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#Totti300
20 set 2015
10 gol di Totti raccontati da 10 autori diversi per celebrerare le 300 reti del capitano della Roma.
(articolo)
24 min
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vs Foggia, 1994

di Emiliano Battazzi (@e_batta)

Il 4 settembre 1994 faceva caldo allo Stadio Olimpico: era il secondo anno della gestione di Franco Sensi, ed anche la seconda stagione di Carlo Mazzone da allenatore.

Io ero in distinti nord con la mia famiglia e mi sembrava un’impresa, all’epoca i tifosi riempivano lo stadio tutte le domeniche e i biglietti non si trovavano mai: circa 59.000 paganti, secondo il tabellino ufficiale della gara.

Non ricordo granché di quella partita (avevo 10 anni), tranne un’immagine netta: un rasoterra che entra sul primo palo, per fortuna sotto la Nord, perché altrimenti non avrei visto nulla. Un ragazzino di quasi 18 anni che esulta incredulo e impacciato: Francesco Totti.

In quella calda giornata di settembre aveva il numero 9, perché Balbo era assente e non c’erano ancora i numeri fissi: tranne il 10 di Giannini, ovviamente. Il cronista della RAI parla di “giovane attaccante”, ma sapevo che c’era incertezza al riguardo: nelle nazionali giovanili, l’allenatore Sergio Vatta lo faceva giocare sempre da regista a centrocampo, con il numero 8, perché aveva visione di gioco e un lancio magnifico.

Seguendo il suo fiuto da allenatore navigato, Mazzone l’aveva avanzato di diversi metri: ma Totti era ancora un trequartista con velleità di seconda punta, nonostante quel numero sulla maglia. Oppure era una premonizione del suo futuro ruolo da falso centravanti, chi lo sa.

Il gol fu davvero bello, un sinistro di collo pieno all’angolino su assist di Fonseca. Già, il primo gol in Serie A con il piede “sbagliato”, che strano.

Sugli spalti si festeggiava, eravamo felici per il gol di questo ragazzo romano. Nessuno di noi poteva immaginare che Totti avrebbe raggiunto quota 300, e che sarebbe diventato così importante nella storia della Roma: il ricordo di quel gol, adesso, vale tutta la fatica e il caldo di un 4 settembre a Roma, e tutto l’amore incondizionato che solo un bambino di 10 anni può dare alla sua squadra.

vs Milan, 1997
di Daniele Manusia (@DManusia)

Molti dei primi gol di Totti sembrano gol di un’altra epoca. Nel senso letterale del termine: riguardando i primi gol di Totti la prima cosa che ho notato sono i palloni più pesanti di quelli con cui si gioca ora, che Totti riusciva a far sembrare leggeri, con un equilibrio pressoché perfetto tra potenza e precisione. Tiri all’angolino, preparati con la giusta coordinazione e indirizzati dalla parte giusta, magari prevedibili, ma abbastanza potenti perché i portieri non potessero arrivarci in ogni caso. Siamo abituati a portieri impotenti per traiettorie illeggibili o velocità che un tempo facevano la prima pagina dei quotidiani sportivi; ma Ronnie Koeman, Mihajlovic, Roberto Carlos, Batistuta, erano considerati sopra la nostra idea di essere umano proprio per questo: perché con quei palloni rendere un portiere impotente non era semplice. Oggi ci sono Youtubers, anche non troppo professionali, in grado di calciare più o meno in quel modo ma, al tempo stesso, è difficile immaginare Cristiano Ronaldo o Gareth Bale che colpiscono di interno un vecchio Mikasa per dargli la loro traiettoria da aeroplanino di carta…

Per Totti il progresso tecnologico dei palloni va considerato una specie di digital divide, lui gioca in mezzo a gente cresciuta con nuovi palloni e nuovi modi di colpirli, e si è adattato meno bene, per fare un esempio, di Pirlo. Ha affinato alcuni parti del piede diverse dal collo, che gli servono più per i passaggi che per tirare, e comunque si è adattato quanto bastava per segnare la maggior parte dei suoi gol nella sua seconda parte di carriera. Ma quando tira da fuori si vede che è cresciuto in un mondo più semplice, in cui tirare in porta significava mirare all’angolino e mandarci la palla il più velocemente possibile, non disorientare il portiere mandando la palla in una specie di tromba d’aria con la speranza che si abbassi o si alzi all’ultimo facendogli fare la figura dell’idiota.

Il gol che ho scelto, contro il Milan, è il settimo dei 300, e il primo in cui c’è qualcosa di più della potenza e della tecnica di Totti, qualcosa che poteva fare solo Totti in quel momento e che lascia intravedere un ventaglio di possibilità che, proprio per la storia descritta sopra, sarebbero state fondamentali per permettergli di sopravvivere ad alti livelli fino quasi a quarant’anni. La traiettoria data al pallone con l’esterno destro, a passare sopra le teste di Costacurta e Baresi, ha qualcosa di puerile che Totti ha conservato fino a questi giorni, uno spirito giocoso e competitivo, persino provocatorio e beffardo, che è tipico di Roma e dei romani. Ed è rimasta immutata anche la classe e la tranquillità con cui pensa, sceglie ed esegue quel pallonetto di esterno da posizione decentrata, dopo aver rischiato la vita sull’uscita a vuoto di Seba “The Undertaker” Rossi, con poco tempo e spazio a disposizione. Avrebbe potuto provare un rasoterra il più forte possibile, e se poi Costacurta lo avesse intercettato, bravo lui; ma a Totti non passa neanche per la testa che potrebbe sbagliare l’esterno. Una confidenza con il pallone, infantile, da cameretta, o da partitella sotto casa, che è ancora presente nel pallonetto di esterno dello scorso anno che ha messo fuori causa Joe Hart.

Nel primo pezzo pubblicato su l’Ultimo Uomo descrivevo il rapporto complesso che ho portato avanti negli anni con Totti, ed era impossibile tenere fuori aspetti extra-calcistici, bivi importanti che si possono leggere in un senso o in un altro, sopratutto la scelta forte di Totti di restare per sempre a Roma. Ma pensando solo al campo bisogna riconoscere l’eccezionalità di un talento raro (la mia personale classifica sul migliore calciatore italiano di epoca moderna la tengo per la prossima cena con gli amici) e longevo, capace di esprimersi con la stessa spontaneità a vent’anni come a più di trenta. E questo va al di là del colore della maglia. Può non piacere a tutti perché l’aspetto emotivo e beffardo del suo talento è troppo evidente, perché per Totti è importante l’avversario da scavalcare con un pallonetto umiliante (la Lazio, Van der Sar, il Manchester City, Baresi e Costacurta…) ma se non capite perché i suoi tifosi vorrebbero vederlo in campo anche a cinquant’anni, o anzi: se non vorreste vederlo, voi, in campo fino a cinquant’anni: be’, è un problema vostro. E comunque a Totti non importa.

vs Lazio, 1999
di Francesco Costa (@francescocosta)

Non riesco a giudicare i gol di Francesco Totti dalla loro bellezza: è come chiedere a un padre di recensire la qualità dei disegni di suo figlio. Ci si può provare, volendo, la teoria la conosco: ma il coinvolgimento personale è intenso abbastanza da rendere incomprensibile l’idea di sottoporsi al tentativo pratico. Allo stesso modo, scegliere il gol più importante è complicato – senza contare che potrebbe ancora arrivare. Questo però è il più importante per me.

Totti nell’aprile del 1999 ha 22 anni. La Roma è allenata da Zeman e viene da una stagione in cui ha perso quattro derby, due in campionato e due in Coppa Italia; in quella successiva ha rimediato uno spettacolare pareggio per 3-3 nel girone di andata. La Lazio invece è forte come poche altre volte nella sua storia – Nesta, Nedved, Vieri, Boksic, Salas, Mancini, Mihajlovic – e nel girone di ritorno si sta giocando lo Scudetto con il Milan.

Alla vigilia niente lascia pensare che possa andare come poi effettivamente andrà: un gol incredibile di Delvecchio, poi un altro. Nel secondo tempo però segna Vieri e i tifosi della Roma sanno già cosa sta per accadere. Succede il contrario. Al novantesimo Konsel rinvia il più lontano possibile. La palla spizzata da Delvecchio arriva sui piedi di Totti, che invece di farsi fare fallo da Lombardo per guadagnare qualche secondo si muove lateralmente aspettando che qualcuno si inserisca; Alenichev fa uno slalom e gli passa davanti, Totti lo serve. Il resto potrei raccontarlo a memoria: come le pagelle della partita, che ritagliai e restarono appese in camera per anni. Alenichev prende la palla, si gira su se stesso, cerca qualcuno da servire dentro l’area ma non trova nessuno: Totti è rimasto curiosamente dietro di lui, nel posto sbagliato. Allora fa un tunnel a Lombardo e tira di punta: respinto da Marchegiani. Dietro di lui si materializza Totti – era nel posto giusto – che tira addosso a Negro, riprende il pallone, tira di nuovo, segna un gol incazzato e mostra una scritta da bullo sotto la maglietta. Vi ho purgato ancora, diceva il messaggio scritto ai tifosi laziali, ma nel frattempo ce n’era un altro – non scritto – diretto ai romanisti: con me saranno possibili cose che non pensate tali.

Il primo derby di Totti da capitano finisce 3-1 per la Roma, che non vinceva contro la Lazio da tre anni e mezzo. Così genuinamente felice forse non l’ho visto più.

vs Parma, 2001
di Fabrizio Gabrielli (@conversedijulio)

Il 17 Giugno del 2001 lo Stadio Olimpico è immerso in un nitore abbacinante. Qualcuno ha sguinzagliato per la pista di atletica un animale che non si capisce cosa sia, forse un lupo, sembra più una volpe. La Roma si gioca il suo terzo Scudetto all’ultima giornata, contro il Parma.

Alle quindici e diciotto il ruolino di marcia della Serie A dice spareggio in gara secca per decidere chi deve appuntarsi il Tricolore sulla maglia. La Juventus è passata in vantaggio contro l’Atalanta allo scoccare del sesto minuto, e ora è prima insieme alla Roma a 75 punti.

Quaranta secondi più tardi Cafù si avventa su un campanile di Falsini all’altezza della trequarti del Parma, la tocca di testa per Montella e si propone per la triangolazione. Ma Vincenzo non si fida, per un attimo pensa di affondare sulla fascia, poi appoggia all’indietro per Tommasi. Quando l’Anima Buona della Roma entra in possesso di palla, Montella Totti e Batistuta sono disposti come un filotto diagonale, o una linea di fuga di Giotto. Tommasi apre per Candela, che sembra perdere palla, invece l’addomestica e disegna un rasoterra verso il dischetto del rigore. L’inquadratura è leggermente avanzata, e riesce a regalarci solo l’immagine di Batistuta e Montella che come all’interno di un acquario si agitano reclamando la palla, allargando le braccia.

Lo spiraglio che intravede Totti, il cono che gli si spalanca di fronte agli occhi possiamo solo immaginarlo, mentre il suo che fa la sfera quando il Capitano la colpisce in maniera così tottish, d’esterno, in una commistione profana di nitroglicerina e talento è quello di uno Stadio che implode su se stesso.

Il primato in condivisione è durato 13 minuti. Quella di Totti è la tredicesima rete stagionale, di certo non la più bella – quell’anno c’è stato il sinistro al volo a incrociare contro l’Udinese -, forse non si può neppure dire la più sua.

«È vostro» ripete infatti Totti alla Monte Mario, «è vostro». Se si stia riferendo al gol, allo Scudetto, al suo cuore, che ne sappiamo. Meglio rimanere col dubbio: ma era un lupo o una volpe, quella sguinzagliata prima del fischio d’inizio?

vs Udinese, 2002
di Giacomo Detomaso (@gdetomaso)

Nonostante non sia romanista, c’è stato un periodo della mia vita in cui volevo essere Francesco Totti. In comune avevamo una sola cosa: sono nato anch’io il 27 settembre, ma 15 anni dopo di lui. La rete che ho scelto è stata segnata il 5 ottobre 2002, avevamo festeggiato da poco i rispettivi compleanni. Il ventiseienne Totti aveva tutto ciò che il timido e paffuto undicenne che ero io poteva solo sognare: era bello, frequentava una ragazza più bella di lui (che poi avrebbe sposato), ma soprattutto era fortissimo a giocare a pallone.

Col senno di poi, potremmo considerare questo gol il trailer del Totti futuro, il centravanti atipico. Giocava ancora da trequartista (il pallone glielo dà Batistuta), ma col fisico e l’astuzia riesce a tenere distante Sensini; con lo stop di testa, che indirizza la palla verso l’alto e la fa ricadere un paio di metri più in là, si guadagna il tempo e lo spazio per coordinarsi; il tiro a incrociare, di controbalzo, fortissimo, gonfia la rete moscia dell’Olimpico. Aveva già segnato qualche minuto prima, per un totale di 6 centri nelle prime 4 partite di un campionato che la Roma chiuse solo all’ottavo posto.

Rivedendo queste immagini, provo un po’ di nostalgia per alcuni elementi estetici, vacui ma fondamentali per la mitizzazione del personaggio ai miei occhi di bambino. Ai tempi impazzivo per il look con cui Totti scendeva in campo: i capelli lunghi perennemente bagnati che danzavano mentre correva, la maglia aderente, i parastinchi che sbucavano dai calzettoni e quel modello di scarpe che bramavo dopo aver visto lo spot “The Secret Tournament”, in cui lui finge di allacciarsi le scarpe per fare da trampolino ad Henry.
Tredici anni dopo sono un po’ meno paffuto di allora, anche con la ragazze va meglio, ma un gol del genere non sono mai riuscito a segnarlo. Non a calcetto, ma nemmeno nei miei sogni più sfrenati.

vs Real Madrid, 2002
di Lorenzo De Alexandris

Da bambini calcisticamente si hanno almeno tre immagini, legate ad una squadra, ad un volto e ad un luogo. Per il Totti, come lui stesso ha dichiarato, le tre risposte erano semplici. La Roma, Giuseppe Giannini, Stadio Santiago Bernabeu. Il 30 ottobre 2002 sembrano unirsi tutte nell’azione che porta un’italiana a rivincere a Madrid dopo 35 anni. La Roma non ha iniziato al meglio la stagione europea. Il passo non è dei migliori per gli uomini di Capello neanche in campionato e serve una vittoria, difficile, al Santiago Bernabeu per proseguire in Champions.

Totti non è spaventato dalla maestosità dello stadio o dalla tensione, e infatti un anno e 6 giorni prima aveva segnato la sua prima rete al Bernabeu. Un’emozione forte, ma che aveva portato solo un pareggio.

È il 27° minuto quando Emerson serve Montella, che si gira in area, vede probabilmente Totti libero sul lato di Salgado, ma da punta vera cerca il tiro. Hierro e Helguera lo chiudono, la palla rimbalza sulla sinistra dove c’è il capitano ad attenderla. Dei suoi colpi in carriera di certo questo non è il più pulito; la sfera compie un strano saltello, lui porta il corpo sopra nel tentativo di tenerla bassa e con l’interno la indirizza quanto più possibile. Dal punto di vista estetico il tiro diviene all’improvviso un’immagine scomposta e bella. La fatica che compie, il movimento del corpo ed infine i capelli biondi e bagnati che si liberano disordinati in aria. Il suo primo idolo è stato Giannini, ma di lui da piccolo non si era invaghito per le giocate o l’eleganza palla al piede; a colpirlo furono i suo i capelli lunghi e il modo come questi si muovevano assieme a lui sul campo. Al Bernabeu, il suo tempio dei sogni, con la maglia della Roma, nello stile del Principe, Totti segna, batte Casillas e sconfigge il Real.

vs Milan, 2003
di Dario Saltari (@DSaltari)

Questa punizione nella finale di Coppa Italia 2002/2003 a San Siro contro il Milan è uno di quei goal che non riesci a trattenere a mente. Per quanto tu lo possa rivedere, rimane sempre qualcosa che ti sfugge, come nei grandi film. Come fa la palla a passare sopra la barriera se la traiettoria è dal basso verso l’alto? Come fa il tiro ad avere quell’effetto se è calciato di collo pieno?

Ma non è solamente un goal bello. Lo stesso Cerqueti, che fa la telecronaca della partita, non utilizza i soliti aggettivi che mettono i risalto la spettacolarità del gesto tecnico, come “incredibile” o “straordinario” (aggettivi che invece utilizza per descrivere ciò che Totti sta facendo, e cioè segnare tre goal su punizione quasi identici in due partite). No, usa il termine “leggendario”: come se per la sua stessa esistenza questo goal avesse un posto assicurato nel mito del calcio.

Guardando questa punizione si ha come l’impressione, ineludibile quando si ha a che fare con tutto ciò che riguarda il capitano della Roma, che Totti non abbia mai espresso del tutto il proprio potenziale sui calci di punizione. La sua tecnica di calcio rasenta la perfezione eppure non è mai diventato un vero e proprio specialista. Ha regalato alcune perle di incredibile bellezza con calci a giro sopra la barriera, è vero, ma nel corso della sua carriera è andato ad appiattirsi su tiri potenti sul palo del portiere.

Che potesse diventare uno specialista di goal del genere non sembrava affatto assurdo allora. Oggi rimane solo l’immaginazione di chi l’ha visto almeno una volta calciare un pallone.

vs Sampdoria, 2004
di Emanuele Atturo (@Perelaa)

Da tifoso della Roma che non ha mai visto una Roma senza Totti non esagero se dico che con il capitano ho sviluppato un rapporto di intimità profondo, che credo appartenga a qualsiasi tifoso giallorosso. Totti è uno dei pochi argomenti calcistici che non amo discutere: quando sento le critiche che gli vengono rivolte la cosa mi tocca così profondamente che di solito soffro in silenzio, non provo neanche a difenderlo.

A volte tento di calcolare i confini razionali di questa follia e mi domando “come sarà ricordato Totti”. Una domanda che per me ha un valore esistenziale: mettere in discussione Totti è mettere in discussione un pezzo importante di me.

Riguardando i suoi video fa impressione notare quanti giocatori, profondamente diversi, abbia interpretato nel corso del tempo. Regista di centrocampo, esterno offensivo, seconda punta, trequartista, centravanti, falso nueve. Cambi di posizione che ne hanno assecondato l’evoluzione calcistica, ma soprattutto atletica. Quando mi faccio la domanda la mia più grande paura è che l’immagine di Totti rimanga imprigionata a questi ultimi anni, a quando ha smesso di essere un atleta. Il Totti delle ultime stagioni sembra muoversi con dei sacchi di sabbia legati sulle caviglie: è ancora capace di cose incredibili ma la sua dimensione atletica è quasi completamente svanita, trasformandolo in una sorta di macchina lanciapalle, in grado di fare la differenza solo aggrappandosi alla sua visione calcistica superiore. Il Totti degli ultimi anni ha la malinconia di un pittore zoppo costretto a dipingere solo nature morte. Mi piacerebbe che ci si ricordasse di quando Totti dipingeva en plein air, di quando la sua originalità non stava nella sua capacità di fare la differenza da fermo ma nell’abbinare alla qualità tecnica una potenza atletica fuori dal comune. C’è stato un tempo in cui Francesco Totti sembrava camminare sulle acque. Un periodo in cui tifare la Roma significava avere la sensazione di avere Dio dalla propria parte.

Questo gol alla Samp riassume bene il magnetismo e l’onnipotenza che a un certo punto della sua carriera Totti esprimeva sul campo. Quando gli arriva la palla e la lascia scorrere lo si vede calcolare mentalmente la distanza che lo separa dalla porta. Inizia a correre come se gli avversari non esistessero neanche: è struggente paragonarlo al giocatore che è oggi, a volte costretto a mettere le mani addosso al marcatore per provarlo a saltare. Il modo in cui passa attraverso tutta la metà campo della Samp è espressione di una forza sovrannaturale, che fa apparire di riflesso gli altri presenti sul campo figli di un Dio minore. Arrivato davanti al portiere c’è una finalizzazione molto Totti, non tanto per l’eleganza dell’esecuzione, quanto per il riflesso mentale che nella sua carriera lo ha portato a essere sempre consapevole della bellezza che stava esprimendo. Alcuni gol di Totti sembrano quasi incorniciati per come ogni dettaglio sembra rifuggire dalla banalità.

Spero che verrà ricordato così: un giocatore con un grande senso della bellezza, che per un certo periodo è stato onnipotente.

vs Inter, 2005
di Francesco Lisanti (@effelisanti)

Nel momento in cui la gravità consuma la velocità impressa alla traiettoria, modificandone la direzione e adagiando con la delicatezza necessaria il pallone nella rete, ho pensato a quanto Francesco Totti sia stato fortunato. Ovviamente in quanto calciatore, e singolarmente in quanto genio, ma lo è stato anche e in misura particolarmente speciale in quanto calciatore genio.

Per provare a restituire un senso delle proporzioni, il 26 ottobre 2005 Totti segna a Milano il BEST GOAL EVER, definizione che dà il titolo al video e sulla cui credibilità dibattono nei commenti utenti geolocalizzati in regioni estremamente opposte del globo. In gran breve, uno di quei gol lì.

È un gol assurdo in ogni frame che ne ricompone il gesto, dall’istante in cui controlla il pallone, che improvvisamente rallenta come piegato al suo volere, all’uso delle spalle con cui convince Cambiasso che sarebbe andato verso l’interno, salvo virare sull’esterno, fino alla forza muscolare con cui salta sulla scivolata di Ze María atterrando esattamente nella zona del pallone, e proseguendo la corsa senza perdere velocità né controllo.

A quel punto inizia a puntare Materazzi, convergendo progressivamente verso il centro, e solo un taglio meraviglioso di Mancini gli permette di creare quella distanza dal difensore tale da fargli vedere la porta. Julio César è fuori dai pali, ma come poteva saperlo avendo abbassato la testa tre secondi prima? Dove ha trovato le energie per la perfezione balistica dopo 30/40 metri percorsi correndo, saltando e spezzando continuamente il ritmo e la direzione? I secondi successivi gol sono belli almeno quanto i secondi precedenti.

Totti corre a braccia aperte verso il settore romanista, guardandosi intorno, certo di trovarsi in un bagno di folla entro pochissimo. È quello che succede, i panchinari arrivano per primi, poi i dieci titolari. Gli saltano addosso, ne sono attratti, si sentono testimoni. Quel pallonetto è una freccia di Cupido, i sorrisi sono incredibilmente spontanei, una ragazza salta istericamente davanti alla telecamera, De Rossi lo abbraccia una seconda volta per essere sicuro, per essere parte. Nel momento in cui ha fissato il piede perno nel terreno, Totti poteva prevedere il gol. Nel momento in cui ha segnato, poteva prevedere la reazione.

Ho pensato al complesso rapporto tra il talento e il riconoscimento, al tempo che passa tra la composizione e la pubblicazione, e poi tra la pubblicazione e i riscontri, al motivo nostalgico per cui chissà se Van Gogh è morto sapendo di essere Van Gogh, se Kafka è morto sapendo di essere Kafka. Totti invece sa tutto, il prima, il durante, il dopo, e per questo sarebbe paradossale inquadrare la sua carriera in un’ottica nostalgica. L’unico approccio intellettualmente onesto sarebbe saltargli addosso, per esserne parte.

vs Milan, 2006
di Oscar Svensson (@blogistuta)

In questo gol molto vedo tutto quello che rende Francesco Totti così speciale. Anzitutto per quando è stato segnato: l’11 novembre 2006, 8 mesi dopo l’infortunio al perone, 4 mesi dopo aver alzato la Coppa del Mondo a Berlino. Ma anche 6 mesi prima dell’incoronazione del Milan come re d’Europa, 7 mesi prima del suo futuro riconoscimento come miglior marcatore d’Europa, quando ha vinto la Scarpa D’oro. Oh, era anche 20 anni dopo l’ultima vittoria della Roma a San Siro, contro il club che aveva dominato il calcio negli ultimi due decenni.

Ed è speciale anche per come è stato segnato: vorrei precisare che i centrali del Milan erano Paolo Maldini e Alessandro Nesta, non i manichini del crash test, e contro una delle coppie difensive più forti di sempre, Totti ha segnato un gol stupendo, un numero che ha combinato l’opportunismo del 9 con la tecnica e raffinatezza del 10. Era il suo terzo gol di quel campionato, ne segnerà altri ventitré. Forse è stato in quel preciso momento che Totti è passato da un mondo all’altro: quando Rodrigo Taddei gli ha passato il pallone, Totti aveva ancora entrambi i piedi nel mondo della creazione del gioco, dei numeri 10; quando il pallone è atterrato sull’erba, dopo che lo aveva calciato in semirovesciata, Totti aveva messo un piede nel mondo della realizzazione, dei numeri 9.

La grandezza di Francesco Totti è che ha avuto una carriera quasi intera da fantasista, e poi (subito dopo l’infortunio e la riabilitazione affrettata) si è riscoperto goleador quasi all’improvviso, a 30 anni. Ha iniziato a segnare ad un ritmo mai visto prima, finendo la stagione da capocannoniere assoluto del continente. Ha imparato a segnare i gol facili, a muoversi da centravanti, dopo 14 anni da genio della trequarti che calcolava angoli e traiettorie improbabili, che inventava passaggi impossibili. Stiamo celebrando il fatto che ha appena segnato il suo 300° gol in giallorosso, ma la cosa davvero splendida è che segnare non è nemmeno la sua specialità. 300 gol sarebbe un record fantastico per qualsiasi goleador, figuriamoci allora se a segnarli è stato un giocatore che è diventato attaccante solo a trent’anni. È la trasformazione più impressionante che abbia mai visto nel calcio.
Ho scelto questo gol, perché per me rappresenta questa trasformazione. Il salto da un mondo ad un altro.

vs Lazio, 2015
di Stefano Piri (@StefanoPiri)

Francesco Totti non ha scelto la vecchiaia pacifica di Del Piero, Cannavaro e tanti altri grandi della sua generazione. Non si è accomodato in un ruolo marginale e prestigioso nel suo club, non ha abbandonato gradualmente il calcio che conta per andare a esibirsi alla corte di qualche tycoon levantino e forse non sperimenterà mai il lusso di fare il calciatore senza pressione, in uno di quei campionati in cui se finisci su giornali è sulla colonnina destra, perché su un bel prato verde e regolare hai fatto gol di tacco o direttamente su calcio d’angolo a un povero portiere malesiano.

Guardatelo: da qualche anno corre in modo diverso, come un soldatino, piegando le ginocchia il meno possibile. Un amico mio dice che sembra ingessato. Sono tutti i calci che ha preso, le distorsioni, le cadute, e quindi le infiltrazioni e gli interventi in artroscopia che ha collezionato in più di vent’anni di onoratissima carriera. Francesco Totti in effetti ha 38 primavere ma è anche uno dei pochi fortunati che potrebbero fare un uso appropriato della migliore one-liner di Indiana Jones: «Non sono gli anni, sono i chilometri».

Eppure sta ancora lì. Fino all’anno scorso nelle partite importanti, se fisicamente stava bene, il posto da titolare era suo. Anzi, Garcia gli costruiva l’attacco intorno. Ogni tanto rilascia un intervista in cui dice «non sono io il problema della Roma» oppure «se sono io il problema sono pronto a farmi da parte», e insomma, sembra piuttosto preoccupato del fatto che il suo contributo alla causa sia messo in discussione. Sa che un sacco di gente pensa che quando Totti è in campo soffre tutta la squadra, oppure dice che Totti ha chiuso gli spazi ad attaccanti più giovani e mandato via allenatori che poi hanno vinto Champions. Forse sa anche che i cinici vedono nell’incapacità di staccarsi da Totti un sintomo dell’inguaribile provincialismo della Roma e dei suoi tifosi.

L’11 gennaio scorso la già vacillante Roma di Garcia è sotto 2-0 nel derby contro la miglior Lazio degli ultimi dieci anni. Hanno segnato il capitano degli altri e Felipe Anderson, che è esploso da una partita all’altra dopo un anno e mezzo di anonimato, ha 17 anni meno di Totti e forse è l’unico degli altri 21 in campo a parlarne la lingua tecnica (vogliamo metterci anche Pjanic? Ok, mettiamoci anche lui).
Totti naturalmente è in campo dall’inizio, con buona pace dei giovani e quotati Destro e Ljajic, che guardano il derby dalla panchina. Nel primo tempo Totti non l’ha presa mai e la sterilità offensiva della Roma fa pensare che da un momento all’altro Garcia là davanti possa cambiare qualcosa.
Invece su un tiro-cross di Strootman Totti sbuca sul secondo palo, alle spalle dei difensori, e segna comodamente il suo decimo gol contro la Lazio diventando il miglior marcatore della storia del derby. Raccoglie in fretta il pallone dalla porta, con l’aria castigata che i calciatori assumono quando accorciano le distanze, ma poi non resiste e ride, stringe il pugno al cielo, è contento.

Passano una decina di minuti e c’è un’azione molto simile. La palla di Holebas arriva da sinistra e attraversa tutta l’area come quella di Strootman, solo che stavolta la palla è più lunga e l’angolo utile a segnare è molto più stretto. Totti allora salta e lancia il suo corpo quasi quarantenne a mezz’aria, verso il pallone. È un capolavoro di coordinazione e controllo, perché mentre vola non perde d’occhio il pallone, e riesce a dosare e mirare il calcio verso il secondo palo, nell’unico posto dove Marchetti proprio non può prenderla. Il ruggito dell’Olimpico giallorosso arriva dopo una frazione di secondo di incredulità, ma il momento fatidico, quello di cui i giornali parleranno per giorni, deve ancora arrivare.

Il Capitano non è nuovo ad esultanze irrituali quando segna del derby, ma stavolta siamo ben lontani dal registro localistico e plebeo del famoso vi ho purgato ancora. Abbraccia i compagni, corre a bordo campo e alla fine prende un cellulare e lo solleva con entrambe le mani con un gesto che ricorda in modo bizzarro quello dei preti che celebrano l’eucarestia. Poi si fa un selfie.

Questa non è la sede per pontificare perché l’autoscatto detto in inglese sia diventato una tendenza, né per interrogarsi sulle ragioni che portano determinati gesti del tutto privi di senso a qualificare le persone come fiche. Fatto sta che il selfie di Totti finisce su tutti i giornali e inesorabilmente spopola-sui-social-network con un florilegio di meme e fotomontaggi.

I suoi occhioni sgranati con lo sfondo della curva sud fanno il giro del mondo e il tabloid inglese Daily Mirror scrive che Totti è nientemeno che il calciatore più cool mai vissuto.
Non è finita: dal momento è stato scattato con un telefono di una determinata – e molto nota – marca, qualcuno calcola che il selfie di Totti vale circa 5 milioni di euro. Oliviero Toscani definisce Totti “genio della pubblicità” (una delle patenti più inflazionate di questi tempi, seconda forse solo a “genio della comunicazione”) e l’Antitrust apre un fascicolo, anche se non si capisce bene cosa ci abbiano messo dentro.

Insomma, con Totti dimostra di essere ancora decisivo sul campo, mentre con l’appendice del selfie dimostra un’altra cosa piuttosto importante: a trentotto anni non è un rimasuglio del passato o un reduce, ma ancora uno dei pochi campioni del calcio italiano con un vero appeal e una riconoscibilità internazionale, e anche uno dei più aggiornati e consapevoli dei meccanismi mediatici contemporanei. A guardare Totti oggi, e a confrontarlo con certi campioncini incompiuti ben più giovani di lui, viene in mente quella bella e saggia frase di Pavese che dice: “c’è qualcosa di più triste di invecchiare, ed è rimanere bambini”.

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