità del dirimpettaio Derek Fisher rende necessario approntare soluzione difensive specifiche per limitare il suo impatto.

Parker raggiunge lo status di stella affermata ben prima di approdare alle finali del 2005 (seconda volta a soli 23 anni), ma la necessità di affidare il pallone nelle mani di Manu Ginobili - che in quel momento è il monarca reggente della squadra - e la presenza nel roster di Brent Barry ne limitano l’utilizzo. Anche il secondo anello ha un retrogusto amaro e il suo fidanzamento con l’attrice Eva Longoria genera insolite tensioni con un ambiente che non si trova a suo agio con i riflettori puntati addosso. Il secondo Parker con anello al dito è già decisivo per le sorti dell’organizzazione, ma qualche analista rimpiange ancora il fantasma di Jason Kidd.

Parker vuole vincere ancora, ma questa volta da assoluto protagonista e per questo scopo affronta l’estate da campione NBA come un uomo in missione. Comincia a lavorare con Chip Engelland - da poco entrato a far parte dello staff dei neroargento - con l’obiettivo di rimodellare la meccanica del suo tiro in sospensione. Engelland gli suggerisce di eliminare dal suo gioco le triple (convertite in un modesto 8/45 nei playoff) e lo spinge a cambiare drasticamente la posizione del pollice, adottando la stessa tecnica che il francese ha già metabolizzato con i “floater” vicino al ferro.

Nel giro di un paio di stagioni e dopo un continuo lavoro di affinamento, Tony reimposta dalle fondamenta il suo gioco in attacco e comincia ad alternare quasi al 50% le conclusioni in aerea e il gioco dalla media, che diventa a tutti gli effetti uno dei tratti più caratteristici e funzionali della sua pallacanestro. La doppia dimensione lo rende quasi immarcabile e permette di aggiungere elementi di novità ai giochi elaborati dal suo allenatore. Le sue statistiche ne beneficiano immediatamente e lo proiettano finalmente nell’élite di una lega che sta scoprendo il fascino discreto dei playmaker realizzatori. Nei playoff 2007 non è ancora il giocatore migliore della squadra, ma inevitabilmente il più rappresentativo a livello mediatico e conquista senza troppo clamore lo scettro di MVP delle Finali - diventando il primo europeo della storia a centrare un obiettivo così prestigioso. La Cleveland di un giovane LeBron James al secondo anno non ha risposte credibili alla sua velocità e si lascia travolgere per 4-0: il francese realizza una media di 24.5 punti con percentuali che sfiorano il 60% e domina il backcourt.

Impossibile tenerlo lontano dal pitturato senza scoprirsi da qualche altra parte.

Negli anni successivi Parker si alterna al timone della squadra con i sodali Hall of Famer Ginobili e Duncan e contribuisce a stabilire i primati di longevità di in uno sport usurante e tecnicamente mutevole come il basket NBA. Il suo contributo sempre costante scivola però in una sorta di anonimato e spesso finisce per restare ai margini della considerazione degli appassionati, che non sempre gli attribuiscono la giusta attenzione. Gli Spurs restano nel salotto buono della Western Conference ma il difficile ricambio generazionale dei giocatori di contorno (come il fallito inserimento di Richard Jefferson), la concorrenza agguerrita e un mix di infortuni li trascina lentamente fuori dal gruppo delle contendenti al titolo in molte occasioni.

Nel 2011-12 Parker raggiunge la piena maturità tecnica e contribuisce a conquistare il miglior record della lega in coabitazione con i Chicago Bulls di Derrick Rose: risulta quinto nelle votazioni stagionali per l’MVP e ipoteca lo scettro di prima opzione assoluta del texani. I playoff poco brillanti del 2011 e un’eliminazione subita al primo turno per mano di Mike Conley e dei suoi Memphis Grizzlies avevano rischiato di far scendere il sipario sulla sua permanenza in Texas. Prima di cedere George Hill per arrivare a Kawhi Leonard, la dirigenza degli Spurs non si era fatta troppi scrupoli e aveva esplorato qualche potenziale scambio con al centro il numero 9 per ringiovanire la squadra. Si tratta dell’ultima volta che il suo nome finisce per animare qualche concreto scenario di mercato: il suo rapporto con Popovich ormai granitico contribuisce ad allontanare questa possibilità, ma i suoi margini di errore sembrano sempre alquanto ristretti.

Il picco

Nell’estate del 2012 rimane coinvolto nella rissa in un night club di New York che coinvolge i cantanti Drake e Chris Brown e resta ferito all’occhio sinistro: riceve un colpo alla cornea che solo per pochi centimetri non si trasforma in un danno permanente alla vista. Archiviato lo spavento, la stampa si accorge finalmente del suo contributo e lo inserisce nel ristretto circolo che si gioca il titolo di miglior playmaker della lega, uno scettro molto combattuto che a buon titolo definisce il giocatore pronto a salire sul podio della gerarchia NBA dietro a LeBron James e Kevin Durant.

I suoi avversari sono Russell Westbrook e Chris Paul (con Derrick Rose da inserire nella conversazione in caso di buona salute), un giusto riconoscimento dopo una decade in cui ha dimostrato di essere una delle point guard più consistenti e durevoli della lega. Gli innesti operati da Buford per supportare i tre grandi veterani prevedono anche l’arrivo del suo vecchio amico Boris Diaw, un ala dal talento innegabile ma spesso difficile da gestire. L’arrivo del connazionale su ovvio consiglio di Parker fotografa al meglio il nuovo status che sfoggia in squadra e ricorda a tutti gli effetti la firma diplomatica di Fabricio Oberto per venire incontro ai desideri di Manu Ginobili. Nel laboratorio di Chip Engelland a Spursello, intanto, fervono i lavori sulla meccanica di tiro del giovane Kawhi Leonard e di Danny Green.

La versione Spurs del “Beautiful game” sta prendendo corpo e il motore della fase offensiva più interessante e coinvolgente della storia recente è ovviamente il nativo di Bruges. I texani riscattano anni di etichette negative e da noiosi si trasformano in affascinanti farfalle, un’impresa riuscita grazie a un uso sapiente della motion offense, l’accantonamento sistematico degli isolamenti e una spregiudicata politica sulle triple dall’angolo, una variante tattica affinata nel corso del passaggio da Bruce Bowen a Danny Green. Da squadra ancorata alle tradizioni a solido punto di riferimento per le nuove tendenze del gioco, il corso è stato tutto sommato breve. Gli eventuali problemi difensivi sono risolti spesso da Kawhi Leonard, che non ha mai la soddisfazione di vedere chiamato un gioco in attacco, ma che è abilissimo a sfruttare quello che i compagni confezionano per lui.

San Antonio raggiunge le Finali del 2013 con i Miami Heat di LeBron James e di Dwyane Wade ma deve arrendersi di fronte allo storica tripla di Ray Allen in Gara-6 che di fatto scrive uno dei momenti più memorabili della storia della lega. Un tiro in grado di suggellare un incredibile rimonta e che finisce per distruggere il morale degli Spurs, ormai privi di risorse mentali per affrontare Gara-7. Tony firma la straordinaria conclusione che vale la vittoria di gara-1, ma gioca in amministrazione controllata per quasi tutta la serie a causa di problemi muscolari e deve arrendersi alla maggior freschezza della squadra della Florida. Nel corso dei playoff di quella stagione conferma il suo stato di grazia come in Gara-4 delle Finali di Conference sul campo dei Grizzlies: contro Mike Conley mette a referto 37 punti, 6 assist e 4 rimbalzi con 15/21 dal campo. Un clinic.

L’anno successivo la voglia di rivalsa trascina i texani a un livello di rendimento ancora più elevato e lo stile di gioco ricco di passaggi e contraddistinto da un basso usage rate degli uomini di riferimento diventa a tutti gli effetti un fenomeno mediatico. I nero argento tornano in finale dopo una drammatica sfida con gli Oklahoma City Thunder di Russell Westbrook e Kevin Durant e conquistano la sospirata rivincita con i Miami Heat, chiudendo le finali sul 4-1 e lanciando definitivamente la stella di Kawhi Leonard.

Si tratta del quarto titolo assoluto del francese, che festeggia degnamente il miglior momento della carriera. La conquista dell’anello è il canto di un cigno di un gruppo che deve metabolizzare l’imminente ritiro di Tim Duncan e cominciare a gestire il passaggio delle maggiori responsabilità a Leonard, pronto a diventare a tutti gli effetti il nuovo giocatore di riferimento. Nel 2014-15 le cose non girano per il verso giusto e, nonostante le 55 vittorie stagionali, i playoff dei campioni uscenti si chiudono direttamente al primo turno sotto i colpi di un indiavolato Chris Paul che spinge i suoi Clippers all’impresa. San Antonio tenta un colpo di coda l’anno successivo con la firma di LaMarcus Aldridge, ma a fronte di 67 vittorie in stagione si arrende ai Thunder al secondo turno - un’eliminazione che finisce per creare più di qualche tensione e che di fatto apre la strada a qualche malumore in spogliatoio, oltre che a una serie di problemi mai del tutto risolti.

Il tramonto

Tra il 2016 e il 2017, quando ormai è vicino ai 35 anni di età, il calo di rendimento comincia a diventare sensibile e la muscolatura delle gambe comincia a mandarlo in sofferenza. Parker cerca di agevolare la transizione verso i compagni più giovani ma presto nascono delle perplessità riguardo il suo minutaggio e sulle responsabilità offensive, piccole incomprensioni che cominciano a far maturare l’idea di una breve esperienza lontano dal Texas per chiudere la carriera.

Il tremendo 2017-18 contrassegnato dall’infortunio misterioso di Kawhi Leonard lo vive da leader della squadra, nonostante la lunga riabilitazione dopo la rottura del tendine del quadricipite sinistro occorsa nel secondo turno contro gli Houston Rockets. Parker gioca un ruolo chiave nella riunione tra giocatori che si svolge in primavera e si schiera dalla parte dei numerosi compagni che prendono posizione contro le assenze del californiano. La stampa riporta una serie di frasi poco felici del francese sulla vicenda (esternazioni poi ritrattate dal diretto interessato), ma la situazione di continua tensione degenera e si conclude con la sofferta cessione di Leonard ai Toronto Raptors.

Nell’estate del 2018 Parker diventa free agent e continua a reclamare spazio e considerazione. Popovich gli offre un anno di contratto ma il suo ruolo all’interno del disegno tecnico resta debole. Questa volta Tony non si piega di fronte alla ragion di stato e si abbandona a un comprensibile moto d’orgoglio. Dopo 17 anni di carriera e di scorribande ai playoff decide di salutare gli Spurs per approdare agli Charlotte Hornets, pronti a offrirgli il ruolo di “vice” Kemba Walker. Un’avventura di una stagione che ha portato il nativo di Bruges al ritorno a una buona efficienza fisica, ma che di fatto non ha regalato spunti apprezzabili a una carriera già di per sé leggendaria. E visto che le possibilità di vincere con Charlotte erano inesistenti, lui stesso ha deciso di dire basta.

Nel suo curriculum spicca anche la lunga militanza con la maglia nazionale francese, un impegno di grande rilievo che gli ha fatto conquistare agli Europei di basket due medaglie di bronzo (2005 e 2015), un argento (2011) e uno storico titolo con il premio di MVP della manifestazione nel 2013. Capitano della selezione transalpina dal 2003, è stato per quasi venti anni il catalizzatore offensivo e il simbolo della squadra dei galletti, di cui è indiscutibilmente il miglior giocatore della storia.

In ogni caso, il ritiro della sua maglia era passaggio obbligatorio e dovuto a un Grande del gioco. Merci, Tony!

Bonus track: i trucchi del mestiere

Al massimo delle sue possibilità Tony Parker ha coniugato una buona pericolosità perimetrale e una capacità di attaccare il ferro fuori dal comune per un atleta sotto il metro e novanta di altezza. Nella stagione 2005-06 ha persino guidato per mesi la classifica dei punti realizzati nel pitturato, un evento più unico che raro che fotografa al meglio la sua atipicità. A questo dovete aggiungere una velocità effettiva con il pallone in mano superiore alle 20 miglia orarie e una varietà di soluzioni che a un certo punto della carriera lo ha reso sostanzialmente immune dagli aggiustamenti delle difese avversarie. Vicino a canestro ha spopolato principalmente grazie a questi tre movimenti che ha perfezionato nel corso degli anni con pazienza e cura certosina:

Il“Tornado spin move”

Sviluppato principalmente sulle movenze di Isiah Thomas e soprattutto di Gary Payton, che alternava gioco in post basso agli “svitamenti” vicino al canestro. Questo movimento è a tutti gli effetti una sintesi dei ricordi d’infanzia di Tony e l’attestato della sua attenzione ai particolari che lo ha reso uno studente del gioco di primo livello. Per rendere mortifero il “tornado” sono necessari una grande velocità di piedi, un equilibrio sopra la media e una sensibilità nei polpastrelli degna di un grande tiratore da fuori. Anche nella parentesi agli Charlotte Hornets questa specialità ha funzionato egregiamente, dimostrandosi senza tempo.

Il “Tear Drop”

Salito agli onori delle cronache in modo molto più marcato rispetto al “tornado”, ma utilizzato meno di quanto si tenda a credere nella seconda parte di carriera. Questa movenza gli ha permesso di entrare nel salotto buono della lega e gli ha consentito di sopravvivere in un campionato di super-atleti mentre stava affinando ed ampliando il suo gioco. A tutti gli effetti siamo di fronte a quello che gli americani amano definire “signature move” e non c’è dubbio che questo tiro sia entrato nella cultura popolare del gioco con una sorprendente velocità. Lo possiamo considerare la risposta degli esterni al celebre gancio che ha spopolato anni prima?

Il “Wrong Foot Layup” (letteralmente il “piede sbagliato”)

Caposaldo di ogni protagonista dei playground che si rispetti, trattasi di un fondamentale che ha permesso ai giocatori poco prestanti fisicamente di esplorare i limiti delle difese avversarie. Consiste nell’effettuare il tiro con lo stesso piede che avvia la penetrazione e garantisce velocità di esecuzione e l’impossibilità oggettiva del difensore di prendere posizione efficace in tempi utili. Uno stratagemma perfetto quando l’area si restringe rapidamente a causa della stazza e della velocità sempre maggiore degli atleti NBA.

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