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Troppo avanti per tutti
05 mar 2018
La carriera di Mahmoud Abdul-Rauf ha anticipato di vent'anni ciò che sta succedendo ora dentro e fuori dal campo.
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26 min
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Tranquilli, non siete tenuti ad avere un’immagine chiara di che tipo di giocatore fosse Mahmoud Abdul-Rauf.

Se avete meno di trent’anni avete tutto il diritto di conoscere solo il nome e avercelo in testa come “quello che Phil Jackson ha paragonato a Steph Curry”. Se avete più di trent’anni, invece, sicuramente ve lo ricordate come quello che per un breve periodo è sembrato in grado di portare i Denver Nuggets fuori dall’anonimato, prima di sparire dai radar della lega. Forse vi ricordate del suo passaggio in Italia come un giocatore entusiasmante a Roseto - anche se solo per anno, cosa non può lasciare che un’impronta emotiva. Avendo giocato nella NBA pre-Internet, poi, probabilmente ne avete visto giusto qualche partita avendo giocato nelle versioni meno nobili dei Denver Nuggets e Sacramento Kings negli anni ’90. Se avete cliccato, però, è perché vi fidate di noi e sapete che non scriveremmo di qualcosa di un onesto mestierante della lega negli anni ‘90. Nel caso di Abdul-Rauf infatti parliamo di un giocatore molto più interessante di quanto i vostri ricordi riescono a mettere insieme.

Come detto recentemente da Steve Nash riguardo le abitudini del primo portatore di palla: «Non ero abbastanza sveglio per capire che forse avrei dovuto tirare venti volte a partita. Se giocassi in quest’epoca, probabilmente tirerei molto di più». Con un sistema basato sul fatto che lui avesse sempre la palla in mano, questa idea ha estremamente senso visto anche quanto Steve Nash fosse in grado di tirare dal palleggio da oltre l’arco, ma spesso questa soluzione veniva utilizzata solamente come ultima ratio. Nash aveva gli strumenti, ma non era ancora arrivato tanto avanti nell’idea che lui stesso aveva innescato con Mike D’Antoni e il “7 Seconds or Less”. Bene: ora pensiamo che Abdul-Rauf aveva gli stessi strumenti di Nash, ma arrivava da un’epoca ancora precedente.

Che giocatore era Abdul-Rauf

Il suo gioco ai tempi era molto vicino a quello a cui siamo abituati ora: lui rallentava il ritmo e si metteva con le spalle a canestro per difendere la palla solo quando non poteva colpire in transizione o quando non poteva giocare un pick and roll. Allo stesso modo, era modernissimo nel modo in cui portava palla dalla sua metà campo con Dikembe Mutombo già pronto per portare un blocco alto sul campo, grazie al quale Abdul-Rauf poteva immediatamente staccarsi dal suo marcatore. Il giocatore che arrivava in aiuto non era tarato per reagire così velocemente lontano da canestro e Abdul-Rauf giocava su quell’istante di incertezza per alzarsi in tiro dal palleggio. Nonostante l’altezza ridotta, quindi, risultava complicato andarlo a stoppare perché semplicemente era difficile leggere il momento esatto in cui avrebbe tirato. Noi ora siamo più che abituati a questo concetto di “grilletto facile”, ma all’epoca era puro esotismo tanto quanto l’Euro-Step ad inizio anni 2000.

Il tiro di Abdul-Rauf era compatto e la forza proveniva dallo slancio dato dal salto, mentre la palla era caricata alta ben sopra la testa. Se riusciva a eseguire questi due movimenti la distanza dal canestro era perfettamente indifferente, anche se ancora troppe volte - rispetto a quanto siamo abituati ora, almeno - pestava o superava la linea da tre. Solo in una stagione è andato oltre i 5 tentativi da tre a gara, un ritmo ora normale per chi porta palla, ma all’epoca era un volume riservato esclusivamente agli specialisti. Segno che nessuno lo avesse spinto a tirare da dietro la linea con continuità, chiedendogli invece di andare più vicino a canestro secondo l’assunto che “è lì che si deve giocare per essere sicuri di segnare”. Da questo punto di vista, Abdul-Rauf era un fenomeno dalla lunetta: è stato il miglior tiratore di liberi della storia della lega, con la migliore percentuale di tutti per due anni (95.6% nel 1993-94 e 93% nel 1995-96) e con il 90.5% in carriera è davanti a tiratori del calibro Steve Nash e Mark Price. Il fatto di aver tirato solo 1.161 liberi, però, gli impedisce di entrare nelle classifiche essendo stata scelta la linea di demarcazione a 1.200.

Abdul-Rauf aveva naturalmente un gioco che ora chiameremmo “contemporaneo” e, senza saperlo, era probabilmente un giocatore dal potenziale rivoluzionario per l’epoca, come lo è stato Steph Curry per la nostra, scoprendo che tirare da tre dal palleggio con alte percentuali cambia il contesto tattico di un incontro. Abdul-Rauf sembrava averlo capito già negli anni ’90 e giusto la sfortuna di essere nato troppo presto non ci ha permesso di vederlo sviluppare del tutto. Di fatto, aveva capito prima di tutti dove sarebbe andata l’NBA. Se però ora per noi Abdul-Rauf è solo un proto-Curry è anche perché una grande questione con tutta l’opinione pubblica ha ucciso la sua carriera privandoci dei suoi anni migliori. E forse, in questo, è stato ancora più contemporaneo di quanto fatto in campo.

Abdul-Rauf decise di trasferire il suo impatto dal campo alla morale, scegliendo di protestare per quello in cui credeva - rifiutando di rimanere in piedi per l’inno nazionale che veniva suonato prima di ogni partita - anche a costo di mettersi contro la NBA, che lo sospese per una partita (privandolo di oltre 31.ooo dollari) cancellando qualsiasi velleità di impatto che potesse avere sulla lega. Difficile capire però quello che sarebbe potuto diventare Abdul-Rauf senza la questione dell’inno, che secondo lui stesso è stata la causa del repentino stop nella sua parabola di crescita nella NBA. Ancora oggi la polemica sull’inno è la prima immagine che ci viene in mente pensando ad Abdul-Rauf, e ci voleva uno come Phil Jackson per tornare a parlare del giocatore in quanto tale.

Quando Jackson scrisse di aver già visto uno Steph Curry in Abdul-Rauf non aveva tutti i torti: questi sono i 32 punti nella vittoria contro i suoi Chicago Bulls nell’anno delle 72 vittorie. Ah, il telecronista esordisce dicendo che con Abdul-Rauf “i Nuggets scendono in campo praticamente senza una vera point guard”.

Lui oggi è cosciente che la scelta che ha fatto ne ha pregiudicato la carriera, ma come dice: “Ci sono persone che si concentrano sugli aspetti del mio gioco e apprezzano le mie abilità, e ci sono altre che si concentrano su aspetti che considerano negativi: l’inno nazionale, le interviste, tutto quello che non coincide con la loro visione del mondo. A me questo realmente non interessa. Fin tanto che posso dire di aver fatto il meglio che potevo e che sono rimasto fedele al mio cuore e alla mia coscienza, posso gestire qualunque cosa”. Abdul-Rauf è un giocatore unico e un personaggio unico per la sua epoca, e già solo per questo il suo percorso merita di essere descritto nei dettagli.

Il ragazzo prodigio

Mahmoud Abdul-Rauf nasce come Chris Wayne Jackson a Gulfport, una cittadina sulla costa del Golfo del Messico, che pur trovandosi nello stato del Mississippi per la posizione geografica fa parte dell’area di influenza di New Orleans - una zona ciclicamente devastata dagli uragani, l’ultimo in Katrina nel 2005. Cresciuto senza conoscere mai il padre in una famiglia formata dalla madre e da altri due fratellastri da due genitori diversi, l’uragano Camille del 1969 ebbe un impatto enorme sulla sua infanzia. Chris Jackson cresce nella povertà assoluta di una cittadina in piena ricostruzione e in una zona che è il 20% meno ricca della media USA, in cui la madre trova lavoro alla caffetteria dell’ospedale.

Inizialmente la sua è la classica storia di riscatto sociale attraverso lo sport, a cui aggiunge anche un forte aspetto psicologico. Chris è iperattivo e all’apparenza scontroso: quando è in classe non riesce a stare fermo, ogni tanto si muove senza volerlo, urla senza controllo, passa il suo tempo a pregare di non uscire di senno. La madre gli consiglia di fare sport per provare ad incanalare questo suo atteggiamento esagerato; lui passa la notte a piangere terrorizzato da quello che il suo corpo fa senza il suo controllo. Solo alle medie capisce che la sua vita può andare avanti anche così e si mette l’anima in pace: è destinato a essere soltanto diverso da tutti gli altri.

Un dottore gli prescrive delle cure per l’epilessia, un altro gli dice semplicemente che è una questione di carattere e lo rimanda a casa con una pacca sulla spalla. Lui arriva a raccontare che forse tutto è dato da una caduta avuta da piccolissimo che gli aveva provocato una brutta botta in testa. In realtà si scoprirà poi che si tratta della Sindrome di Tourette, un disordine neurologico che provoca tic motori e verbali di diversa gravità a seconda dei casi e che viene a galla solitamente tra i 5 e gli 8 anni - ma nel suo caso nessuno era stato in grado di prescriverla. Solo al liceo, grazie alla moglie infermiera del suo coach di basket, viene portato a Houston e gli viene finalmente diagnosticata, così da poter effettuare un trattamento farmacologico per aiutare a tenerla sotto controllo.

Non si conoscono molti giocatori della storia della NBA con la Sindrome di Tourette, ma nel caso di Chris Jackson va detto che lo spettro della sua sindrome si interseca con atteggiamenti ossessivo-compulsivi che già ritroviamo in altri giocatori del passato (ad esempio Ray Allen). Per lui concentrarsi sulla tecnica pura è un modo per lasciarsi alle spalle tutto il resto, a partire dal contesto difficile in cui è cresciuto. Senza neanche accorgersene, Chris Jackson costruisce pezzo dopo pezzo una routine di allenamento maniacale, perché chiudersi su esercizi prestabiliti lo aiuta a tenere a bada gli scatti della Tourette. Diventa una macchina in termini di tiro, praticamente perfetto nella tecnica quando non è neanche maggiorenne. Nella sua storia raccontata sulla rivista 5280, si parla di come il suo coach del liceo avesse l’abitudine di dare come incentivo alla squadra quello di segnare tre liberi consecutivi a inizio allenamento per poter limitare il numero di esercizi poi. In pratica, ogni tre liberi consecutivi venivano scalati gli esercizi. Un giorno Chris Jackson ne segna 283 consecutivi, facendo chiudere l’allenamento.

Chris Jackson ai tempi del liceo, quando anche atleticamente è dominante e può fare quello che vuole nelle due metà campo nonostante l’altezza.

Considerato il ragazzo prodigio della sua annata, decide di andare al college vicino a casa, all’Università della Louisiana, che ha il campus a 200 chilometri da Gulfport. Poi si abbatte come un tifone sulle difese della SEC. Un ragazzo che non arriva ai 185 centimetri di altezza praticamente ci mette meno di un mese per iniziare a fare quello che vuole, presentandosi dopo poche settimane prima segnando 48 punti e poi aggiungendone altri 53. Alcune sue prestazioni finiscono per meritarsi l’attenzione nazionale, come quando segna 15 degli ultimi 17 punti con cui LSU batte Maryland, o quando segna gli ultimi 16 della vittoria contro Kentucky. Ritocca il suo record stagionale con i 55 contro Ole Miss con tanto di 10 triple segnate, in una partita in cui tutta Ole Miss segna 53 punti. Con 30.2 punti a partita di media, in totale segna quasi mille punti in stagione (966): un record. Praticamente l’impatto che può avere nelle partite è pari solo a quello che sempre a LSU ebbe Pete “Pistol” Maravich: le sue partite sono uno spettacolo imperdibile anche senza pensare al risultato, può accendersi in qualsiasi momento e battere da solo qualunque difesa. Viene nominato giocatore della SEC Conference e primo quintetto All-American. C’è anche chi si è chiesto se questa stagione sia la migliore di sempre in termini di realizzazione per un giocatore al primo anno.

In copertina su Sports Illustrated con la divisa dell’Università della Louisiana, il titolo “He’s a Pistol” in onore al grande Pete “Pistol” Maravich che a quanto pare ricordava nell’immaginario comune.

In un secondo anno in cui deve condividere il campo con uno Shaquille O’Neal al primo anno, è comunque lui la stella indiscussa: anche nella seconda stagione è lui il miglior marcatore, in questo caso con 27.8 punti, e anche da sophomore viene nominato come miglior giocatore della SEC Conference e primo quintetto All-American. Praticamente si dichiara al Draft del 1990 con tutte le credenziali per essere scelto tra i primi cinque nonostante il fisico, e con l’impatto nella mente di chi segue il college di un vero e proprio fenomeno di costume (vi dice qualcosa Trae Young?). Ancora oggi su YouTube si trovano facilmente tante delle sue partite storiche, come questa contro Tennessee al secondo anno con 10 triple segnate.

Le attese tradite

È il Draft del 1990, un’annata povera di talento in cui viene scelto per primo Derrick Coleman e per secondo Gary Payton. Pur di essere sicuri di poterlo scegliere, Denver scambia la propria al Draft e l’All-Star Fat Lever così da avere la terza dei Miami Heat. Per Denver ha tutto per diventare un giocatore franchigia in Colorado, una squadra storicamente offensiva che ha bisogno di un realizzatore del suo calibro. Le cose però non vanno subito come sembrava scritto, perché l’impatto con la lega mette a dura prova la pazienza di Jackson nel percorso che porta un giocatore del suo tipo fino alla vetta.

Immaginatevi il primo Steph Curry, che però invece di provare a sviluppare un gioco diverso vicino a canestro nelle giornate ondivaghe al tiro si incaponisce ancora di più in quello che già sa fare chiedendo di più la palla. Il tutto con una personalità talmente forte da sconsigliare l’idea di Jackson da rookie abbia portato la scatola di Donut ai veterani della squadra con un sorriso stampato in faccia. In tutto questo gioca il suo primo anno con un problema al piede dato da delle ossa extra che necessitano di un’operazione chirurgica per essere rimosse, un’operazione che lui si rifiuta di fare prima dell’estate perché non vuole perdere neanche un giorno del suo anno da rookie. Nella prima stagione gioca meno di quanto vorrebbe (22 minuti a partita), perché nelle gerarchie parte dietro a Michael Adams che gioca la miglior stagione della carriera.

Nel secondo anno, tornando dall’operazione, gioca ancora meno (19’ a partita) pur avendo davanti il solo Winston Garland, un onesto mestierante del ruolo. La squadra continua a rimanere nei bassifondi della NBA e lui ancora non ha veramente iniziato a fare qualcosa che non sia entrare e tirare (nei primi due anni mai meno di 10.4 conclusioni a partita). Jackson è considerato fuori forma (lui dice per via del medicinale Haldol che gli fa assumere peso) e addirittura inadatto al gioco veloce del coach Paul Westhead (sic!). Sui giornali del Colorado viene scritta la magica parola bust e si arriva al punto che il GM Bernie Bickerstaff se ne esce pubblicamente chiedendogli di smettere di lamentarsi dei minuti e di iniziare a giocare come dovrebbe saper fare quando in campo.

Al suo terzo anno e con un nuovo coach, Dan Issel, le cose cambiano. Lui torna dall’estate con 14 chili in meno e una routine di allenamento maniacale. Denver rivoluzione il roster, gioca ancora più veloce (99.8 possessi a gara, terzi nella lega) e Issel affida a Jackson le chiavi della squadra. Finalmente tutte le promesse dei tempi del college si possono vedere il campo anche con i pro: lui segna 19.2 punti a partita con una percentuale reale finalmente sopra il 50% (51.5%) e ad impressionare è la precisione nei tiri liberi dove già arriva a tirare con il 93.5% su 3 tentativi a gara. La squadra fa un netto passo in avanti nelle ambizioni passando dalle 24 alle 36 vittorie e dando la sensazione di poter puntare dall’anno successivo ai playoff. Denver è ai suoi piedi e nell’arco di pochi mesi lo staff fa di tutto per pubblicizzarlo all’interno della lega, vedendo il lui finalmente il futuro giocatore-franchigia: si arriva addirittura a portarlo alla gara delle schiacciate, anche se non ha mai schiacciato in partita in stagione. Per convincere la lega il GM Bickerstaff prepara un video di Jackson in allenamento.

Ok, la gara delle schiacciate è andata come si poteva immaginare. A fare impressione però sono le reazioni incontrollate del corpo: della sua sindrome in campo normalmente te ne accorgi solamente quando ha degli scatti durante i tiri liberi; qui si capisce il lavoro che c’è dietro per entrare in controllo dei propri muscoli.

La stagione della sua esplosione corrisponde a quella in cui la lega si accorge della sua conversione all’Islam. Un cambiamento che era già avvenuto nel suo primo anno di NBA, ma solo ora che è sotto i riflettori ci si rende conto di come nel periodo del ramadan il suo peso scenda vertiginosamente (addirittura sui 66 kg). Dietro le quinte i dirigenti di Denver sono preoccupati anche del fatto che durante il ramadan il giocatore smetta di prendere le medicine per tenere sotto controllo la sua sindrome. Per loro fortuna in campo c’è mai una reazione negativa, perché quando scende sul parquet può pensare solamente a giocare - e proprio questo momento di assoluta chiusura e concentrazione lo aiuta a mettere tutto il resto in secondo piano. Forse qui sta il segreto della sua tecnica sempre uguale nel tiro e soprattutto della precisione ai liberi. A fine stagione vince il premio per il giocatore più migliorato della lega.

Il cambio del nome e la controversia dell’inno

Nella primavera del suo terzo anno nella lega, dopo un viaggio alla Mecca, decide di cambiare nome e passare a Mahmoud Abdul-Rauf, che significa “elegante e lodevole, il più misericordioso e gentile”. Il cambio di nome si dimostra di buon auspicio perché il suo quarto anno nella lega è quello in cui Denver è finalmente una squadra da playoff e lui un giocatore ora riconosciuto e temuto dalle difese come prima opzione offensiva dei Nuggets, nonché come il migliore tiratore di liberi della lega (con un assurdo 95.6%). Il cambio del nome inizialmente è solo una curiosità per la lega: lui continua a fare quello che sa fare in campo giocando il miglior basket della sua carriera e Denver arriva a giocare i playoff per due anni consecutivi. Il primo anno elimina a sorpresa i Seattle Supersonics primi ad Ovest, uscendo solo in gara-7 contro gli Utah Jazz di Stockton e Malone nel secondo turno; l’anno successivo esce al primo turno sempre da ottavi contro i San Antonio Spurs.

La cosa bellissima che l’invenzione dello sport ha dato all’uomo è la possibilità di vivere una forma di giustizia quasi mistica, che rimette a posto i cocci di una tragedia come quasi nulla riesce a fare. Abdul-Rauf è probabilmente il miglior tiratore della lega con la palla in mano, sicuramente il più grande atleta della storia della NBA a giocare con la sindrome di Tourette. Però per Abdul-Rauf non è abbastanza, perché la sua coscienza sociale sviluppata negli anni lo porta a prendere una decisione che cambia tutto.

Questi sono i 51 punti in faccia a John Stockton. Qui trovate i 39 punti +10 assist in faccia a Jason Kidd. Giusto per capire il livello.

La sua coscienza sociale nasce al college, dove si appassiona alla storia studiando quella della schiavitù e dei movimenti per i diritti civili. È allora che il suo coach Dell Brown gli presta l’autobiografia di Malcom X, un libro talmente influente nella vita di Abdul-Rauf da parlarne ancora oggi con il luccichio negli occhi: “La sua vita mi ha affascinato, la sua mente, le sue idee tanto sviluppate, la sua moralità”. Il processo di sviluppo della sua coscienza nato dalla lettura di Malcom X lo porta a convertirsi all’Islam durante il suo primo anno nella NBA. Del Corano dice che “ho sentito come se mi parlasse”, ma la nuova fede per Abdul-Rauf non lo porta a fermarsi, anzi negli anni continua il processo di scolarizzazione, di studio del Corano e della società. Durante le trasferte con la squadra nelle grandi città, invece di andare in giro per locali, decide di visitare i ghetti e parlare con gli attivisti. Si è sempre sentito un pesce fuor d’acqua in un classico gruppo nella NBA della sua epoca, decisamente poco incline ad occuparsi del sociale. Ma che fosse fatto in modo diverso lo sapeva già fin da giovanissimo.

Passa dal coprire i loghi sulle scarpe ad arrivare alla decisione di non rimanere in piedi durante l’inno nazionale, informando inizialmente la dirigenza di Denver che nel 1995 sottovaluta la richiesta. Per sua stessa ammissione è stato un processo graduale arrivato prendendo sempre maggiore coscienza della realtà che lo circondava: «Più leggevo e più mi chiedevo perché stavo facendo questa cosa [alzarsi per l’inno, nda]. Non voglio essere una sorta di robot che fa le cose solo perché altre persone le fanno. Mi sono comunicato a chiedere il perché, se fosse la cosa giusta. Alla fine sono arrivato alla conclusione che c’erano tante cose per cui non ero d’accordo e se volevo essere veramente me stesso, dovevo iniziare ad agire e non solo parlare. Questo mi ha portato a non alzarmi».

Inizialmente passa il momento dell’inno a riscaldarsi negli spogliatoi o a bordo campo, lontano dai riflettori. Quando qualcuno comincia ad insospettirsi e gli mette un microfono davanti, Abdul-Rauf ammette candidamente di non volersi alzare volontariamente, perché parla dell’inno come di un “rituale nazionalista”. Sorprende tutti soprattutto quando entra nei dettagli e parla della bandiera americana come un simbolo di oppressione e tirannia: «Questo paese ha una lunga storia di questo tipo. Non penso che si possa discutere questo fatto. Uno non può essere a favore di Dio e allo stesso tempo dell’oppressione. Per me è chiaro che il Corano e l’Islam sono l’unica via. Io non voglio criticare chi si alza per l’inno, quindi non criticatemi se rimango seduto. Non cambierò decisione». In una seconda occasione davanti ai microfoni dice che «il mio dovere è verso il mio creatore, non verso un’ideologia nazionalistica». Parole e gesti che scatenano una reazione a catena di portata enorme, facendolo immediatamente diventare un nemico pubblico. Questo scrive il Chicago Sun Times: «In Grecia lo lincerebbero. È una disgrazia per gli Stati Uniti».

La NBA nel marzo del 1996 decide finalmente di rispondere a quello che diventa ufficialmente “l’episodio dell’inno”, sospendendo il giocatore per una partita e quindi del suo stipendio (pari a circa 32.000 dollari) senza notificare neanche l’associazione giocatori prima. Una cosa forse senza precedenti nei metodi, anche perché nessuno aveva mai violato la regola che stabilisce che al momento dell’inno tutti i giocatori devono stare “in piedi allineati in modo dignitoso”. È vero che lui non si era alzato coscientemente per tutta la stagione (e il compagno Mutombo dice addirittura che già in quella precedente aveva saltato diverse cerimonie), ma la NBA decide finalmente di marcare un prima e un dopo per chiudere la polemica una volta. Chiaramente la squalifica non fa altro che ingigantire la questione a livello nazionale.

L’associazione giocatori si schiera con lui giudicando la pena troppo severa e qualche ora dopo Abdul-Rauf scrive un comunicato per evitare di aggiungere benzina sul fuoco: «Le mie intenzioni non volevano essere di mancare di rispetto verso chi vede nell’inno nazionale una cerimonia sacra. Sono afro-americano, cittadino di questo paese e uno che rispetta la libertà di parola ed espressione». Ormai però l’incendio è divampato e oltre alle minacce personali nei suoi confronti, al rigurgito peggiore di una comunità che sente minacciati i propri valori, esce fuori un sentimento anti-islamico fino ad allora sopito in uno stato comunque a maggioranza conservatore come il Colorado. Per fortuna però non si arriva mai alla tragedia, con il massimo raggiunto da un uomo che entra in una moschea di Denver con l’inno americano a tutto volume sul suo stereo. Abdul-Rauf non si alza per motivi religiosi e quindi l’Islam stesso è visto come nemico della bandiera da qualche membro meno “aperto” della comunità.

In un pezzo chiamato “La conversione di Chris Jackson” uscito nel 2007 e scritto da Robert Sanchez per la rivista 5280 vengono rievocati nel dettaglio quei giorni in cui, in assenza di social network, l’odio nei confronti dell’uomo Abdul-Rauf si riversava attraverso montagne di lettere che andavano dall’offensivo al minaccioso. Abdul-Rauf dice che le conserva ancora quasi tutte in un sacco dentro un armadio nella sua casa di Atlanta: quelle con le minacce di morte le ha buttate, mentre sono rimaste quelle che vanno dal “tornatene in Africa” al “vedi di andare in un posto dove non c’è libertà come qui”. Non sa neanche lui perché, ma le ha tenute tutte.

Per tornare a giocare e non compromettere del tutto la sua carriera arriverà a un compromesso con la lega: si schiera in linea con i compagni durante l’inno, ma passa il tempo pregando con la testa bassa sulle mani aperte. Nonostante questa toppa, i ponti sono bruciati: la città non lo può vedere e non finirà neanche la stagione con Denver, venendo scambiato con i Sacramento Kings per Sarunas Marciulionis. Per quella controversia dell’inno Abdul-Rauf ha di fatto perso tutto: prospettive di una carriera nella NBA, stabilità mentale per concentrarsi nel suo lavoro, milioni di dollari.

Abdul-Rauf in preghiera durante l’inno nazionale.

A quel punto Abdul-Rauf ha 27 anni e sei di esperienza nella lega, è nel teorico picco della carriera di un atleta. Il periodo a Sacramento però è la tomba alle sue aspirazioni di stella nella NBA: nel suo primo anno i Kings provano anche ad alzare i ritmi per l’epoca, giocando 91 possessi a partita (ovvero 11^ nella NBA) per assecondare proprio le caratteristiche delle due guardie Abdul-Rauf e Mitch Richmond, la stella della squadra e unico giocatore veramente sopra la media per il ruolo nella lega. Però la squadra è troppo povera di talento nel resto del roster e finisce sotto la media NBA sia dal punto di vista offensivo che da quello difensivo. Abdul-Rauf scende da 35 a 28 minuti a partita ma pur tirando di meno (calando nella percentuale di Usage e avendo sostanzialmente 4 tentativi in meno a partita) riesce a mantenere le percentuali al tiro in linea con la carriera (con un percentuale reale del 52.4%).

Il suo gioco in rapporto alla squadra crolla totalmente, con una percentuale di assist che passa dal 34.7% a 15.8%, il suo minimo in carriera. Abdul-Rauf si sente probabilmente isolato rispetto al gruppo di cui fa parte e quindi passa da essere un giocatore potenzialmente da 20 punti e 7 assist in ogni partita a uno che non ci pensa minimamente a fare più del minimo indispensabile prendendosi i suoi tiri, chiudendo la stagione con 14 e 3 assist. Il talento è tale da portarlo ad accendersi e segnare contro chiunque, ma dal rimanere caldo per partite intere si passa al massimo a manciate di azioni consecutive.

Anche ai Kings sembra che i Bulls di Jordan lo ispirino particolarmente: in questa segna 11 punti consecutivi nell’ultimo quarto. La chiave però la dà il telecronista a fine gara quando dice che Mahmoud è stato “incredibile per un periodo”. Non per tutta la partita quindi, ma un periodo di essa. Fa tutta la differenza del mondo.

La sua seconda stagione i Kings scelgono al Draft il playmaker Anthony Johnson al secondo giro e lo mettono addirittura davanti a lui nelle gerarchie della squadra. Completamente isolato da tutto e da tutti, Abdul-Rauf gioca 31 partite totali, nessuna da titolare, 17 minuti a gara: scende per la prima volta in carriera sotto i 10 punti di media, crollando nelle percentuali (addirittura 16% da tre con un tentativo a partita). Visto il suo fisico, con quelle percentuali il suo valore è meno di quello di un giocatore di ruolo e una volta scaduto il contratto il rinnovo non arriva. A 29 anni è fuori dalla lega e non riceve neanche inviti per provini. In un’intervista datata 1994, molto prima della controversia sull’inno, diceva: «Ora non so neanche quanto a lungo sarò nella NBA. Dopo un po’ di tempo uno cerca qualcosa di più importante, di più profondo. Parte di me mi dice che sarà alla fine di questo contratto, tra quattro anni».

Giramondo

Come dice lui stesso al New York Times: «Era impossibile giocare negli USA dopo quello, le porte erano chiuse. Ma mi sono detto che la NBA non era l’unico spettacolo al mondo e avrei dovuto usare il talento che Dio mi ha donato, anche se questo significava giocare a Timbuktu». Gioca quindi un anno in Turchia, prima di ritirarsi perché senza stimoli. Torna però subito dopo l’estate per provare a rientrare nella lega: Abdul-Rauf rientra in NBA nella stagione 2000-01 ingaggiato dai Grizzlies con un annuale per fare da riserva a Mike Bibby nell’ultima, epica stagione a Vancouver prima dello spostamento a Memphis. A Vancouver poi Abdul-Rauf trova già in squadra un altro famosissimo musulmano in Shareef Abdur-Rahim, che però è il volto della franchigia e da tre stagioni gira a 20 di media.

L’annata va malissimo, Vancouver vince 23 partite e lui non arriva a giocare 12 minuti a partita. Con l’attentato dell’11 settembre 2001 e tutto quello che succede in termini di impatto emotivo nella società americana per lui - famoso islamico e scettico sulla natura degli attentati - si chiudono definitivamente le porte della lega. Lui pensa al ritiro, passa due anni fuori dal giro, poi decide di usare il basket per guadagnare e soprattutto viaggiare per il mondo, come dice sempre al New York Times: «Sento di poter vivere ovunque, non necessariamente negli Stati Uniti».

E lo fa veramente, visto che gioca un anno a Perm in Russia nell’Ural Great: «Avevo diverse offerte, ma quella dell’Ural era la più interessante». Poi passa due anni in Italia a Roseto degli Abruzzi, dove viene soprannominato “il Califfo” e dove è tornato di recente per festeggiare i 10 anni dalla sua stagione lì e salutare la comunità: «Ho vissuto un’esperienza che mi ha fatto crescere e per questo sono grato ad ogni persona». Dopo una grande stagione passa a Udine, dove però si fa male subito e deve saltare tutta la stagione. L’infortunio non lo ferma e l’anno dopo va in Grecia a Salonicco, quello successivo in Arabia all’Al-Ittihad Jeddah. A 40 anni gioca due stagioni in Giappone a Kyoto, prima di dire definitivamente basta e tornare a casa per occuparsi della sua comunità.

“Poesia! Poesia al Pala Magetti. Endecasillabi sciolti di Abdul-Rauf.”

Il pizzetto che sembra accompagnarlo in ogni immagine è rimasto tutt’ora, anche se più appuntito e decisamente più vicino al bianco che al nero. Vive ad Atlanta perché dopo essere tornato a Gulfport per impegnarsi nel migliorare la comunità, non tutti l’hanno abbracciato e ben voluto, e la sua casa è stata addirittura bruciata. In un’intervista a HoopsHype lui parla della mano del KKK: «La mia casa è stata bruciata completamente quand’ero lì. Alcuni sospettano sia stato il KKK perché c’erano delle insegne del KKK lasciate lì dopo il rogo». Ora si occupa di dare lezioni di basket, filantropia, viene invitato per parlare di religione nelle università e lo scorso anno ha partecipato alla stagione inaugurale della BIG3 di Ice Cube in cui, da giocatore più anziano, è arrivato in finale - nonostante lui scherzi sul fatto che tutti provano a mettersi continuamente spalle a canestro contro di lui essendo più piccolo. Quando negli ultimi mesi lo sport americano vive la protesta durante l’inno a partire dal giocatore di football americano Colin Kaepernick, non ci vuole molto che ad Abdul-Rauf venga chiesto cosa ne pensa, anche perché lui stesso incontra presto lo stesso Kaepernick. Dopo tanti anni Abdul-Rauf torna alla ribalta a livello nazionale.

Quando viene intervistato da TheUndefeatedsi mostra sconsolato: «È indice che non è cambiato molto: le persone prendono le stesse posizioni rischiando le loro carriere, come Colin Kaepernick o Michael Bennett stanno facendo. Guarda quegli atleti prendere quelle posizioni: è la dimostrazione che stiamo ancora avendo a che fare con le stesse situazioni di razzismo, disuguaglianza e violenza della polizia». Nella sua testa la sua battaglia è stata come quella contro i mulini a vento, visto che vent’anni dopo ci si pone le stesse domande di fronte alle stesse reazioni nei confronti di chi non si alza durante l’inno nazionale. Va detto però che se lui era da solo e si è giocato la carriera per questo; oggi molti atleti hanno fatto fronte comune portando il dibattito su scala nazionale non più su chi rimane inginocchiato, ma sul perché. Lo stesso Abdul-Rauf in un’intervista qualche tempo prima sempre per The Undefeatedcosì dice del crescente movimento di giocatori che vogliono dire la loro sulla realtà sociale: «È bellissimo da vedere e sarà difficile da fermare».

HoopHype gli chiede se si sia pentito di aver scelto questa strada che alla fine gli è costata la carriera, lui risponde: «Per me è stato quello che è stato. E se tutto quello che ho fatto mi permette di essere una persona migliore, non la cambierei. Perché ho fatto quel percorso per una ragione, per arrivare dove sono ora. Non cambierei nulla perché penso di essere diventato una persona migliore grazie ad esso».

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