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Come Trump è stato plasmato dal wrestling
24 feb 2020
Il suo rapporto con Vince McMahon è stato fondamentale.
(articolo)
16 min
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Quanti settantenni possono dire di essere comparsi sulla copertina di una rivista di bodybuilding? Vince McMahon, fondatore, presidente e amministratore delegato della WWE, ne aveva 69 e sette mesi quando ha aperto il numero di Muscle & Fitness del marzo 2015, sfoggiando un fisico che farebbe invidia a un culturista ventenne. Da sempre appassionato di bodybuilding, al punto che avrebbe voluto esibirsi e combattere in prima linea nella federazione che poi ereditò dal padre – ma quest'ultimo lo convinse che fosse meglio tenere distinte le figure di wrestler e promoter – Vinny Mac, come viene chiamato il fondatore della WWE Vince McMahon continua ad allenarsi quotidianamente, spesso in compagnia del genero Triple H, che ha diversi anni in meno e qualche titolo mondiale in più. «Lui non vuole ammetterlo» scherzava McMahon con i fotografi sul set, «ma in certi esercizi sollevo più chili di lui». E mentre realizzavano il servizio fotografico, nella redazione di Muscle & Fitness si chiedevano cosa svelasse del Vince McMahon uomo una tale passione per la cultura fisica, così forte da superare i limiti imposti dall'età, e quanto di tutto ciò fosse invece parte del Vince McMahon personaggio. In entrambi i casi non trovarono risposta, perché forse nel caso di Vince McMahon quella distinzione non è chiara nemmeno ai suoi occhi.

D’altra parte, è proprio il wrestling a segnare una linea molto sottile tra l'interprete e il personaggio. I wrestler non sono né lottatori né attori, alcuni li chiamano performer e la WWE insiste nel nominarli superstar, e del resto la stessa disciplina è un animale ibrido: né interamente uno sport, né un semplice intrattenimento – sport entertainment è la definizione che oggi adotta la WWE.

Quella linea, nel wrestling, è anche un elemento tematico cruciale, che si espande e si ramifica in un fascio di rette. Rappresenta la sospensione dell'incredulità, quel confine che parte dalle corde del ring e si allarga alla passerella d'entrata e all'intera arena, un confine entro il quale qualsiasi cosa succeda, per quanto bizzarra, deve essere vera. E rappresenta anche lo spartiacque tra buoni e cattivi, cioè tra face e heel, una linea che certi wrestler scavallano talmente tante volte da renderla confusa, fumosa, una mera parodia.

Poi ci sono anche i personaggi per i quali quella linea non ha alcun valore. Il fascio di rette si è fuso in ciò che gli americani chiamano persona; un'immagine pubblica talmente potente da inglobare quella privata e aderire con ogni ruolo interpretato in pubblico, un po' come un attore che rimane legato a vita a un singolo personaggio. Vincent Kennedy McMahon è esattamente questo tipo di figura.

Foto di Ethan Miller/Getty Images

McMahon è un protagonista unico, e al tempo stesso è molte cose insieme. Miliardario, bodybuilder, campione del mondo di wrestling, icona rock, politico, meme di straordinario successo, tappabuchi, deus ex machina e garante finale di qualsiasi storyline della WWE. Ha creato qualcosa che prima di lui non esisteva, ovvero il wrestling come fenomeno globale e chiave di volta tra lo sport e la cultura pop, e ha saputo adattare la sua creatura, cosa ancora più difficile, attraverso le tendenze di quattro decenni. La sua vita è una storia prettamente americana, sia perché si allinea con i cliché del cosiddetto Sogno Americano, sia perché dice molte cose sull'America degli ultimi quarant'anni. Ed è una storia che s'intreccia con quella di chi questa America è finito a governarla: Donald Trump.

L’incontro

Anche Donald Trump ha una persona ingombrante e composta da molteplici identità. Quello del politico, se vogliamo, è solo l'ultimo dei suoi ruoli, ma come per Vince McMahon interpretazione e realtà si fondono. E se considerassimo Trump e McMahon alla stregua di normali performer allora potremmo quasi dire che per loro essere repubblicani e conservatori, nel loro caso, sembra essere una naturale attitudine più che una ragionata scelta politica. Ma, come abbiamo detto, con i performer bisogna sospendere l’incredulità, mentre con i politici e gli imprenditori no.

Secondo la finzione, le loro strade si incrociano per la prima volta nel 2007. Durante una puntata di Monday Night Raw, Donald Trump irrompe in un segmento che vedeva protagonista Vince, il Fan Appreciation Night, lanciando banconote sugli spalti e sfidando McMahon. Lo provoca con una frase significativa, sulla quale torneremo: “Affermi di sapere cosa piace al pubblico, ma questo non è vero”.

Trump, in quel periodo, parlava dei gusti del pubblico con cognizione di causa: era all'apice del successo con The Apprentice, il reality show che lo vedeva protagonista. In poche settimane nasce una rivalità confezionata per concludersi a Wrestlemania XXIII in una variante della lucha de apuestas, come viene chiamato nella lucha libre messicana un match che condanna a un'umiliazione lo sconfitto: invece della maschera, come da tradizione messicana, però, in questo caso il perdente mette in palio i capelli. Nella “Battle of the Billionaires” però, i miliardari fanno salire sul ring due campioni a rappresentarli: il fu Umaga (è morto nel 2009) per Vince McMahon e Bobby Lashley per Trump. Vincerà quest'ultimo, da cui la celeberrima scena in cui Trump e Lashley attaccano Vince e poi lo castigano, seduto su una poltrona da barbiere, rasandolo a zero.

Nonostante il match non spicchi per qualità, l'angle è divertente e di grande successo, al punto che qualche anno dopo, nel 2013, Trump viene persino introdotto nella Hall of Fame della WWE. Ma in realtà, quel posto nell'arca della gloria Donald Trump se l'era già guadagnato per via di una lunga frequentazione, rapidamente evolutasi in amicizia, con Vince McMahon. Lungo la scalata al potere, i due si erano trovati sulla stessa cordata.

La scalata

All'inizio degli anni '80 Vince McMahon ha appena ereditato la WWF dal padre. Ha un grande sogno, e idee talmente chiare che per realizzarlo ci mette pochissimi anni: togliere il wrestling dalla dimensione locale in cui vivacchiava, ancora legato alle dinamiche di un circo itinerante, e inglobare le federazioni più piccole per proiettarne i talenti su scala prima nazionale e poi mondiale. Questo significava creare un fenomeno pop dal nulla. Per farlo Vince si aggancia ai trend dominanti del momento.

Organizzando concerti insieme alla moglie Linda si era accorto in anticipo di quanto spazio il rock, insieme al suo immaginario, avrebbe avuto nella colonna sonora degli anni '80, dalla progressiva commercializzazione di certi rami dell'heavy metal – non a caso la stella degli anni '80, Hulk Hogan, bazzicava dalle stesse parti dei Metallica – passando per gli appariscenti gruppi glam e il rock più patinato, sconfinante nel pop. La WWF che aveva in mente Vince si sarebbe inserita alla perfezione in un panorama che parlava di musica ad alto volume, motociclette, muscoli, giubbotti di pelle, violenza come mezzo di risoluzione dei problemi e una sana dose di patriottismo. Mancava solo lo strumento adatto per compiere il salto decisivo verso la popolarità.

Vince McMahon negli anni '80 ha colto in pieno lo slancio del media televisivo, balzando sul carro della nascente MTV con l'appoggio di figure iconiche come Cindy Lauper e Mr. T. Donald Trump all'epoca aveva già un tentacolare impero finanziario, era da sempre un grande appassionato di sport, come boxe e football, e ne adorava gli aspetti più eclatanti. La connessione con Vince McMahon forse era inevitabile.

Foto di Mark A. Wallenfang/Getty Images

Certo, Trump è un imprenditore da giacca e cravatta, non un rocker da giubbotto di pelle, ma l'humus culturale in cui è cresciuto e il bacino elettorale in cui andrà a caccia di consensi non è molto distante da quello che rappresenta il pubblico della WWF: c’è il culto della forza fisica, ad esempio, ma anche la convinzione che l'uso della forza premi sempre i giusti. E oggi che sappiamo che ogni suo messaggio pubblico è calibrato alla perfezione, non suonano più così casuali tutti quei riferimenti ai “big strong guys”.

The Donald non appare in primo piano con la WWF, ma ospita Wrestlemania IV e V, nel 1988 e 1989, nel suo Trump Plaza di Atlantic City dando una bella spinta alle ambizioni di McMahon. I due coltivano un’amicizia persino intima: il wrestler Chris Jericho ha raccontato che Vince una volta si sentì talmente a proprio agio da fumare uno spinello davanti a Trump, e alle sue obiezioni rispose: “Vuoi vietarmelo? L'ho appena fatto!”. E l’evoluzione successiva dei rispettivi personaggi è talmente vicina da poter arrivare a pensare che si siano influenzati a vicenda.

Nel suo ruolo on screen, Vince McMahon incarna sempre più l'immagine che Donald Trump sta assumendo presso l'opinione pubblica, estremizzata per ragioni sceniche: il self-made man autoritario e un po' arrogante che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno e comanda a bacchetta persino i giganti del ring. La sua musica d'ingresso recita “No chance in hell” e la sua catchphrase diventa “You're fired!” (non a caso, uno dei tormentoni di Donald Trump in The Apprentice). Nessuno, letteralmente nessuno, ha un contratto assicurato quando il tuo datore di lavoro è Vince McMahon. Se invece guardiamo quelle occasioni in cui Vince McMahon si presenta al pubblico in veste di imprenditore, fuori dal microcosmo del wrestling (come quando introdusse la XFL e la WBF, federazioni di football e bodybuilding entrambe fallite in breve tempo), appaiono evidenti somiglianze con più recenti comizi del Trump politico. Stesso linguaggio: semplice, diretto, improntato a una dialettica “noi contro di loro”, ricco di slogan e frasi ricorrenti. Stesso atteggiamento: autoritario, autocelebrativo, aggressivo per mettere a tacere le domande della stampa prima che si trasformino in critiche e obiezioni. Persino una gestualità simile, una mimica facciale esasperata che diventerà materia prima per i meme, in un’era in cui i meme ancora non esistevano. Stesso linguaggio, dunque, stesso retroterra culturale e stesso pubblico di riferimento. Ma parafrasando Wrestlemania XXIII, Trump sosteneva di sapere cosa piacesse al pubblico, mentre Vince no. E questo, forse, non è così vero.

Il bivio

La prima frattura tra le due parabole avviene infatti tra gli anni '90 e il 2000, quando Trump è rimasto fedele alla propria immagine e al proprio pubblico, pur andando incontro a un calo di popolarità, mentre McMahon è riuscito ad adattarsi accettando il cambiamento. In quel periodo McMahon si è reso conto che il pubblico era stanco di personaggi eclatanti come Hulk Hogan, di gimmick macchiettistiche, di storyline telefonate dove il buono trionfa sul cattivo. Lo spettatore adesso cercava wrestler che fossero più simili a un atleta, anche nel look, personaggi ricchi di sfumature psicologiche e una narrazione hard boiled fatta di sangue, violenza, cupezza e volgarità.

McMahon realizza tutto questo con la Attitude Era, forse il suo capolavoro, nonché l'idea che gli permette di rilanciare la popolarità della WWF divorando la concorrenza di WCW e ECW (altre due promotion di wrestling). E all'interno della Attitude Era anche il suo ruolo inizia a cambiare. Opposto sul ring al gimmick di Stone Cold Steve Austin, che con i suoi modi rudi e l'atteggiamento ribelle conquistava i cuori dei blue collar e della classe proletaria, Vince accetta di declinare in negativo il suo personaggio on screen. Mr. McMahon diventa un datore di lavoro folle, ossessionato dal potere, dal denaro e dal controllo, l'incarnazione dei mali del capitalismo. Nel wrestling indirizzare il tifo del pubblico è un lavoro delicato, un gioco di equilibri. Assumendo il ruolo di uno degli heel più odiati di sempre, Vinny Mac ha gonfiato a dismisura la passione del pubblico – in gergo, li ha “mandati over” – per Stone Cold Steve Austin prima e The Rock poi.

Tra anni 2000 e 2010, invece, l'adattamento si è rivelato più difficile, in primo luogo perché le odierne dinamiche dei social network mettono a dura prova la sospensione dell'incredulità su cui si regge il wrestling, chiedendo ai lottatori di esporsi al pubblico in maniera indipendente dai personaggi. Nonostante questo, Vince ha accettato di cedere parte del controllo creativo al genero Triple H e ha lanciato la WWE nella nuova rivoluzione dello streaming e dei contenuti on demand, cercando al contempo di seguire – sebbene con ritardo – tendenze come l'esplosione delle MMA o l'attenzione per lo sport femminile (nel 2019 si è celebrato il primo main event di Wrestlemania tutto tra donne).

Negli anni McMahon ha ulteriormente ammorbidito il suo personaggio on screen, da un lato facendo spazio ai figli Stephanie e Shane, dall'altro prestandosi a ulteriori storyline dove agiva da parafulmine per l'odio del pubblico, finendo persino ridicolizzato in segmenti comici, come quando si calava i pantaloni per invitare i rivali nell'esclusivo “Kiss My Ass Club”, o in scenari che lambivano il trash televisivo. In un frangente finse addirittura la propria morte, per poi essere strappato dalla finzione scenica dalla tragedia di Chris Benoit, e in un'altra occasione ammise di essere il padre illegittimo di Hornswoggle: una vicenda dalle pieghe grottesche, visto che Hornswoggle è affetto da nanismo e interpretava perlopiù ruoli comici con la gimmick del folletto irlandese. La storyline culminò in un violento match uno contro uno tra Hornswoggle e lo stesso McMahon all'interno della gabbia d'acciaio, dopodiché Vinny Mac si tolse d'impiccio lasciando subentrare il wrestler irlandese Fit Finlay come più appropriato genitore del folletto.

La connessione con Trump è rimasta viva, ma sotterranea. Ci sono stati momenti di frizione, come quando Trump si è opposto ai rapporti sempre più stretti che la WWE stringeva con l'Arabia Saudita sconsigliando l'organizzazione dell'evento Crown Jewel nel 2018, e del resto la stessa WWE ha attraversato momenti bui che ne hanno messo a nudo gli aspetti più controversi dell'attività gestionale: in una puntata del suo Last Week Tonight, John Oliver ha criticato l'operato di Vince McMahon per la condotta finanziaria poco trasparente, per i ricorrenti problemi legali e soprattutto per la scarsa tutela degli atleti in termini di salute e previdenza sociale: come diceva il wrestler “Rowdy” Roddy Piper, “probabilmente non vivrò abbastanza a lungo da riscuotere la mia pensione dalla WWE” – e in effetti, è morto prima di riuscirvi. Ma la roboante entrata in scena di Donald Trump sullo scenario politico ha fatto riaccendere l'amore, e stavolta a scena aperta.

Nel 2010 e nel 2012 Linda, moglie e compagna di affari di Vince McMahon, si candida al Senato con il Partito Repubblicano – e tra i fan più intransigenti nascono alcune polemiche perché, si intuisce, certe storyline dell'epoca paiono indirizzate in ottica “conservatrice” in vista delle elezioni. Quando Donald Trump diventa il cavallo da corsa dei repubblicani nel 2016, Vince McMahon lo sostiene con fierezza e con un ingente apporto economico – del resto, era già stato il principale finanziatore della Trump Foundation, chiusa nel 2019 in seguito a un ordine del tribunale. In cambio, ottiene un posto a Washington per Linda McMahon, nella Small Business Administration (un’agenzia del governo degli Stati Uniti che ha il ruolo di aiutare le piccole e medie imprese), ruolo da cui si è dimessa nel 2019 per andare a dirigere America First Action, uno dei più importanti comitati di raccolta fondi per la prossima campagna elettorale di Trump.

I rapporti tra i due innestano una nuova marcia anche sul fronte televisivo. La scorsa estate, Smackdown, lo show settimanale “secondario” della WWE, ha trovato una nuova casa presso Fox, la rete televisiva con cui Trump ha una relazione privilegiata, e si vociferava che lo stesso Presidente degli Stati Uniti sarebbe apparso in diretta per celebrare l'occasione. Vince McMahon ha colto la palla al balzo provando a togliersi un vecchio sfizio: nel 2020 ripartirà la sua lega indipendente di football americano, la XFL, e ha promesso che terrà qualsiasi questione sociale fuori dal campo di gioco. È un chiaro riferimento alla protesta scatenata da alcuni atleti NFL nel 2016, con Colin Kaepernick come più agguerrito portavoce, che hanno cominciato a inginocchiarsi durante l'esecuzione dell'inno americano pre-partita per richiamare l'attenzione sulle disuguaglianze sociali e razziali negli Stati Uniti. Un'iniziativa, aspramente criticata da Trump, che ha assunto connotati politici e innescato una discussione che si è allargata anche agli altri sport americani, ampliando la spaccatura tra NBA (che si pone a difesa delle minoranze e ha tra le sue stelle endorser democratici come LeBron James) e NFL (conservatrice, con meno tutele per gli atleti, e nelle cui dinamiche Kareem Abdul Jabbar ha individuato vestigia del rapporto tra padroni – bianchi – e schiavi – neri).

Foto di Michael N. Todaro/Getty Images

Era inevitabile che McMahon si schierasse apertamente con Trump, ora che diventando Presidente degli Stati Uniti ha portato al culmine il percorso di entrambi verso il potere. Ma nel wrestling, intanto, molto è cambiato dagli anni '80. Gran parte della fanbase della disciplina è diventata per certi versi afferente alla galassia nerd: ama il wrestling in quanto fenomeno pop, ma degli anni '80 è rimasta solo la componente estetica. Una fetta consistente di pubblico si riconosce, ad esempio, nei valori trasmessi da uno dei wrestler di più recente successo, Daniel Bryan, autentico nerd hero, che nei promo esterna spesso le sue convinzioni della vita reale: è vegano, anticonsumista, antispecista, attento al cambiamento climatico e sostenitore di politiche liberali. Quando interpreta un personaggio heel, come nella fase attuale della sua carriera, diventa un ambientalista pedante che si dichiara “il campione del pianeta” e si reputa intellettualmente superiore agli spettatori, ma è significativo che il pubblico, ormai immune alla distinzione tra buoni e cattivi del wrestling vecchia scuola, continui a tifarlo e apprezzarlo; anzi, gli appassionati cercano eroi di simile fattura anche nel variegato panorama dell'indie wrestling.

La WWE attinge dalle federazioni indipendenti per assoldare nuovi talenti, certo, ma questo non basta a sanare la frattura che si è creata agli occhi del pubblico e che ha portato la creatura di Vince McMahon a diventare qualcosa di molto diverso da ciò che era all'inizio degli anni '80, incarnando quello stesso ordine delle cose che lui mirava a sbilanciare. Non è casuale che in uno degli ultimi e più trascinanti promo di Daniel Bryan, il wrestler se la sia presa proprio con McMahon in quanto rappresentante dei baby boomer, categoria che definisce “i più grandi parassiti di questo mondo”. “Tutta questa gente china il capo di fronte a te”, dice Bryan, “ma non si rendono conto che tu prendi, prendi e prendi senza mai dare nulla in cambio. Ogni singola volta, metti il profitto davanti alla gente e al pianeta”. Sembra una critica generica che un elettore democratico potrebbe rivolgere a Donald Trump.

Vince McMahon ha fagocitato il wrestling con il suo marchio, prima WWF e poi WWE, fino a diventare sinonimo stesso di wrestling. Allo stesso modo, ma con un'accelerazione più brusca, Donald Trump è diventato il volto del Partito Repubblicano e, in un certo senso, l'essenza dell'America conservatrice. Sono loro a dettare le regole adesso, e tocca agli altri inventarsi nuove idee per sovvertire l'ordine.

Il wrestling è un grande gioco di metafore, e tramite il wrestling intuiamo come la società abbia assunto il modello di uno show, e quanto il nostro bisogno di intrattenimento sia cresciuto al punto di lasciarci conquistare da una strategia comunicativa che nei confronti del wrestling ha un grande debito: Donald Trump sa come spettacolarizzare il linguaggio politico, parla di attriti internazionali come se fossero feud ben orchestrati da risolversi in un match uno contro uno, e si rivolge agli avversarsi democratici come farebbe un perfetto heel, autoritario e temuto, odiato ma rispettato. Esattamente come ha fatto Vince McMahon sul ring e nelle sue immediate vicinanze per gran parte della sua carriera.

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