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TIFO VIETATO!
16 apr 2025
La politica sta rinunciando a gestire le partite di calcio.
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9 min
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IMAGO / ABACAPRESS
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L’Italia rappresenta un caso unico, per quanto riguarda la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di calcio, e non certo in positivo. Basta digitare su un motore di ricerca “trasferte vietate” per venire investiti da un numero impressionante di notizie che riguardano tifoserie di diversa provenienza, e che per la sua portata è anche difficile da quantificare con precisione.

Limitandosi solo alle serie maggiori, in questi primi mesi dell’anno incontriamo due divieti a testa per romanisti e laziali a gennaio dopo il derby; quattro mesi senza trasferte per perugini e lucchesi a partire da fine febbraio; stop di nuovo per i romanisti dal recarsi a Milano per affrontare l’Inter il 27 aprile. Solo questo mese si contano almeno cinque provvedimenti, la maggior parte dei quali in Serie A: oltre a Inter-Roma, abbiamo avuto Empoli-Cagliari, Monza-Napoli, e Cosenza-Brescia, mentre l'ultimo in ordine di tempo è lo stop a tutte le trasferte ai tifosi di Roma e Lazio fino al termine della stagione, seguito agli scontri prima del derby di ritorno. Guardando alla Serie C, i casi crescono ulteriormente.

Lorenzo Contucci, avvocato e consulente legale della Roma, lo scorso gennaio parlava addirittura di una situazione con possibili profili d’incostituzionalità: «L’Italia è uno dei pochissimi paesi ad adottare queste soluzioni: in Inghilterra nessuno si sognerebbe di vietare una trasferta. Stiamo parlando di persone che hanno già pagato treno, biglietto e soggiorno, e questa decisione viene presa a tre giorni dalla partita».

Un tempo il calcio in Italia era sinonimo di catenaccio e contropiede, o delle magie di giocatori come Totti e Del Piero; oggi il suo tratto più distintivo è invece il divieto di trasferta, che come denunciava Contucci non ha eguali in Europa, almeno tra i principali campionati. Un problema che ha radici profonde e che ha finito per peggiorare negli ultimi anni, rendendo evidenti le difficoltà delle istituzioni nella gestione dell’ordine pubblico, ma forse anche un modello dei rapporti tra club, tifosi e forze dell’ordine che andrebbe completamente rivisto.

STORIA DI UN FENOMENO
È difficile risalire a un’epoca in cui le partite di calcio erano esenti da tensioni e anche scontri fisici tra tifoserie e polizia. Come scritto da Sébastien Louis nel suo fondamentale Ultras. Gli altri protagonisti del calcio, il problema iniziò però a diventare serio solo negli anni Settanta: l’emergere del movimento ultras in Italia ha stravolto completamente il concetto di ordine pubblico negli eventi sportivi, ponendo una sfida del tutto diversa in termini di gestione. Nella seconda metà del decennio nacquero le prime iniziative repressive e i divieti, che tra alterne vicende si sono sviluppati e inaspriti nell’arco dei successivi trent’anni.

La maggior parte di questi interventi legislativi contro gli ultras ha avuto come terreno d’azione preferenziale lo stadio, come dimostrano il Daspo (introdotto nel 1989 e in seguito modificato più volte fino al 2007) e la tessera del tifoso (introdotta nel 2009). Queste disposizioni hanno però finito per spostare il problema della violenza negli stadi… fuori dagli stadi. Oggi il divieto di trasferta (introdotto nel 2014) viene in genere applicato in seguito a scontri che avvengono all’esterno degli impianti, tra le strade cittadine o più spesso nelle aree di sosta delle autostrade.

Fin dalla sua codifica, questo provvedimento ha sollevato critiche e dubbi di costituzionalità. La norma non impedisce a determinati soggetti o a specifici gruppi di tifosi di seguire la propria squadra in trasferta (non è, come il Daspo, un provvedimento ad personam) ma determina il divieto della vendita di biglietti per una partita a tutti i residenti in una data area, che siano o meno ultras e responsabili di disturbo dell’ordine pubblico. Stiamo quindi parlando di una legge che colpisce indiscriminatamente le persone sulla base della residenza, scavalcando il principio di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. In undici anni, però, nessuna forma di opposizione concreta è stata portata avanti nei suoi confronti.

Soprattutto è un provvedimento che si sta rivelando in gran parte inefficace. In primo luogo, perché non ha funzione preventiva ma unicamente repressiva: gli scontri violenti si continuano a verificare, poi subentra il divieto, alla cui scadenza tutto torna come prima. E secondariamente perché queste disposizioni non sono sempre applicabili, come in occasione dei derby cittadini. I recenti fatti che hanno preceduto Lazio-Roma di domenica 13 aprile lo confermano: sono risultati in 24 agenti feriti e un arresto, con il Viminale che ha stabilito il divieto di trasferta per giallorossi e biancocelesti fino al termine della stagione, e ha posto il veto alla futura disputa del derby in orario serale. Tuttavia la stessa cosa era già avvenuta a settembre con la gara di Coppa Italia tra Genoa e Sampdoria: 38 feriti, una gara a porte chiuse per entrambe le società e tre trasferte vietate per ognuna delle due tifoserie.

Non sempre, però, questi provvedimenti appaiono così chiaramente motivati. Lo scorso 3 aprile, per esempio, l’Unione Sarda contestava lo stop per i tifosi cagliaritani per la gara di Empoli scrivendo che i motivi di “urgenza” e di “grave necessità pubblica” alla base della decisione della Prefettura di Firenze non erano spiegati in alcun modo. E infine, anche quando il divieto viene applicato, non è automatico che possa essere sufficiente a evitare disordini e possono generare l’effetto opposto, come si è visto nel marzo del 2023 con Napoli-Eintracht Francoforte di Champions League: il Ministero vietò la vendita dei biglietti ai tifosi tedeschi (anzi, a tutti i residenti in Germania), che però arrivarono lo stesso in Italia scendendo a Napoli e mettendo la città a ferro e fuoco. Difficilmente qualcosa del genere si sarebbe verificato se non ci fosse stato il divieto iniziale.

UN DIVIETO TUTTO ITALIANO
La decisione di due anni fa del ministro Piantedosi aveva creato malumori anche da parte della UEFA, che non vede di buon occhio questo genere di limitazioni. Nel calcio europeo, è molto raro che s’impedisca lo spostamento dei tifosi per seguire la propria squadra, salvo casi eccezionali come quello greco, dove però il livello dello scontro è imparagonabile a quello italiano.

Attorno a questo fenomeno circolano inoltre molti luoghi comuni privi di un reale riscontro, a partire da quello secondo cui i divieti sono resi necessari dal ridotto organico delle forze dell’ordine italiane. Dati aggiornati al 2022 indicano che nel nostro paese ci sono circa 467 agenti ogni 10.000 abitanti, il terzo rapporto più alto al mondo dietro Russia e Turchia. Non si spiega dunque come un corpo di polizia così ampio - peraltro in un paese con indici di criminalità piuttosto bassi - sia insufficiente a tenere sotto controllo tifoserie che non sono certo tra le più numerose e aggressive in circolazione.

Il secondo artificio retorico che si sente spesso, nelle discorso sulla violenza ultras, è l’appello al “fare come la Thatcher”, evocazione rituale di un modello idealizzato di gestione dell’ordine pubblico che rivela, però, la totale disinformazione di chi se ne fa portavoce. Le riforme della Prima Ministra britannica, di chiara impronta repressiva, vennero approvate in seguito alla strage dell’Heysel del 1985, ma già nel 1989 si rivelarono dannose, visto quanto successo a Hillsborough. Come ha già spiegato Indro Pajaro, il modello inglese che ha permesso di superare l’hooliganism è quello basato sul successivo rapporto Taylor, di segno completamente opposto: rimozione delle barriere, meno repressione, ammodernamento degli stadi, incentivo alla collaborazione tra club, tifosi e forze dell’ordine.

La direzione italiana invece sembra influenzata soprattutto da un principio di de-responsabilizzazione: si rinuncia a priori a ogni intenzione di gestire l’ordine pubblico, precludendo le trasferte al più ampio numero di persone possibile. Un atteggiamento che è anche di tipo paternalistico: ti comporti male, e allora ti tolgo le partite (di fatto, un mini-Daspo generalizzato). È sostanzialmente lo Stato che abdica alle proprie funzioni e alla propria capacità di affrontare i problemi e studiare soluzioni. Come abbiamo visto, niente di tutto ciò previene le violenze, ma anzi pone le basi per un aumento delle tensioni tra tifosi e forze dell’ordine, creando un circolo vizioso in cui a perderci è come prima cosa l’ordine pubblico.

UN MODELLO DA CAMBIARE
Sarebbe riduttivo intestare il modello repressivo del tifo nel nostro paese a una parte politica, ma il divieto di trasferta sta venendo sfruttato in particolar modo dal governo attuale. L’esecutivo sta attuando politiche con chiaro intento repressivo in vari ambiti, come ribadito dal discusso decreto Sicurezza approvato nei giorni scorsi, anch’esso contestato per una possibile incostituzionalità. Questa puntualizzazione serve per comprendere che, sebbene riforme radicali siano necessarie sul tema del tifo sportivo, è difficile che questo governo abbia la volontà politica per farsene carico.
Gli esempi a cui rifarsi non mancano. Il modello Taylor, in Inghilterra, ha puntato molto sulla ristrutturazione degli impianti e di una normalizzazione del ruolo del tifoso, anche se un aspetto determinante nel ridimensionare il fenomeno hooligan è stato l’aumento del prezzo dei biglietti, che ha portato a una maggiore (anche se non esclusiva) selezione dei tifosi verso i ceti più abbienti. Per contro, in Germania si è riusciti a creare una situazione controllata e pacifica senza bisogno di precludere l’accesso allo stadio a determinate fasce della popolazione.

Alla base del successo di entrambi i modelli sembrano esserci essenzialmente due punti: un rapporto positivo tra le parti in causa, e la responsabilità del singolo. Chi commette delle violazioni all’interno di uno stadio viene identificato ed espulso, e nei casi più estremi anche perseguito penalmente. In Italia, invece, le sanzioni sono collettive e finiscono per alimentare un circuito di sfiducia e contrapposizione tra i tifosi nel loro complesso e le istituzioni. Questo impedisce di sviluppare un rapporto sano tra gruppi di sostenitori, club e forze dell’ordine, che è uno dei limiti più gravi del modello italiano.

In Germania e in Inghilterra - ma pure in Francia e in Spagna - le società di calcio riconoscono ufficialmente i gruppi ultras, e comunicano costantemente con essi, interfacciandosi anche con il personale di sicurezza. In Italia la figura del SLO (Supporter Liaison Officer), incaricato di intrattenere i rapporti tra il club e la tifoseria, esiste da circa un decennio, ma è calata in un contesto che non facilita la comunicazione e in cui di fatto la gestione del pubblico è in mano alle questure e non alle società. Non a caso, nel 2015, mentre emergeva anche da noi questo ruolo, la FIGC stabiliva il divieto ai tesserati di intrattenere qualsiasi tipo di rapporto con il tifo organizzato.

Non esistono ovviamente isole felici, e ogni contesto si basa su un equilibrio più o meno delicato: in questi mesi in Francia si sta parlando molto delle nuove proposte repressive del ministro dell’Interno Bruno Retailleau contro il tifo organizzato, e perfino in Germania, in vista degli Europei della scorsa estate, Matt Ford sul Guardian segnalava una crescita delle tensioni relative all’ordine pubblico. Ma il caso resta comunque eccezionale in senso negativo, e una riforma in questo ambito è sempre più urgente, soprattutto con l’approssimarsi degli Europei che il nostro paese co-ospiterà con la Turchia nel 2032.

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