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Il momento contraddittorio del Torino
12 set 2024
12 set 2024
Grande entusiasmo in campo, grande sfiducia fuori.
(copertina)
IMAGO / ABACAPRESS
(copertina) IMAGO / ABACAPRESS
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C’è un universo parallelo in cui il destro al volo di Okafor, nei minuti finali di Milan-Torino di poche settimane fa, è finito alto sopra la traversa. In quell’universo parallelo i granata di Paolo Vanoli sono usciti con tre punti dalla trasferta di San Siro che ha inaugurato il loro campionato. Sempre in quell’universo parallelo il Toro ha vinto le successive due gare contro Atalanta e Venezia (e questo è successo anche in questo universo) ritrovandosi in testa alla classifica in solitaria durante questa sosta per le nazionali, sfatando un tabù che durava da oltre quarantacinque anni: era dal 21 febbraio 1977, dopo una vittoria 1-0 contro il Bologna, che i granata non guidavano la classifica di Serie A da soli al termine di una giornata di campionato.

Nell’universo in cui viviamo, però, il destro al volo di Okafor ha superato Milinkovic Savic, Milan-Torino è finita 2-2 e i granata hanno dovuto “accontentarsi” di dividere la vetta durante questa sosta con Inter, Juve e Udinese. Due settimane di pausa ugualmente dolci per il Toro e per i suoi tifosi, che hanno trovato in questi primi scampoli del nuovo ciclo di Vanoli diversi motivi per riaccendere un entusiasmo che nel triennio di Juric, partito anch’esso con grande ardore, era andato spegnendosi. L’ambiente granata si è così ritrovato a vivere un momento molto particolare, fatto di sensazioni decisamente contrastanti: a fare da contraltare all’esaltazione per ciò che si sta vedendo in campo, infatti, c’è la tensione che caratterizza il rapporto tra la tifoseria e Urbano Cairo. Un rapporto che da anni è conflittuale, ma che ora sembra essere arrivato a un punto di rottura.

Il giorno della partita contro l’Atalanta, in particolare, è stato emblematico del momento e dei controversi sentimenti che la tifoseria del Toro sta vivendo. Prima della gara, una contestazione feroce contro la proprietà, forse mai così dura dall’insediamento di Cairo; poi, un sostegno costante e caloroso alla squadra - come all’ex “Comunale” non si vedeva da anni, dice più di qualcuno - durante la partita vinta 2-1 dalla squadra di Vanoli. È stato proprio il campo, in quest’ultimo mese, a restituire all’ambiente granata un entusiasmo vissuto raramente in anni recenti. In questo primo “microciclo” di tre partite il Torino di Paolo Vanoli, con una buona dose di sfrontatezza e un pizzico di fortuna, ha stupito un po’ tutti raccogliendo 7 punti nonostante un calendario non semplice.

Vanoli ha finora avuto il merito di riavvicinare i tifosi alla squadra non solo con i risultati e con un gioco più propositivo rispetto a quello dell’ultimo Juric, ma anche con una comunicazione diametralmente opposta a quella del tecnico croato, che soprattutto nel girone di ritorno della scorsa stagione aveva deliberatamente scelto di andare allo scontro con la sua gente, accusata a più riprese di “poco amore”, colpevole a detta dell’allenatore di Spalato di aver creato intorno alla squadra un ambiente tossico, ostile al punto da costare materialmente dei punti in classifica. Dichiarazioni e atteggiamenti che, insieme a prestazioni deludenti, e soprattutto ai fatti del 4 maggio 2024 - insulti ai tifosi saliti a Superga da parte di due calciatori, ripresi in un video girato sul pullman - avevano alzato un muro tra chi vestiva il simbolo del Toro, i tesserati, e la tifoseria.

Vanoli ha saputo ricucire questo strappo fin dai primi allenamenti, tra il Filadelfia e il ritiro di Pinzolo: senza strafare, senza forzate ruffianerie, semplicemente tendendo la mano con educazione, entrando nel mondo granata in punta di piedi e con una comunicazione lontana anni luce da quella del suo predecessore nei modi e nei toni, riconoscendo subito ai tifosi il ruolo di supporto che devono avere.

Chi temeva che non avesse il carisma per tenere testa a un presidente accentratore come Cairo è stato smentito dalla conferenza stampa successiva alla cessione di Bellanova all’Atalanta, in cui Vanoli ha lasciato intendere in maniera pacata ma chiarissima il suo disappunto: «Ho detto al presidente in faccia ciò che penso. Non mi piace la mediocrità. Ho detto al presidente chi era Vanoli e alla società di avere più coraggio e di tirare fuori tutte le potenzialità». È stato quel giorno, probabilmente, che l’allenatore ha definitivamente conquistato una tifoseria già incuriosita dalla promettente prestazione di San Siro. Quel «Non mi piace la mediocrità», tirato fuori in un ambiente in cui talvolta si percepisce una cronica dimensione di mediocrità. L’idillio è stato poi rinsaldato nella conferenza stampa successiva alla partita col Venezia, da un’altra dichiarazione suonata come musica alle orecchie dei cuori granata: «Allenare il Toro fa venire la pelle d’oca»- questa sì leggermente ruffiana.

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L’altra faccia della medaglia è il clima sempre più teso che circonda il presidente Urbano Cairo - che pure Vanoli lo ha scelto come nuovo allenatore, e questa sembra essere un'intuizione felice. Lo scorso 2 settembre i profili social del Torino hanno pubblicato un post per celebrare i diciannove anni della sua presidenza: è in procinto di superare Orfeo Pianelli e diventare il presidente più longevo dell'ultracentenaria storia del club granata. Su Instagram il post è stato pubblicato fin dall’inizio con i commenti chiusi, mentre su X la possibilità di commentare è stata disattivata pochi minuti dopo la pubblicazione, dopo che le prime risposte dei tifosi (poi nascoste) avevano già cominciato ad arrivare. Un avvenimento forse poco significativo, nemmeno così insolito in epoca social, ma estremamente sintomatico del momento che sta vivendo il Torino e del rapporto tra la proprietà e la tifoseria.

Un rapporto che nel 2005, dopo il fallimento, era nato con grandissimi auspici, alimentati ulteriormente dall’immediata risalita in A, ma che negli anni è andato via via deteriorandosi. Chi credeva che Urbano Cairo avrebbe segnato la rinascita del Torino e il suo ritorno agli antichi fasti - antichi ma non troppo, dato che ancora nella prima metà degli anni ’90 i granata lottavano nelle zone alte della classifica - oggi è completamente disilluso.

Domenica 25 agosto, pochi giorni prima della pubblicazione di quel famigerato post, è andata in scena una contestazione che non ha precedenti nell’era Cairo per modalità, partecipazione e impatto mediatico. Oltre diecimila persone sono scese in strada nelle ore precedenti Torino-Atalanta per gridare il proprio malcontento. Non è la prima volta che dalla tifoseria arrivano critiche, proteste, anche insulti nei confronti del presidente: la contestazione va avanti ormai da anni, tra striscioni al Filadelfia o sotto gli uffici milanesi di Cairo e cori durante le gare casalinghe della squadra. Un clima teso che nell’ultimo decennio è diventato una costante, pur senza toccare i picchi raggiunti durante il triennio di Serie B 2009-2012: l’apice assoluto, una bomba carta lanciata durante la conferenza stampa di presentazione del Ds Gianluca Petrachi.

Mai prima d’ora, però, la contestazione si era concretizzata in una mobilitazione collettiva di queste proporzioni. Persino la Gazzetta, pur edulcorandola, è stata costretta a dare la notizia nella sua consueta pagina dedicata al Torino: e insomma, se anche la “rosea” ha ritenuto opportuno dare spazio a una protesta contro il suo stesso proprietario, allora significa che l’impatto mediatico è stato rilevante (chi ha un po’ di familiarità con le pagine a tinte granata sulla Gazzetta capirà quanto questo fatto sia stupefacente).

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La causa scatenante della mobilitazione è stata la cessione all’Atalanta di Raoul Bellanova, avvenuta all’improvviso, a pochi giorni dalla chiusura del mercato e all’insaputa del tecnico Paolo Vanoli (fonte: lo stesso Vanoli nella conferenza stampa pre Venezia-Torino). Sarebbe sbagliato, però, sostenere che questa sia l’unica causa, oppure quella principale. Il passaggio di Bellanova alla Dea è stata la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso, ma le cause del malcontento hanno radici molto più profonde che si estendono anche fuori dal campo.

Per chi osserva dall’esterno forse non è facile comprendere certe dinamiche. L’indicatore più semplice e immediato da valutare è quello dei risultati sportivi. Da questo punto di vista Urbano Cairo ha rivendicato spesso il fatto di aver stabilizzato il Torino in Serie A, e questo è un fatto oggettivo: i granata giocano ininterrottamente il campionato di massima serie dal 2012/13, fatto non scontato nel decennio che ha preceduto l’insediamento dell’imprenditore alessandrino. Limitarsi a questa analisi, però, sarebbe superficiale. Cairo ha sì portato il Torino a giocare stabilmente in Serie A, ma va innanzitutto precisato che questa può essere considerata la normalità per un club della dimensione e del bacino dei granata - nonché la normalità storica della società, fatta eccezione per lo sciagurato decennio 1995-2005. In più, nella stessa era Cairo non sono mancati momenti bui: il triennio di Serie B 2009-2012 è il peggior filotto nella storia del club, alla pari con il 1996-1999 e il 2003-2006.

Scendendo ancor più in profondità nell’analisi, si osserva che il Torino, nell’era Cairo, non è mai andato oltre il settimo posto in Serie A, raggiunto due volte (2013-2014 e 2018-2019): dal 2005 ad oggi hanno avuto picchi più alti, oltre alle big tradizionali, anche Chievo, Fiorentina, Sampdoria, Palermo, Genoa, Livorno, Udinese, Parma, Sassuolo, Atalanta e Bologna. Il Torino, nell’era Cairo, non è mai andato oltre i quarti di finale di Coppa Italia: dal 2005 ad oggi hanno giocato almeno una semifinale, oltre alle big tradizionali, anche Palermo, Udinese, Sampdoria, Catania, Fiorentina, Siena, Alessandria, Atalanta e Cremonese. Nell’era Cairo il Torino si è qualificato per le Coppe europee solo due volte, entrambe grazie a una squalifica altrui (Parma nel 2014, Milan nel 2019), non andando oltre i preliminari contro il Wolverhampton nella seconda occasione.

E poi, ancora, il deprimente score nei derby della Mole: una sola vittoria in 30 incontri, Coppa Italia compresa. Oppure la miseria di 23 vittorie contro le big (Juve, Inter, Milan, Roma, Lazio e Napoli): dal 2005 ad oggi hanno uno score migliore, tra le altre, anche Genoa, Sampdoria, Bologna, Udinese, Sassuolo e Parma. E si potrebbe andare avanti. Insomma, anche tralasciando le “nobili” (nessun tifoso del Toro con sale in zucca pretende di contendere gli scudetti a Juve, Inter o Milan), il confronto con realtà che nello stesso arco di tempo sono ripartite dalla C (Napoli e Fiorentina) oppure con altre dal bacino simile o inferiore a quello granata (come l’Atalanta o l’ultimo Bologna) è impietoso. Non bisogna fermarsi alla superficie di questi risultati ma ai loro effetti: la sensazione di stagnare in una mediocrità senza possibili ribaltamenti, picchi emotivi, momenti felici.

Una sensazione di prevedibilità che è la fortuna del Torino - perché almeno, come detto, non retrocede in Serie B - ma anche la sua catena. Non avere mai la percezione di andare oltre i propri limiti, di battere i più forti - anche per momenti circoscritti - significa negare una parte importante dell’esperienza calcistica. Beffa delle beffe, il Toro di Cairo ha collezionato questi risultati anonimi pur non lesinando spese significative sul mercato.

Nonostante la fama da “braccino”, negli ultimi anni il presidente ha aperto spesso i cordoni della borsa, ma lo ha fatto il più delle volte senza veri criteri tecnici a giustificare e supportare l’investimento; senza una visione precisa, o un progetto a lungo termine. A volte si è avuta la sensazione che l’importante era piazzare il “colpo ad effetto”. E così negli anni il Torino ha acquistato, tra gli altri, Mbaye Niang (12 milioni), Simone Zaza (12 milioni), Simone Verdi (22 milioni), Ola Aina (10 milioni). Decine di milioni sperperati per calciatori la cui resa è stata vicina allo zero. L’aver investito cifre importanti senza raggiungere risultati di rilievo è la dimostrazione di una certa approssimazione nella gestione del club. Soprattutto per un presidente, Cairo, notoriamente attento ad ogni singolo centesimo speso nelle sue aziende.

Tornando ai risultati, appartengono all’era Cairo anche alcuni record negativi della storia del Torino: minor numero di vittorie in un campionato a venti squadre (sette, nel 2020-2021); maggior numero di sconfitte in un campionato a venti squadre (venti, nel 2008-2009 e nel 2019-2020); minor numero di vittorie in casa in un campionato a venti squadre (tre nel 2020-2021); maggior numero di sconfitte in casa in un campionato a venti squadre (nove nel 2006-2007); la sconfitta più larga in casa (i tristemente indimenticabile, per i tifosi del Toro, 0-7 contro Atalanta e Milan tra il 2020 e il 2021); minor numero di reti segnate in un campionato a venti squadre (27 nel 2006-2007). Magari questi dati possono suonare astrusi, ma provate a immaginare che tipo di frustrazione possono alimentare in un tifoso del Torino.

Insomma, sebbene i risultati sportivi siano solo una delle ragioni che hanno portato al logoramento del rapporto tra Cairo e l’ambiente granata, la sua gestione è attaccabile anche da questo punto di vista.

Poi, però, c’è anche tanto altro. Il Torino, è noto, ha una storia affascinante e tragica, che i tifosi custodiscono gelosamente: Cairo, in quasi vent’anni di presidenza, ha fatto poco (leggi: quasi niente) per valorizzarla. Una dimostrazione su tutte: il Museo del Grande Torino e della Leggenda Granata si trova a Grugliasco, fuori città, ed è gestito da volontari, senza contributi rilevanti da parte del club, malgrado la promessa, ad oggi non mantenuta, di portarlo al Filadelfia. Questo impianto, uno dei simboli della storia del Toro, culla dell’epica granata, sotto la gestione di Urbano Cairo, nel 2017, è tornato ad essere il campo di allenamento della prima squadra (con il contributo di privati), ma solo diversi anni dopo, e solo per merito dei piedi puntati da Ivan Juric, le strutture sono state realmente adeguate alle esigenze odierne di una squadra di calcio professionistica.

Il moncone della tribuna storica è stato ristrutturato dall’azienda di un tifoso granata, la Fiammengo Federico Srl, che si è accollata tutte le spese, senza che dalle casse del Torino Fc uscisse un solo euro. In questo scenario, se l’esempio deve venire dall’alto, non sorprende quanto accaduto lo scorso 4 maggio a Superga, mentre il pullman del Torino raggiungeva la basilica per la tradizionale commemorazione degli “Invincibili” (e che vogliamo dire di Uros Kabic che palleggia noncurante in mezzo al campo mentre i Sensounico eseguono la commovente “Quel giorno di pioggia” nell’intervallo di Torino-Bologna?).

Poi ci sono aspetti meno materiali e più simbolici. Dove sono le radici del Toro? Nella sua sede cittadina o negli uffici milanesi del presidente, a 140 chilometri più a est, dove si prendono tutte le decisioni? Questa, per una tifoseria come quella del Toro, attaccata quasi morbosamente ai suoi luoghi e ai simboli della propria identità, è un'altra questione problematica.

L’elenco delle colpe che la tifoseria contesta a Urbano Cairo è lungo. Tra gli episodi più discussi c’è quello accaduto durante Torino-Inter del 23 novembre 2019, con ultras granata e nerazzurri fatti consapevolmente confluire nello stesso settore sottovalutando il pericolo, con conseguenze potenzialmente gravissime per bambini e famiglie presenti.

E poi c’è l’approssimazione nella gestione di tutto ciò che riguarda il settore giovanile, negli anni scorsi spesso vestito con kit di allenamento riciclati dalle stagioni precedenti - non è grave, si potrebbe osservare, ma è sintomatico di una certa sciatteria - e oggi privo di strutture di allenamento di proprietà (in attesa del Robaldo). La Primavera negli anni scorsi è finita a giocare le gare casalinghe addirittura a Vercelli. C’è il modo discutibile in cui la Gazzetta dello Sport tratta ciò che riguarda il Toro, enfatizzando tutto ciò che può essere e riducendo al minimo lo spazio per lo critiche; c’è l’accentramento su di sé di tutto ciò che riguarda il club che Cairo mette sistematicamente in atto: la struttura dirigenziale del Torino è ridotta all’osso e i dirigenti hanno margini di manovra molto limitati.

Davide Vagnati è il direttore tecnico e uomo mercato, ma il potere di firma ce l’ha solo Urbano Cairo: nessuna trattativa può essere conclusa senza il suo ok, e nei casi più complicati è Cairo stesso a negoziare. Quando parla del Toro, Cairo parla sempre in prima persona: “Io ho fatto, io ho comprato, io ho venduto”, e così via. Come a segnare una divisione netta con i tifosi, come a riaffermare la sua posizione: “Il Toro sono io, io sono il Toro”. Una visione da presidente di qualche anno fa, a dire il vero non così insolita in Serie A.

«Il Toro di Cairo è come una pianta di plastica, non muore mai, ma mai fiorisce. Non ha bisogno di essere innaffiata, basta una spolveratina ogni tanto per farla apparire vera agli osservatori lontani o distratti. Accudirla non costa nulla anzi, c’è chi paga per vederla, convinto sia vera e, a volte, lo appare persino. Ti accorgi che è finta quando noti che non cresce, che la terra in cui è piantata è arida, che il padrone la usa come specchietto per le allodole. Però è un’imitazione fatta così bene che capita attiri frotte di lombrichi». In questa citazione di Michele Monteleone, autore del libro Orgoglio Granata, sono racchiuse tutte le ragioni che hanno portato alla spaccatura tra Urbano Cairo e la tifoseria del Toro.

Quel che logora è la sensazione che i risultati sportivi non siano una priorità. In quasi vent’anni un patron partito con un patrimonio di entusiasmo fatto di 60 mila spettatori per una partita di Serie B - la storica finale playoff Torino-Mantova - ha anestetizzato ogni embrione di sogno dei tifosi granata: se tifi per il Toro, semplicemente, non ti è concesso di sognare. Probabilmente non rischierai, almeno a breve termine, di vedere la tua squadra ripiombare in B (o in quel fallimento agitato come uno spauracchio ogni volta che un tifoso granata alza il dito provando a chiedere qualcosa in più). Altrettanto probabilmente, ad ogni mese di maggio, a godere saranno i tifosi di altre squadre.

Questo, alla lunga, pesa: pesa sui cuori dei tifosi del Toro nati dagli anni ’90 in poi, pesa ancor di più su chi ha in testa qualche capello bianco e nella sua vita un Toro capace di far sognare l’ha visto davvero. Perché è inutile negarlo: il tifoso del Toro è legato a certi riti e a certi simboli che compongono l’identità di questo club, vive il tifo letteralmente come una fede, ma è pur sempre un tifoso, e non esiste tifoso che non dia almeno un po’ di importanza ai risultati, checché ne dicano gli slogan sull’amore incondizionato per la maglia.

E se pretendere di trattenere sempre i calciatori migliori è utopia, i tifosi del Toro vorrebbero quantomeno vedere una società che tenta di diventare, passo dopo passo, un posto in cui i giocatori forti si fermano più volentieri: di questi tentativi, finora, non se ne sono visti e non se ne vedono. Quando un calciatore se ne va, Cairo corre davanti ai microfoni affrettandosi a specificare che l’addio è stato volontà del giocatore, che la società non poteva “tarpargli le ali”, che il partente di turno ambiva a lidi più prestigiosi. Provare a diventare un “lido più prestigioso”, un po’ più prestigioso, non sembra possibile.

Il bilancio per Cairo è spesso stato la priorità assoluta: il mantra è la riduzione all’osso di ogni possibile costo, dentro e fuori dal campo, anche se questo significa abbassare la qualità del prodotto, in questo caso la squadra. C’è da dire che negli ambienti dell’editoria italiana il presidente del Torino è noto col soprannome di “Urbano Mani Di Forbice”. Nessuno nega l’importanza del bilancio, il problema è la sua celebrazione, e alcune scelte che negli anni sono state difficili da digerire.

Non si può chiedere a un tifoso di accettare di buon grado che dopo aver ceduto Glik e Maksimovic per oltre 35 milioni i rimpiazzi siano Rossettini a 2 milioni e Castan in prestito. Non si può chiedere ad un tifoso di capire la cessione di Cerci a 14 milioni se il rimpiazzo è un Amauri sul viale del tramonto preso gratuitamente e Quagliarella già 31enne, pagandolo 3 milioni e mezzo. Non si può non prevedere che un tifoso storca quantomeno il naso quando il rimpiazzo di Bellanova, ceduto a 25 milioni il 20 agosto nell'estate in cui la società ha già salutato il suo simbolo, Buongiorno, per quasi 40, è Pedersen in prestito con obbligo di riscatto per circa 5 milioni complessivi.

Sono solo alcuni esempi, i più eclatanti, di quei momenti in cui la presidenza del Torino ha dato l’impressione che i risultati sportivi non siano la priorità. Venerdì sera, dopo la vittoria dell’Italia di Spalletti contro la Francia in cui Samuele Ricci ha offerto una prestazione maiuscola, tra i tifosi del Toro la rassegnazione superava la soddisfazione: i commenti più gettonati, sui social e nelle chat, andavano da «Chissà a quanto lo venderemo» a «Questa sarà la prossima plusvalenza».

Ci sono stati, come già detto, i momenti in cui Cairo ha deciso di investire cifre importanti sul mercato, ma sono stati molti di più, in questi diciannove anni, quelli in cui il Toro è stato vicino a un potenziale salto di qualità ed è stato frenato dai propri vincoli, il non voler andare oltre certi limiti.

Se i risultati del campo sono fisiologicamente fatti di alti e bassi, ed è inevitabile che presto o tardi arriveranno momenti più duri anche per il suo Torino, Vanoli un piccolo miracolo l’ha già compiuto, ricompattando una tifoseria che aveva finito per dividersi in tante fazioni. Le fratture all’interno dell’ambiente granata sono tutt’ora tante, ma l’impressione è che si sia riusciti momentaneamente a metterle da parte.

La cessione di Bellanova ha dato il là a una mobilitazione collettiva della tifoseria (e non si parla solo di chi era presente alla manifestazione pre Toro-Atalanta) che sembrava impossibile e impensabile fino a qualche settimana fa, con Paolo Vanoli a fare da simbolo attorno al quale stringersi.

Un altro tassello, poi, Vanoli l’ha messo con le dichiarazioni post Venezia. Al termine di una partita non brillantissima da parte dei suoi, vinta grazie ad un gol di Saùl Coco negli ultimi minuti, il tecnico ha dichiarato senza girarci troppo attorno di non essere soddisfatto della prestazione: «Un test superato con un voto basso. Dobbiamo capire le difficoltà con queste squadre, fare grandi prestazioni anche con loro, non solo con le grandi», ha detto il tecnico dopo aver battuto la sua ex squadra. Come ad alzare l’asticella, volendo comunicare a chi guarda, ma soprattutto ai suoi stessi calciatori, che accontentarsi non è un’opzione e che chi gioca nel Torino deve avere un certo tipo di ambizioni.

Anche in questo caso a pesare sulla percezione di queste parole è la contrapposizione con chi ha preceduto Vanoli: le dichiarazioni di Juric erano spesso caratterizzate da un forzato ridimensionamento della potenzialità dei suoi giocatori e dall’esaltazione di quelle degli avversari. Una comunicazione propedeutica a magnificare poi, nel post partita, anche le prestazioni e i risultati più deludenti: come a dire “I miei calciatori sono limitati, facciamo quello che possiamo”. A suo modo memorabile quella volta in cui, durante la stagione 2022-2023, prima della gara interna contro la Cremonese (penultima a fine anno) Juric dichiarò che tra la rosa grigiorossa e quella granata non c’era poi così tanta differenza. Comunicazione lontana anni luce da quella di Vanoli, come si diceva prima.

Tutti questi elementi, uno sull’altro, hanno portato al delinearsi di un momento molto particolare per il mondo Toro, diviso tra l’eccitazione per un nuovo inizio sul campo e la speranza che per la proprietà sia invece arrivato l’inizio della fine. Cairo, dal canto suo, forse per la prima volta ha preso coscienza dell’umore della piazza (o quantomeno per la prima volta ha reso pubblica questa sua presa di coscienza). In occasione di Torino-Atalanta ha deciso di non essere presente allo stadio, un fatto decisamente insolito per lui quando il Toro gioca in casa. Dopo la gara, in un post su Instagram, ha scritto: «Felice per la vittoria di ieri, complimenti ai ragazzi e al Mister per la grande partita! Grande amarezza per la contestazione».

Un’ammissione non scontata per uno che meno di un anno fa dichiarava tronfio: «Ho commissionato un sondaggio, il 75% della tifoseria è dalla mia parte, devo recuperare il restante 25 e penso proprio di riuscirci». È forse la prima volta, come detto, che Cairo ammette apertamente che tra lui e la tifoseria c’è un problema.

«Guardate che in giro c’è anche di peggio». Se lo sentono ripetere spesso i tifosi del Toro, da parte di persone che non riescono a comprendere fino in fondo la contestazione nei confronti di Cairo. Non c’è dubbio: in giro c’è anche di peggio e i tifosi granata lo sanno meglio di chiunque altro. Però c’è anche di meglio. E il tifoso del Toro oggi è disposto a rischiare: pessimista cronico, per una volta ha deciso di mettere da parte la sua natura. Il tifoso del Toro, oggi, ha deciso di essere ottimista.

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